Il diritto alla salute in teoria
Sulla carta il diritto alla salute è tutelato. E non solo perché lo dice la Costituzione. Il principio è stato normato a cominciare dalla legge 40 del 1998 (Turco-Napolitano confluita nel D.Lgs 286).
E così, gli stranieri regolarmente soggiornanti hanno l’obbligo di iscriversi al Servizio sanitario nazionale (Ssn) come i richiedenti asilo e le persone che hanno ricevuto una forma di protezione internazionale. Sono inclusi anche i minori stranieri non accompagnati e le donne in stato di gravidanza, fino a un massimo di sei mesi dalla nascita del figlio.
Per quanto riguarda gli irregolari, l’assenza del permesso di soggiorno non preclude la possibilità di ricevere le cure ospedaliere urgenti ed essenziali (quelle che non possono essere rimandate perché potrebbero mettere la persona in pericolo di vita o creare un danno alla salute). Lo stesso vale per le cure continuative, per malattia e infortunio, nonché per i programmi di tutela della salute mentale.
In caso di bisogno, dunque, la struttura ospedaliera è tenuta ad accettare anche migranti senza documenti, registrando l’assistito e fornendogli un codice detto Stp (Stranieri temporaneamente presenti) che ha una validità di sei mesi e che esenta completamente dal pagamento delle spese sanitarie. Inoltre, l’accesso ai servizi da parte di un migrante irregolare non deve comportare alcun tipo di segnalazione alle autorità.
Il diritto alla salute in pratica
Nei fatti, però, la situazione non è così lineare. Nonostante nel dibattito pubblico sia molto presente l’idea del migrante come “portatore di malattie”, infatti, poca è l’attenzione sui necessari interventi di tutela e prevenzione della salute fisica e psichica di queste persone, che nella maggior parte dei casi arrivano in buona salute nel nostro paese e si ammalano, invece, soprattutto per le condizioni di vita e di accoglienza.
Alcune regioni non riconoscono, infatti, i diritti sanciti dalla legge: come la tutela del minore, l’esenzione dal ticket per gli Stp o la possibilità dell’iscrizione volontaria al Ssn.
“Il problema del mancato accesso alle cure dei migranti nel nostro paese è noto da anni, da quando tra il 2009/2010 il ministero della Salute commissionò un’indagine per capire quale era la situazione – spiega Salvatore Geraci, responsabile dell’area sanitaria della Caritas e coordinatore dei gruppi immigrazione e salute della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm)-. Ne venne fuori la fotografia di un’Italia molto disomogenea nell’erogazione dei servizi agli stranieri, dove paradossalmente erano alcune regioni del Nord a essere molto indietro, più per ragioni ideologiche che per reali difficoltà. Per questo venne creato un gruppo di lavoro, che aveva il compito di uniformare le norme a livello nazionale, da cui scaturì poi l’accordo Stato regioni del 2012 che doveva servire proprio a questo scopo. Il problema, però, è che a oggi questo accordo, pur essendo cogente, è rimasto spesso inapplicato o applicato in parte. Lasciando tutte le contraddizioni del sistema: di fatto c’è un pendolo tra norma locale e nazionale che crea diversi buchi”.
A fronte di una normativa di base buona persiste, infatti, una situazione a macchia di leopardo. Anche secondo il dossier statistico immigrazione 2016, di Idos e Unar a distanza di 4 anni dall’accordo Stato-Regioni “si rileva un’estrema difficoltà nelle politiche di accesso all’assistenza sanitaria degli stranieri, sia tra le regioni sia talvolta all’interno dello stesso territorio, con interpretazioni locali delle norme tali da ostacolare l’inclusione e favorire la discriminazione”. La stessa organizzazione dei servizi, in alcuni casi, produce ulteriori ostacoli: “ogni regione si regola autonomamente, come nel caso degli immigrati senza permesso di soggiorno che possono accedere al servizio sanitario sia attraverso i medici di medicina generale, che con i servizi dedicati, come gli ambulatori Stp – spiega ancora Geraci -. Alcune aziende sanitarie si sono organizzate, altre no, alcune lo hanno completamente delegato al privato sociale”. A complicare le cose sono intervenute anche le nuove normative, come il decreto legislativo 142 del 2015 su accoglienza e asilo, secondo cui le persone che fanno richiesta di protezione, fino a quando non ottengono i documenti, devono accedere al servizio sanitario attraverso la procedura Stp. “Probabilmente chi ha scritto la norma non voleva creare buchi assistenziali, ma questo ha aumentato la confusione, il richiedente asilo non può essere paragonato a un irregolare perché è all’interno di un processo di inclusione, che può fallire, ma finché non fallisce va tutelato”, aggiunge Geraci.
Un altro problema diffuso è quello economico: gli immigrati che si iscrivono al servizio sanitario nazionale sono equiparati ai cittadini italiani per quanto riguarda l’esenzione del ticket (la ottengono cioè se disoccupati, se soffrono di qualche patologia o in altri casi particolari). Fino all’entrata in vigore del decreto 142 i richiedenti asilo erano trattati allo stesso modo dei disoccupati perché non potevano lavorare per i primi 6 mesi. La nuova norma ha accorciato i tempi a due mesi: dopo questo termine, per alcune amministrazioni (come nel caso del Veneto) devono essere considerati inoccupati e non disoccupati. Viene meno così l’esenzione dal ticket. E non è raro che anche gli irregolari, fatichino a vedersi esentati dal pagamento delle spese sanitarie. Un altro caso ancora riguarda i nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea). “È stata introdotta una novità molto importante – aggiunge Geraci -, secondo un nuovo Lea il minore straniero, figlio di immigrati irregolari, deve essere iscritto al Servizio sanitario nazionale e quindi avere il pediatra di medicina generale. Si tratta di un passaggio epocale, se non fosse che una volta iscritti, e quindi non considerati più Stp, per i minori oltre i sei anni cade l’esenzione dal ticket”. E così molte famiglie decidono di non rivolgersi al pediatra, continuando a usufruire del servizio di pronto soccorso, perché non hanno le capacità economiche per pagarsi le cure.
Ferite invisibili da curare
Agli ostacoli di natura normativa e organizzativa si aggiungono, poi, quelli linguistico-culturali, che rendono poco fruibili molti servizi. La legislazione prevede, infatti, che l’accesso alle cure sia tutelato attraverso il ricorso a interpreti e mediatori. Figure importanti soprattutto in relazione ad alcune patologie specifiche come quelle di salute mentale. Ma pochi sono finora gli operatori formati presenti, anche perché il tema dei disturbi di natura psicologica, cognitiva e comportamentale dei migranti, è ancora molto sottovalutato. Diverse organizzazioni internazionali, nell’ultimo periodo, hanno più volte lanciato l’allarme sulle ferite invisibili di chi arriva dopo aver superato un viaggio estenuante e aver subito ogni forma di abuso e tortura. Tra questi Medici senza frontiere nel suo report Traumi ignorati, ma anche Medu (Medici per i diritti umani) nel dossier Esodi. Il tema è stato affrontato per la prima volta anche nell’ultimo rapporto sulla protezione internazionale di Anci e ministero dell’Interno. Qui si parla chiaramente di un indebolimento dei fattori di resilienza legati all’esperienza migratoria, ma anche di traumatizzazione e ritraumatizzazione secondaria, soprattutto quando una volta arrivate in Europa, queste persone si trovano ancora in una condizione di vulnerabilità, dovuta a una mancanza di tutele e a barriere di tipo etnico-culturale. “I fattori riconosciuti come in grado di aumentare il rischio di sofferenza psichica tra gli immigrati sembrano tuttora essere in crescita – si legge nel rapporto – ma per quanto riguarda l’offerta di assistenza, essa veda al momento i servizi psichiatrici in difficoltà: oltre a essere sottodimensionati, soffrono a volta della mancanza di competenze specifiche, sia per quanto riguarda la psicotraumatologia da violenza internazionale, un settore della psicologia relativamente recente, sia per la capacità di intervenire in modo culturalmente sensibile”.
Eppure nel nostro paese studi sull’etnopsichiatria non mancano. Tra i principali esponenti della disciplina, c’è Roberto Beneduce, professore dell’università di Torino, che già nel suo saggio Politiche dell’etnopsichiatria e politiche della cultura del 2000 spiegava come fosse necessario “interrogarsi sulle culture (qui e altrove), sul rapporto fra cultura e psichismo, ma soprattutto sulla legittimità dei saperi occidentali nell’intervento terapeutico a favore di immigrati”. Per Beneduce questo “costringe non solo a ripensare il senso della cura e il grado di adeguatezza dei modelli psicoterapeutici occidentali, ma più in generale quali siano le politiche della cultura più appropriate”. La sua metodologia è stata applicata nel centro Frantz Fanon, da lui fondato, dove si fa psicoterapia e supporto psicosociale per gli immigrati, i rifugiati e le vittime di tortura. E si porta avanti l’idea di una “etnopsichiatria comunitaria capace di saldare il lavoro teorico e clinico con una strategia più complessiva di alleanze con altri gruppi, istituzioni, soggetti, saperi. Quello che si fa nelle stanze dell’etnopsichiatria non ha – aggiunge Beneduce – nell’orizzonte che stiamo tracciando, nuances esotiche o misteriose: è semplicemente la pretesa di continuamente inventare strategie, lingue, obiettivi, tecniche. Con un primo ma irrinunciabile presupposto: abdicare alla reiterazione estenuata dei nostri modelli interpretativi e terapeutici”. Anche a livello internazionale il problema del rapporto di cura tra culture diverse è stato spesso indagato. A Stoccolma, per esempio, un gruppo di psicologi e psichiatri, guidati da Emily Holmes del Karolinska Institute, sta mettendo a punto un progetto pilota per studiare i traumi dei migranti, in particolare il disturbo post traumatico da stress, a partire dai ricordi di queste persone. L’obiettivo, come spiega la rivista Nature, è quello di trovare una terapia adatte ed efficace che risponda però alle caratteristiche di determinati gruppi di persone, culturalmente diverse. Studi simili si stanno portando avanti anche in altri paesi come la Germania. All’Istituto centrale per la salute mentale di Mannheim si sta indagando quanto fattori come l’esclusione sociale possano influire sulla psicosi della popolazione migrante.
Alcune buone prassi
Quanto all’Italia, oltre alle carenze nei servizi ci sono, però, anche molte associazioni e organizzazioni che lavorano per tutelare i migranti fuori assistenza. A Milano da 30 anni se ne occupa il Naga che. con i suoi oltre 300 volontari garantisce assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri. L’associazione sottolinea chiaramente che non intende mettersi in “concorrenza con i servizi sanitari pubblici, ma prevede di estinguersi come inevitabile conseguenza dell’assunzione concreta e diretta del problema da parte degli organismi pubblici preposti”. “Noi seguiamo solo i migranti irregolari, senza permesso di soggiorno – spiega il dottor Guglielmo Meregalli– molti di loro sono in Italia da anni”. Il medico spiega che le patologie più diffuse sono quelle legate alle malattie del tratto respiratorio, come bronchiti, tonsilliti e influenza. “Niente di diverso dalle malattie che riscontriamo negli italiani”. Ma in Lombardia, come in altre regioni, “il problema principale è l’impossibilità per queste persone di avere un medico di base: se hanno una patologia acuta devono rivolgersi al pronto soccorso. E questo è controproducente, sia per loro che perché spesso si intasa questo servizio”. Sulla mancanza del medico di base, in particolare per i minori (contrariamente a quanto prevede l’accordo Stato-Regioni) il Naga insieme ad Asgi, Anolf e Cisl ha portato avanti un’aspra battaglia con la Regione Lombardia a partire dal 2013. Dopo il ricorso delle associazioni, la giunta guidata da Roberto Maroni, ha emesso una circolare che prevede l’accesso per i figli di irregolari, fino ai 14 anni, al servizio sanitario nazionale ma non l’assegnazione di un pediatra di libera scelta. Possono essere, dunque, curati da un medico specialista ma solo nel momento di necessità: nessun pediatra fisso, che ne segua le cure, ma un dottore disponibile quando se ne ha bisogno. Ad oggi la questione è ancora aperta: la circolare è stata prorogata per tre anni. E per le associazione la risposta è ancora del tutto insufficiente perché non prevede la continuità nella cura e tiene fuori i minori tra i 14 e i 18 anni.
Anche a Roma sono diversi i servizi dedicati alla popolazione straniera: come l’Inmp, l’istituto nazionale per la promozione della salute dei migranti, che offre un servizio ambulatoriale gratuito.
Molto particolare è anche il caso dell’associazione Cittadini del mondo che si occupa di tutelare gli oltre 800 migranti di una storica occupazione romana, il Selam Palace. “Quando siamo entrati nel 2006 pensavamo e speravamo che questa occupazione si sarebbe autoeliminata presto – spiega Donatella D’Angelo, una delle responsabili -. Eppure da allora ci andiamo di continuo e troviamo ogni sera persone nuove che hanno bisogno di essere intercettate, altrimenti sarebbero tagliate fuori dall’assistenza sociale e sanitaria. Le patologie che riscontriamo sono quelle legate alla povertà e alle condizioni di vita e di convivenza. Noi riempiamo solo un falla minima in un buco enorme – aggiunge – Manca un processo di reale integrazione: le persone che vivono al Selam Palace sono soprattutto richiedenti asilo o richiedenti protezione internazionale”.
Per Aldo Morrone, tra i pionieri della medicina per le migrazioni in Italia e oggi responsabile del Servizio di salute globale e dermatologia internazionale del San Gallicano, tutti questi ostacoli nell’accesso alle cure rappresentano un “tradimento della grande riforma sanitaria del 78”. “Il rischio più grande è che oltre a non riuscire a fare in modo che chi ha bisogno venga adeguatamente curato, si creino anche dei servizi ghettizzanti, come quelli rivolti appunto ai migranti– spiega -. Se fossimo invece riusciti a creare un reale accesso all’interno del servizio sanitario nazionale avremmo avuto il vantaggio di avere anche una maggiore integrazione”. Dopo anni di attività in Italia, Morrone ha portato la sua esperienza in Africa e Medioriente, aprendo diversi ambulatori, attraverso l’Ifo del San Gallicano. “Ci inseriamo all’interno dei servizi del sistema sanitario del paese dove operiamo e progettiamo ogni iniziativa insieme al governo locale – spiega – perché vogliamo che i nostri progetti abbiano continuità. Se si vuole veramente fare cooperazione è necessario un empowerment delle risorse locali”.
Foto di copertina via Fabio Venni (CC BY SA 2.0).