* Attenzione alcune foto presenti nell’articolo, potrebbero urtare la vostra sensibilità
Continuano ad affiorare corpi dal mare al largo di Abu Qamash, estremità occidentale della costa libica. “Siamo rientrati dall’ennesimo giro di perlustrazione in mare. Abbiamo recuperato altri otto corpi” dice a Open Migration Musaddeq Al Aaisi, l’ufficiale di guardia al molo di Abu Qamash che la notte tra il 16 e il 17 agosto scorsi ha fatto scattare i soccorsi per quei naufraghi da due giorni alla deriva. Già la sera di Ferragosto Alarm Phone aveva ricevuto una distress call da un gommone con a bordo circa 86 persone a 30 miglia dalla costa libica. Per oltre ventiquattro ore si erano perse le loro tracce, come ha continuato a twittare la piattaforma online che dal 2014 raccoglie le richieste di aiuto dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo.
🆘~65 persone in pericolo in acque libiche! Un gommone bianco con ~65 persone a bordo ci ha contattato poiché il loro motore non funziona e l’acqua sta entrando nella barca. Chiedono urgente soccorso. Abbiamo allertato tutte le autorità in #Europa, #Libia e #Tunisia. pic.twitter.com/SHvNljMula
— @alarmphone (@alarm_phone) August 15, 2020
Era notte fonda e l’ufficiale di polizia era di guardia al molo vicino la fabbrica di PVC di Abu Qamash, quando verso le tre e trenta del mattino ha sentito urla provenire dal mare. Al Aaisi ha capito subito che cosa stesse accadendo. Periferia nell’estremo Ovest della città di Zwara, Abu Qamash è uno dei principali snodi del business legato ai migranti in Libia. Già ai tempi di Gheddafi, da queste spiagge partivano centinaia di uomini, donne e bambini ogni anno. Al Aaisi ha chiamato la Direzione di Sicurezza locale, organo militare che coordina tutti gli organismi di sicurezza in città, questa a sua volta ha contattato la Sicurezza Costiera locale, unica unità marina in loco che ha a disposizione un’imbarcazione. La Guardia Costiera di Zwara infatti da mesi è sprovvista di imbarcazioni, dopo che il motoscafo da anni in dotazione è andato fuori uso. La Sicurezza Costiera si trovava a oltre mezz’ora di navigazione dal punto dove sarebbe stato localizzato il barcone in distress. Al Aaisi e uno dei responsabili della Direzione di Sicurezza hanno dunque preso “in prestito” una barca di pescatori attraccata al molo e sono usciti in mare. Erano le 4 del mattino circa quando hanno avvistato il gommone, praticamente in acqua, a due miglia dalla costa. Sono riusciti a caricare a bordo della piccola imbarcazione 25 persone. Un uomo con un braccio ed una gamba ingessati, ha ricordato l’ufficiale di polizia, ha rifiutato i soccorsi. “Io ce la faccio. Aiutate gli altri” avrebbe insistito. Il tempo necessario per accompagnare a terra i primi naufraghi soccorsi, e subito Al Aaisi è uscito di nuovo in mare. “Nove erano ancora aggrappati a quel che rimaneva del gommone. Due li abbiamo recuperati mentre nuotavano verso riva, mentre altri due naufraghi hanno raggiunto la riva a nuoto da soli” è il resoconto dell’alba dello scorso 17 agosto dell’ufficiale di polizia.
Molti dei sopravvissuti avevano ustioni gravi, mentre altri erano sotto shock e feriti lievemente. Per via delle restrizioni da Covid-19, i feriti non potevano essere portati in ospedale. In Libia, in particolare nelle ultime settimane, il numero dei contagiati e dei decessi sta aumentando esponenzialmente. Inoltre il direttore del centro di detenzione di Zwara, dove sarebbero dovuti essere portati i sopravvissuti secondo il protocollo che non fa distinzione tra migranti soccorsi e migranti intercettati in mare, si è rifiutato di arrestare i naufraghi. Come altri direttori di centri che rispondono al Dipartimento Contro la Migrazione Illegale (DCIM) del Ministero degli Interni, anche il direttore della prigione di Zwara protesta contro le autorità centrali, lamentando scarse risorse a fronte di importanti vuoti normativi che rendono la gestione della migrazione irregolare un vicolo cieco.
L’unica opzione a disposizione dei direttori dei centri, per processare i casi dei migranti in loro custodia, è il rimpatrio cosiddetto volontario assistito operato dall’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (OIM). Ma per via delle restrizioni da Covid-19, anche l’OIM per cinque mesi non ha operato i voli charter per i rimpatri. La stessa OIM da aprile denuncia un altro fenomeno importante: di circa la metà delle oltre 6.200 persone intercettate in mare e riportate a terra dall’inizio del 2020, si perdono le tracce dopo essere state allontanate dai punti di sbarco sulla costa. Molti migranti recentemente detenuti nel centro DCIM di Zawiya parlano di segrete dove i migranti vengono tenuti lontani dagli occhi indiscreti delle agenzie internazionali, con la complicità di operatori ONU locali. Queste segrete sarebbero il teatro di torture a fini estorsivi, come riscontrato anche da alcune fonti diplomatiche operanti in loco.
Tutti i sopravvissuti del naufragio del 17 agosto, feriti gravi e meno, sono stati portati al centro della Direzione di Sicurezza. Lì due dottori, secondo quanto affermato dal capo dell’Unità di crisi di Zwara Saddeq Al Jiash, avrebbero dato loro il primo soccorso. A capo dell’unità di crisi di Zwara, Al Jiash nel 2016 volle fortemente un cimitero da dedicare alle vittime del traffico degli esseri umani riportati a riva dalla corrente. Questo dopo che nell’angolo ufficialmente dedicato “ai non musulmani” nel cimitero locale, ma in pratica disposto per i migranti rinvenuti in mare, già nel 2015 non c’era più spazio.Appena rilasciati dalla Direzione di Sicurezza, i sopravvissuti hanno raccontato di quanto è successo in mare, dell’aggressione e del naufragio. Le loro testimonianze sono state riportate da Annalisi Camilli di Internazionale e Nello Scavo di Avvenire. Come ricostruito dal personale di sicurezza libico che ha scoltato i migranti nelle ore immediatamente successive al naufragio, il gommone su cui questi erano stipati è stato avvicinato da un’imbarcazione con libici ed egiziani a bordo. Qualcuno di questi è sceso e ha preso i loro telefoni e il satellitare. I criminali hanno poi intimato ai migranti di consegnare loro il denaro. Davanti al rifiuto e alle preghiere di lasciarli andare, uno dei libici ha aperto il fuoco puntando al motore. Mentre l’imbarcazione prendeva fuoco, i criminali si sono allontanati. Nel porto di Zwara sono tanti i lavoratori stagionali provenienti dall’Egitto. E la dinamica dei fatti lascia pensare a pescatori in mare per lavoro a poche miglia dalla costa libica, ma che poi avrebbero aggredito i migranti certi dell’impunità che regna nell’anarchia libica. Ed erano comunque armati – qualora si trattasse di pescatori e non militari – perché dal 2011 nessuno esce in mare in Libia disarmato.
Al fianco dei libici impegnati nelle operazioni di recupero dei corpi, ci sono anche due sopravvissuti al naufragio del gommone, un ragazzo del Chad ed un altro del Sudan. “Il loro obiettivo oggi è dare almeno degna sepoltura ai loro compagni di sventura” dice l’ufficiale di Zwara. Sono trenta i corpi recuperati al largo di Abu Qamash dallo scorso 17 Agosto. Nel fine settimana di Ferragosto di certo ci sono stati due naufragi al largo delle coste di Zwara, ma forse anche di più. La scorsa settimana è stato recuperato anche il corpo senza vita di un ragazzo libico. “Alla notizia del naufragio, i genitori del ragazzo sono venuti qui a Zwara per chiederci se avessimo trovato il figlio” racconta Al Aaisi, “Avevano in mano la sua foto. E di lì a poco lo abbiamo trovato”. Il ragazzo libico, originario della città dell’entroterra di Gharyan, era partito a bordo di una barca in fibra con altri sedici migranti. Ci sarebbe stato un guasto al motore a poco più di un miglio dalla costa. Il libico, una donna e suo figlio dell’Africa Occidentale sono le tre vittime. Gli altri quattordici naufraghi sono riusciti a raggiungere la costa a nuoto.
Today, 22 bodies were retrieved by the Libyan Red Crescent in Zwara, #Libya.
These painful deaths are the result of the increasingly hardening policy towards people fleeing conflict and extreme poverty, and a failure to humanely manage migration flows. pic.twitter.com/s0oW0EVGwx
— Federico Soda (@fedsoda) August 23, 2020
Già nel tardo pomeriggio dello scorso ferragosto, Alarm Phone aveva lanciato l’allarme per un’imbarcazione con 65 migranti a bordo in difficoltà nella zona SAR libica, precisando che avevano già provveduto ad informare le autorità competenti in Libia, ma dai libici nessuna risposta. Deanna Dadusc di Alarm Phone dice a Open Migration “Noi abbiamo 6 numeri di telefono per la Libia, ma non abbiamo idea di chi risponda o dove. Non sappiamo se siano a Tripoli o Zuwara”. Il rimpallo delle autorità italiane e maltesi ha fatto il resto.
“Fuggiamo dalle nostre case, fuggiamo verso l’esilio. Ma la migrazione è altrettanto crudele, è insopportabile. Risucchierà le nostre anime, inevitabilmente” così scriveva il poeta sudanese Abdel Wahab Latinos, prima di morire annegato nel Mediterraneo all’alba dello scorso 17 Agosto.
Nella settimana di ferragosto, tra il 13 e il 20 agosto, quasi 900 persone a bordo di 14 imbarcazioni diverse hanno chiamato Alarm Phone. Circa 100 sono state riportate in Libia, 540 hanno raggiunto l’Europa, ma più di 100 persone sono morte o finite disperse in mare. Dall’inizio dell’anno sarebbero oltre trecentocinquanta i migranti morti nel Mediterraneo Centrale, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale per la Migrazione (OIM). Ma questo non è che un parziale bilancio di una guerra che quotidianamente uomini, donne e bambini dal sud del mondo devono combattere contro i governi europei che continuano a negare quei diritti su cui circa settanta anni fa fu fondata la stessa Europa.
Foto di copertina via Twitter