L’Intercity che parte da Varsavia impiega circa sei ore per raggiungere Rzeszów, il più grande centro abitato del sud-est della Polonia, per poi proseguire fino a Przemyśl, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Ucraina, in uno dei punti di passaggio più battuti dai profughi in fuga dalle città sotto attacco.
Marco ha preso il treno a Cracovia, e sta cercando di arrivare il più vicino possibile al confine, perché proprio in queste ore la sua fidanzata, partita da Kyiv quattro giorni fa, è quasi sul punto di arrivare in Polonia. La coppia, lui italiano e lei ucraina, vive nel Regno Unito, ma lei era a casa dei genitori proprio mentre è scoppiato il conflitto, e uscire dal paese dopo la chiusura dello spazio aereo è diventato complicato.
“Spero solo di riuscire a raggiungerla – spiega Marco – resteremo qualche giorno a Cracovia e poi cercheremo di capire dove ci conviene presentare la domanda di asilo, se in Italia o in Uk.”
La stazione di Rzeszów, intanto, durante questi ultimi quattro giorni si è trasformata in un centro di prima accoglienza: treni, bus e minivan privati che viaggiano in tutta la Polonia partono da qui, diretti nelle principali città del paese, dove spesso gli ucraini in fuga hanno parenti o amici. Nel piazzale i taxi hanno fatto un passo indietro per lasciare spazio ad ambulanze e autobus che continuano a traghettare i cittadini ucraini, quasi tutte donne con bambini piccoli al seguito, lontano dalla loro terra.
All’interno la sala d’attesa è occupata da bagagli, più o meno voluminosi, peluches, buste della spesa piene d’acqua, biscotti, barrette di cioccolata, qualche frutto. All’ingresso una freccia indica che il punto di aiuto si trova sulla sinistra, dietro la piccola edicola, e decine di volontari registrano i nomi delle persone in transito e i luoghi che desiderano raggiungere. Le prime richieste, per tutti, sono quelle di avere una presa di corrente per ricaricare la batteria dello smartphone e delle indicazioni sui mezzi da prendere per continuare il viaggio. Ci sono bambini che restano seduti sui trolley per ore, e alcuni scoppiano in un pianto improvviso per la stanchezza dell’attesa, e del lunghissimo percorso già compiuto fin qui.
Paulina è seduta nel passeggino, indossa una tuta rosa da neve che le lascia scoperte solo le mani. Non ha più di un anno e mezzo, e la nonna Mirna cerca di intrattenerla con un libro colorato raccontandole delle storie, mentre Anja, la madre, è alla ricerca di un volontario che le confermi che il treno in partenza è il suo, anche se il capolinea indicato non è Cracovia.
“Siamo partite da Kyiv, dove viviamo, ma siamo originarie di Donetsk: è la seconda volta in otto anni che lascio casa mia – racconta Anja, un lungo gilet trapuntato stretto sulla pancia – solo che nel 2014 non avevo una bambina piccola e un altro figlio in arrivo.”
Incinta al settimo mese, si è convinta a lasciare la capitale dopo che un palazzo residenziale è stato colpito. “Il palazzo che avete visto in tutti i telegiornali si trova di fronte a quello dove abito io – spiega – e la paura è stata troppa. Con mia madre abbiamo decido di andare via, speriamo sia solo per un mese, al massimo due, perché mio marito è rimasto lì e anche i miei suoceri non hanno voluto lasciare la città.”
Stanno andando a Varsavia, con due valige, una busta di carta con i giocattoli di Paulina, e un passeggino. Da Cracovia dovranno prendere un altro treno. “Lì abbiamo degli amici che ci ospiteranno per il tempo che occorrerà – dice Mirna – e speriamo che tutto vada per il meglio.”
Fino a poche settimane fa avevano una vita normale, come tanti, ricostruita nella capitale dopo la fuga dal Donbass, quando la guerra fra ucraini e indipendentisti filorussi che avrebbero autoproclamato la nascita delle repubbliche autonome di Donetsk e Luhansk stava appena cominciando.
Il loro treno è in ritardo, e un giovane volontario si offre di accompagnarle al binario. Loro non parlano polacco e lui non parla ucraino. La lingua in comune che hanno per comunicare è il russo, e cominciano a parlare della situazione che si è venuta a creare, del fatto che gli ucraini sono stati additati come fascisti, nazisti, ma che nulla di tutto ciò corrisponda alla realtà.
Anja scorre le foto che ha sul cellulare: la nascita di Paulina, una gita con il marito, il compleanno della madre festeggiato sul lago di Garda. Poi prende una coperta e la mette sulle spalle di Mirna, dato che il treno è in ritardo e loro aspettano sul binario da quasi un’ora con temperature sotto lo zero.
Nel frattempo un’altra Anjia corre al terminal degli autobus, a poche decine di metri dalla stazione ferroviaria, per raggiungere il bus diretto a Varsavia. Con lei ci sono i tre figli, il più grande che ha dieci anni ed è già alto quasi quanto lei, e le più piccole, di sette e cinque anni. Ognuno di loro stringe in mano un peluche, e ora hanno anche buste e valigie da dividersi. Nonostante la corsa il mezzo è già partito, e una giovane volontaria cerca di capire quali possano essere le alternative: ma ecco che arriva un minivan, ha ancora quattro posti. Stanotte saranno tutti a Varsavia.
Nel mentre arrivano due ragazze, con i genitori anziani al seguito. Il papà tiene il cane al guinzaglio, loro hanno in mano un trasportino con un gatto a testa. Sono questi i loro bagagli, per partire con gli animali domestici hanno lasciato a casa quasi tutto il resto, come molti altri in questi giorni.
“Cerchiamo di aiutare ma è un flusso continuo di persone – spiega Martin, uno dei responsabili del punto di accoglienza – gli uffici della stazione sono stati trasformati in luoghi di stoccaggio per i beni di prima necessità che porta la gente di Rzeszów, e che ora devono essere smistati. In fondo abbiamo creato una mensa, dove offriamo pasti e bevande calde, e un po’ di ristoro prima della partenza successiva. Ma la verità è che servirebbe molto più spazio, altro personale, più uffici informativi; insomma siamo nel caos. Anche per noi è scioccante tutto questo, in quattro giorni è cambiato tutto e stiamo cercando di fare del nostro meglio, imparando sul campo.”
In copertina: stazione di Rzeszów, foto di Ilaria Romano