Tutte le sere prima di dormire Alexandra si affretta a chiudere le tende della finestra dello studio che affaccia sulla strada, in un palazzo dei primi del Novecento di un quartiere residenziale non lontano dalla stazione centrale, oggi luogo di transito e accoglienza degli sfollati della guerra. Poi accatasta coperte e cuscini nel corridoio e spera di non doversi svegliare, come succede sempre più spesso, col rumore delle sirene antiaeree. “Mi hanno detto che la parte più sicura della casa è questa, fra i due muri portanti – spiega – perciò preparo tutto e in caso di allarme ci mettiamo qui, seduti per terra. I nostri vicini invece preferiscono raggiungere il seminterrato, ma fa troppo freddo, e poi bisogna calcolare il tempo che ci si mette a fare le scale. Non saprei dire cosa sia meglio, ognuno fa quello che sente più giusto in questi momenti.”
Dal 24 febbraio a casa di Alexandra, avvocata e socia di uno studio legale con un marito, una figlia di quattro anni e mezzo, una mamma e una sorella che vivono con loro, si dorme vestiti, con una tuta sportiva che consenta almeno di poter scappare all’improvviso senza ritrovarsi in pigiama; e con le valige pronte, che tutti sperano di non dover usare mai. A Lviv finora non c’è stato bisogno di fuggire di corsa, anzi, sono gli sfollati del resto del paese ad arrivare qui, e la città è diventata in pochi giorni il più grande centro di accoglienza sul territorio ucraino, ma anche polo logistico di smistamento degli aiuti, locali e internazionali, civili e militari.
Almeno finora, perché la guerra è arrivata anche qui, nell’Ucraina occidentale, a pochi chilometri dal confine con la Polonia e dall’Europa. L’altra notte, dopo alcuni giorni di tregua, le sirene sono tornate a suonare, e sono state bersagliate Ivano-Frankivs’k a sud e Lutsk a nord di Lviv, a meno di 200 km di distanza.
La mamma di Alexandra non dorme più e si alza presto per accendere la tv in cucina, approfittando della colazione da preparare per tutti. Sullo schermo si alternano le immagini dei bombardamenti con quelle dei carri armati, i discorsi del presidente Zelensky e i commenti dei giornalisti in studio; poi puntuale arriva la grafica con i mezzi abbattuti ai russi, i morti fra i soldati, i nuovi prigionieri, le vittime civili. Intorno alle undici del mattino la sirena suona ancora. Alexandra è fuori casa, ha trovato riparo in un “rifugio” all’interno di un locale. I gestori dicono che sia tutto in cemento armato, e quindi sicuro, ma lei è scettica, perché non è interrato e oltretutto si trova su una delle zone più alte della città. Chiama la madre, si assicura che sia nel corridoio con la piccola Emma, che non si muovano da lì finché non le richiama per dirgli che l’allarme è cessato.
I giovani qui hanno anche un’app per lo smartphone che li allerta in caso di pericolo, e che è diventata un ulteriore strumento di sicurezza oltre alle sirene.
La notte fra sabato 12 marzo e domenica 13, per la prima volta, al suono dell’allarme è seguito quello dello scoppio dei missili a pochi chilometri dalla città, nella base di addestramento militare di Yavoriv, il Peacekeeping and Security center, lungo la strada che porta al confine con la Polonia, una via cruciale non solo per l’uscita degli sfollati ma soprattutto per l’ingresso dei rifornimenti. Un luogo nel quale si preparano i soldati, ucraini e internazionali, e nella quale pare fossero presenti anche addestratori di diverse nazionalità. Ci sono stati almeno 35 morti.
Le valige della famiglia di Alexandra sono pronte, sospese come le vite di queste e di tante altre persone che non sanno quale sia la scelta migliore: mandare la figlia piccola all’estero con la nonna e restare lì? Partire tutti, anzi tutte, perché il marito non potrebbe comunque lasciare il paese, per andare dagli amici che in Polonia gli hanno offerto ospitalità e uno spazio indipendente a casa loro? Dunque essere ospiti, senza lavoro e senza un progetto, con il cuore e la testa al proprio paese? E per quanto tempo?
“Io finora ho deciso di restare – dice Alexandra – perché la mia casa è il posto che mi dà più sicurezza, ma dalle ultime notizie, col peggioramento della situazione e con questa sensazione che il pericolo si stia avvicinando non so più cosa significhi stare al sicuro. Lo sarei in Europa? Se dovesse esserci un incidente nucleare causato da questa guerra, saremmo tutti in pericolo. E quindi vale la pena scappare? Ho tanti amici che hanno lasciato Lviv alla fine di febbraio, molti di loro si sono pentiti di averlo fatto così presto, e oggi dicono che avrebbero potuto aspettare. Io sto aspettando, ma ora ho paura che quando dovessi decidermi sarà troppo tardi.
La sua bisnonna aveva origini russe, e fu la prima insegnante arrivata a Lviv ad aprire una scuola. La lingua della famiglia è sempre stata il russo, e lei stessa l’ucraino l’ha imparato alle elementari, ed è diventata perfettamente bilingue. “Non si era mai posto il problema, perché la lingua non identifica la nazionalità. Io sono ucraina, nata e cresciuta a Lviv, e non vorrei vivere da un’altra parte.”
Alexandra ha una famiglia e un lavoro che le riempiono le giornate, nella vita che lei chiama “normale”. In quella di oggi, stravolta, trascorre la maggior parte del tempo in casa, con la sorella e la mamma, a realizzare tourniquet artigianali da mandare ai soldati al fronte che non hanno nemmeno un kit di primo soccorso. “Tutti qui si danno da fare, e nessuno si tira indietro – racconta – ora c’è da procurarsi questi attrezzi ma da acquistare non se ne trovano più, e quindi ci siamo ingegnate con vecchie lenzuola da tagliare a strisce, piegare a metà, cucire a macchina, e bastoncini di legno levigati a mano con un taglierino e inseriti in un’asola di stoffa creata appositamente, da stringere per fermare il sangue, come quelli professionali. Il principio è lo stesso, anche se le fattezze sono più rudimentali.” È da giorni che lavorano come una perfetta catena di montaggio, con forbici, ferro da stiro, macchina da cucire, sacchetti di plastica dove riporre singolarmente i pezzi finiti, con i quali riempire gli scatoloni.
“Ora cominciano a scarseggiare le medicine, anche le più banali – aggiunge – e siamo riuscite a trovare qualche decina di scatole di ibuprofene. Anche queste stanno per partire verso il fronte.
L’altro giorno abbiamo sentito una parente che vive in Russia, e che ci ha detto di raggiungerla a Mosca: non si rendono conto lì di quanto stia accadendo, e succede in molte famiglie di non essere creduti nemmeno dai propri parenti, tanto è il lavaggio del cervello ricevuto negli anni. Non credono a questa guerra, pensano che le immagini che arrivano siano create apposta dalla propaganda antirussa. Altrimenti come farebbero anche solo a pensare che chiunque di noi voglia andare lì ora?”
Il marito di Alexandra, che nella vita “altra” lavora in una compagnia petrolifera, in questa coordina gli aiuti che confluiscono al Palazzo dell’arte di via Kopernyka, diventato uno dei principali centri di raccolta e smistamento di cibo, medicine e vestiti, oltre ad offrire un pasto caldo a chi ha bisogno e giocattoli ai bambini. “Spesso parliamo di cosa sia meglio fare, e a seconda delle notizie che arrivano è lui a incoraggiarmi a portare via nostra figlia da qui – racconta la giovane donna – ma non abbiamo ancora deciso nulla, perché la verità è che ho paura per l’incolumità di mia figlia, ma ho anche paura a farle affrontare un viaggio interminabile, verso un posto che non conosce, del quale non parla e non capisce la lingua, per un tempo indefinito dove resteremmo comunque sospesi. Mi consola saperci ancora qui perché so che posso essere utile a chi ha bisogno. Le amiche che hanno lasciato la città le sento molto demoralizzate al telefono, più di me, che la paura sto imparando a gestirla.”
La bambina e la nonna intanto non escono più da giorni, dall’ultima volta che sono state colte dall’allarme mentre erano al supermercato. “Abbiamo pagato la spesa il più in fretta possibile e siamo corse in macchina verso casa, nel mentre abbiamo sperato che non accadesse nulla, perché non avremmo saputo dove andare. Restare comincia a spaventarmi, ma anche l’idea di quel viaggio che vedo fare a chi arriva qui e riparte mi terrorizza.”
Alexandra non si avvicina più alla stazione da quando è cominciato il flusso dei profughi: “non riesco a guardare quei bambini e pensare che a breve fra loro potrebbe esserci mia figlia. Fino a venti giorni fa la bambina frequentava la scuola di inglese, ora è a casa con la nonna e chiede quando finisce la guerra. Non so cosa afferri di quanto sta accadendo – dice – ma le sirene le sente e sa che dobbiamo correre nel corridoio e restare seduti.”
È ora di cena, la mamma di Alexandra sta preparando il borsh, l’arrosto, l’insalata, le uova. Fino alla scorsa settimana hanno ospitato una famiglia in fuga con tre bambini: “praticamente non si faceva altro che cucinare per tutti, a tutte le ore – scherzano – eravamo in dieci a mangiare, noi che a casa abbiamo mangiato sempre così poco, abituati alla vita frenetica, a non rientrare a pranzo; ci siamo ritrovati a fare scorte di cibo come mai prima, e anche di prodotti per l’igiene.”
In bagno c’è una catasta di pacchi di carta igienica, e la vasca è stata riempita d’acqua. Per l’emergenza, dovesse servire, non si sa mai.
In tv trasmettono un altro discorso del Presidente. “In questi giorni l’ho rivalutato – dice Alexandra – non ero fra i suoi sostenitori, non l’ho nemmeno votato alle elezioni, non gli davo molto credito per il fatto che venisse dal mondo dello spettacolo. Invece si è rivelato una persona coraggiosa, gli americani gli avevano offerto la possibilità di scappare ma lui è rimasto qui, come uno di noi, per il suo paese. Non so cosa succederà adesso, ovviamente continuo a sperare che tutto questo finisca, ma non credo ai negoziati, non credo ai corridoi umanitari perché come già successo la storia si ripete: li concedono e poi bersagliano le persone inermi. Putin vuole farci paura, costringerci alla resa, forse, ma non ha capito che questo popolo non si piega, non è fatto di vigliacchi che si vendono pur di essere risparmiati.”
Dopo cena si ricomincia con i tourniquet. La vita normale è così lontana, eppure era solo venti giorni fa, un tempo che ha già scavato un solco fra un prima e un dopo. Se suonano ancora le sirene si ritorna nel corridoio, al buio, e con la luce del cellulare la piccola Emma farà le ombre cinesi con le mani, prima di dormire sul pavimento.
In copertina: Alexandra e la sua famiglia preparano tourniquets per curare i feriti. Foto di Ilaria Romano.