A Parigi esiste una realtà chiamata Ateliers des Artistes en Exil (letteralmente, atelier degli artisti in esilio). Situato nel pieno centro della capitale francese, l’atelier ha come missione quella di individuare artisti in esilio in Francia e sostenerli, offrendo loro spazi di lavoro e contatti con reti professionali. Le persone che fanno parte di questa rete hanno due punti fondamentali in comune: sono artisti e hanno uno status di rifugiato. Oltre questo, poche cose li uniscono. Gli artisti dell’atelier sono infatti di origine diversa, propongono arti differenti l’una dall’altra e sono fuggiti dal loro paese per motivi diversi (etnici, religiosi, di genere, sessuali, artistici…).
Dell’atelier fanno parte due artisti che ho avuto la fortuna di incontrare: Sahar Rezvani e Zaef. La prima persona che incontro è Sahar, 35 anni, attrice di origine iraniana. Sahar mi accoglie nel suo giardino, nella periferia parigina, con biscotti e caffè. “Da quando sono in Francia, questo in cui siamo ora è il mio atelier”, spiega. “Abbiamo preparato in giardino l’ultima performance teatrale”. La sua passione per il teatro è lampante: in Iran ha lavorato prima come attrice, poi come regista e come insegnante di teatro.
Zaef lo incontro qualche giorno dopo, all’Atelier des Artistes, dove viene spesso per scrivere, per provare i suoi spettacoli o per ricevere aiuto nei procedimenti amministrativi. Ha quasi 40 anni, anche se non li dimostra, ed è comico. Come quando è sul palco, due elementi risaltano su di lui: il suo cappello e i suoi grandi gioielli africani dorati.
Sahar: l’arte come lotta
“Per me, il teatro è un luogo di protesta contro le condizioni della società”, spiega Sahar Rezvani. “Volevo rompere i tabù legati all’essere donna in Iran, legati al corpo e alla voce femminile, di cui il governo ha paura”. Il suo teatro è inscindibile dal ruolo della donna e da quello dell’arte a Mashhad (città nel nord-est dell’Iran), dove è nata e cresciuta. Mashhad è una città molto religiosa. « Tutte le arti (teatro, scultura, musica) sono proibite o esistono solo a fini politici”, dice Sahar, parlando della sua città. “Delle donne si ha paura. In quanto donna devi sempre essere accompagnata da un uomo, non puoi mostrare i capelli e non puoi esibirti sul palco”.
La passione di Sahar per il teatro nasce sin da piccola, guardando i film. A vent’anni circa, inizia a lavorare in televisione, come presentatrice e performer, fino al momento in cui viene arrestata, quindici anni fa, ad una manifestazione verde (una delle tante proteste a seguito delle elezioni presidenziali in Iran del 2009 durante le quali i manifestanti hanno chiesto le dimissioni di Mahmoud Ahmadinejad dal suo incarico). In seguito a questa manifestazione, Sahar è contattata dalla polizia segreta iraniana (Eṭṭelāʿāt). « Mi hanno chiamata con un numero sconosciuto e mi hanno detto di andare nel loro ufficio per rispondere a delle domande ». In seguito a questo evento, il viso di Sahar è messo su quella che lei definisce la « black list » della polizia segreta: « il mio viso non poteva più essere sulla scena, per me era diventato impossibile lavorare in televisione o nel teatro, i registi avevano paura ad assumermi. Sono rimasta a casa per tre anni ».
Dopo tre anni, l’attrice inizia a frequentare la troupe teatrale Nimkat (una delle prime a Mashhad), fondata da Hamed, il suo attuale compagno. Hamed la invita ad esibirsi in una performance che, come sostiene lei stessa, le ha cambiato la vita. Nell’atelier di teatro che inizia a gestire con il compagno, Sahar si sente di avere una voce. “Non sempre sono d’accordo con le manifestazioni di piazza perché finiscono in violenza e sono troppo pericolose per i ragazzi e le ragazze che non sono armati come i poliziotti. Il teatro è la mia lotta pacifica per i diritti delle donne”.
“Con il nostro gruppo abbiamo messo in scena delle performances teatrali per la prima volta a Mashhad”, dice Sahar, parlando di Shakespeare e Ibsen Tchekhov. Nonostante la passione e la soddisfazione, l’attrice racconta delle difficoltà nel gestire un atelier di teatro in Iran: “ogni giorno è una lotta, ogni esibizione, il regime non vuole”. Mi racconta, per esempio, di quando ha deciso, circa cinque anni fa, di mettere in scena il mito di Pandora con il gruppo Sian (un gruppo di ballerine di Mashhad). Quando il gruppo ha iniziato a esibirsi, la performance è stata vietata dai censori, una giuria che ha il compito di dire cosa può essere messo in scena e cosa è proibito. Ci sono diverse giurie di censori a Mashhad: il Dipartimento della Cultura e dell’Orientamento Islamico della Provincia del Khorasan Razavi, il Dipartimento della Cultura e dell’Orientamento Islamico di Mashhad, il Consiglio di Supervisione e di Valutazione del Teatro. Nonostante il gruppo di ballerine e Sahar si siano recate in seguito davanti al Dipartimento della Cultura e dell’Orientazione Islamica della Provincia di Khorasan Razavi per protestare, il permesso non è mai stato rilasciato.
A causa del loro lavoro, Sahar e il suo compagno vivono negli anni sempre più pressioni da parte del regime, che li osserva. “Il nostro teatro aveva un impatto sulla società, così hanno iniziato a limitarci e a limitare la nostra arte. Per esempio mi hanno proibito di essere sul palco. E’ difficile ma si trovano altre strade: in quel caso abbiamo deciso di fare uno spettacolo di Ibsen al parco”. Aggiunge, “è stata l’ultima volta che mi sono esibita in Iran”.
Zaef: l’arte come ancora di salvezza
Alla domanda “cosa è per te la comicità?”, Zaef sorride: è la stessa domanda che gli aveva fatto il suo professore in Gabon, quando studiava per fare il comico. “Per me la comicità è un’arte, uno scudo e un’ancora di salvataggio”, dice. Arrivato a Nantes (città nell’ovest della Francia) dal Gabon, Zaef si è trovato per strada, senza documenti e senza soldi. Grazie a pochi contatti, ha trovato un divano a 200 euro su cui dormire. “Ho venduto tutto quello che avevo in Gabon per avere i soldi per pagare l’affitto. Da quel momento non avevo più ragioni di tornare in Africa, quindi sono rimasto”. All’inizio è stato difficile, dice, “per sei mesi sono rimasto a casa senza fare nulla. Facevo qua e là dei piccoli lavori in nero, non avevo altra scelta non avendo i documenti, ma non mi hanno mai pagato”. La sua svolta arriva quando, passeggiando per la città, vede il manifesto di un comico africano. “Volevo andare a vedere lo spettacolo, ma costava dieci euro e io non li avevo”, spiega. “Ho iniziato a fare il babysitter e, a fine mese, con i soldi che avevo, sono tornato al comedy club”. Da quel momento, Zaef decide di voler continuare la sua carriera in Francia. Lavora per due mesi, inizia a frequentare un bar in cui vanno solo francesi bianchi e scrive le sue battute: “partivo da zero”, dice, “dovevo conoscere e analizzare una nuova società”. Dopo un paio di mesi, Zaef inizia ad esibirsi in quanto comico. I suoi spettacoli funzionano molto bene, il pubblico apprezza. Un anno dopo, si trasferisce a Parigi, dove ci sono più palchi. Continua a fare il babysitter di giorno e di sera si esibisce nei maggiori comedy club della capitale.
“Sono diventato comico in Francia senza volerlo”, mi spiega. “Non avevo i documenti quindi lavorare era molto difficile, ma i comici sono pagati al cappello”. Proprio il cappello è uno dei suoi segni distintivi. Lo porta da molti anni. Mi racconta che, la prima volta che lo ha messo, è stato a Nantes. “Non avevo i soldi per farmi tagliare i capelli”, dice. “All’epoca facevo il babysitter per venti euro al giorno e un taglio di capelli era quindici euro. Un capello era solo cinque, così ho preso il cappello, per nascondere i capelli ancora qualche mese. Da allora non l’ho più tolto”.
Sahar: la partenza per imparare e la vita in Francia
Dato che in Iran lo spazio dell’arte drammatica è limitato, Sahar e il suo compagno decidono di lasciare il paese per imparare nuovi metodi teatrali. Dopo tanto tempo ( e due rifiuti), Sahar ottiene un visto da studente nella primavera 2022, qualche mese dopo il suo compagno la raggiunge. L’attrice dice che “ottenere un visto per gli iraniani è molto difficile, soprattutto se non sei ricco”. Il suo compagno ha provato dieci anni prima di averne uno.
L’idea della coppia era quella di restare cinque anni, imparare nuovi metodi teatrali e poi rientrare in Iran. Poi le manifestazioni in seguito alla morte di Mahsa Amini sono iniziate e i due teatranti hanno chiesto, sei mesi fa, di restare in Francia in quanto rifugiati. “Per me è molto chiaro che ora non posso tornare in Iran, è troppo pericoloso”. Sahar mi mostra i video della sua ultima performance teatrale, che risale allo scorso novembre. In questa esibizione, lei ed altri attori hanno messo in scena le violenze in Iran. La performance è stata registrata e condivisa su internet. “E’ troppo pericoloso ora rientrare, spesso ricevo messaggi minatori su instagram”.
Oggi Sahar è nel giardino della sua casa, dove si trovava anche quando le rivolte sono scoppiate in Iran, nel settembre 2022. “Io ero in questo magnifico giardino e piangevo perché non potevo fare niente”, dice. “Mi sono detta che era in quel momento che sarei dovuta essere in Iran con i miei amici e allievi, e invece ero da sola in questo paradiso. Ero molto triste”. “Riusciamo a connetterci poco con l’Iran”, aggiunge, spiegando che l’accesso a internet nel suo paese è instabile e non sempre possibile. “Sono preoccupata per i miei amici che sono nelle manifestazioni”. Sahar parla esplicitamente di depressione. E’ sola con il suo compagno, senza gli amici e gli allievi che, per lei, sono la sua famiglia. “Non posso studiare”, aggiunge, spiegandomi che sta provando ad iscriversi all’università per studiare francese, ma senza successo.
“Sento che anche per Hamed è difficile. Dopo anni e anni nel teatro, ora deve lavorare al chiosco dei giornali per vivere”, mi dice. Sahar e il suo compagno hanno difficoltà a lavorare nel teatro in Francia. “E’ difficile connettersi agli artisti ed è quasi impossibile senza parlare bene la lingua”. Parlando nella sua depressione, Sahar sorride pensando a Narges Mohammadi, attivista iraniana, premio nobel per la pace 2023. “Narges è libera, anche se in prigione. Io non posso chiudermi nella prigione della mia stessa tristezza. Sono qui per essere libera”.
Zaef: la fuga dalla crisi e una vita “sans papiers”
“Sono sempre state le crisi a farmi partire”, dice Zaef. Originario della Costa d’Avorio, da cui è fuggito, nel 2007, in seguito a una crisi politico-militare, Zaef ha vissuto diversi anni in Gabon, dove è diventato comico. Sette anni fa, Zaef ha lasciato anche il Gabon (dove è scoppiata una crisi a seguito della rielezione del presidente Ali Bongo) per arrivare a Nantes. Mi dice di amare la lingua francese ed è molto soddisfatto della sua carriera. “Ma non so se resterò tutta la mia vita in Francia”, aggiunge. Sono infatti sette anni che Zaef richiede uno status da rifugiato, che gli è stato negato.
I documenti sono un filo rosso nella storia di Zaef, tanto che l’umorista ne ha fatto, per un periodo, il suo nome di scena: “Zaef, le sans papiers”. “I documenti ti allontanano, tanto dai francesi, quanto dalla comunità africana che ha paura che tu abbia bisogno di soldi o alloggio”, dice. Sorridendo, mi racconta anche dei suoi rapporti con le donne: “quando dicevo che stavo ancora aspettando i documenti, vedevo che le ragazze cambiavano. I miei amici mi sgridavano, mi dicevano di non parlarne. Io, invece, ne ho fatto il mio nome d’arte”. Grazie all’Atelier des Artistes, ora Zaef sta avviando nuovi procedimenti amministrativi. “Non ho paura di condividere la mia situazione”, dice. “Ne parlo sulla scena, avvio le pratiche, ma la mia domanda viene costantemente rifiutata. Non voglio nascondermi, io continuo la mia vita”.
Dice di essersi già esibito davanti a politici e poliziotti: “ci sono state tante promesse di aiuto, ma nulla si muove. È la Francia”. Sorridendo, aggiunge: “tutti conoscono la mia situazione ma nessuno mi ha ancora espulso, forse vuol dire che la Francia ha bisogno di me”.
Foto di copertina: Zaef, per gentile concessione di Ateliers des Artistes en Exil.