Manal Hashash mostra il braccio destro e indica le figlie che stanno accanto a lei, poi quello sinistro e con il dito punta il mare: “Randa, Sherihan, Nurhan, Christina”, sono i nomi che ha tatuato in quel braccio, i nomi delle quattro figlie affogate l’11 ottobre 2013 nel naufragio dei bambini a Lampedusa. Manal non ha mai avuto indietro i corpi delle sue figlie, inghiottiti dal mare, o forse seppelliti in una delle tante tombe senza nome, a Lampedusa o chissà dove.
A distanza di undici anni sono ancora almeno 50 i presunti dispersi di quel naufragio e circa 20 quelli del 3 ottobre. Dopo quel tragico anno, l’Italia ha avviato due progetti sperimentali per definire un metodo standard di identificazione dei migranti deceduti nei naufragi al largo di Lampedusa. Questi progetti sono stati coordinati dal Commissario straordinario per le persone scomparse e dall’istituto Labanof di Milano. Il modello in via di sperimentazione prevede l’analisi scientifica post mortem sui cadaveri e poi – e questa è la parte più difficile – la raccolta dei dati ante mortem tramite il raggiungimento dei parenti che li aspettavano dall’altra parte del Mediterraneo. Tuttavia, il processo di identificazione è complesso e lento mentre le procedure di sbarco dei cadaveri attuate nei porti non sono sempre uniformi. In generale, però, la sperimentazione del Labanof è stata ideata per la necessità di colmare un buco normativo che legiferi sulla raccolta di dati post mortem e ante mortem delle vittime del Mediterraneo, qualcosa di cui dovrebbe occuparsi lo stato italiano, o meglio l’Unione Europea.
“La nostra attività nasce da una collaborazione scientifica con diversi laboratori d’eccellenza, con la polizia scientifica e dal rapporto con le ong che ci aiutano a rintracciare i parenti. Nonostante il nostro lavoro sia fondamentale, sarei molto felice se un domani questo impegno universitario lasciasse spazio a soluzioni governative, affinché queste attività di ricerca scientifica non siano più un atto di beneficenza”, denuncia Cristina Cattaneo, direttrice dell’istituto Lebanof, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano. Attuare il riconoscimento post mortem di naufraghi viene effettuato tramite un impianto penalistico, e quindi attraverso una procedura giudiziaria tesa a “punire il colpevole” del delitto, piuttosto che a onorare la vittima. Obiettivo ben diverso dal ricongiungimento post mortem con chi è sopravvissuto, che è, invece, la cosa fondamentale per le famiglie dei migranti scomparsi in mare. Il gap nella procedura di riconoscimento va – quindi – dallo scambio di dati, che non finiscono in un contenitore unico, alla loro stessa raccolta.
“Quando abbiamo a che fare con un delitto, il cadavere è a disposizione dell’autorità giudiziaria, per la legislazione italiana dare un nome e un cognome alla vittima, però, non è fondamentale. Il processo nei confronti dell’uccisore può andare avanti lo stesso. Non è così per i migranti, per i quali dare un nome e un cognome alle vittime è un diritto fondamentale”, spiega Salvatore Vella, procuratore capo di Gela, “senza una chiave normativa italiana né tanto meno europea continuiamo a gestire il problema come una questione emergenziale. È necessario creare strutture dello stato, fuori dal sistema giudiziario. Si potrebbe iniziare mettendo delle celle frigorifere per esempio a Porto Empedocle o a Lampedusa (che non ne ha neanche una), in modo tale che i corpi non si deteriorino”.
La conservazione dei corpi è un altro fattore essenziale per rendere possibile l’identificazione. Per questo è necessario recuperarli in mare il prima possibile in modo da evitare che il processo di decomposizione sia troppo avanzato. Tuttavia, una volta recuperato, un corpo deve essere conservato correttamente, ma molte navi che operano nel Mediterraneo non dispongono di celle frigorifere adeguate (vedi Ong) e spesso, quando il numero di vittime è alto, le celle delle città del primo porto di sbarco non bastano. Inoltre, le autopsie non vengono sempre effettuate, poiché dipendono dalla richiesta del Procuratore, che interviene solo quando il medico legale ha dubbi sulle cause della morte, non sempre riconducibili all’annegamento.
L’identificazione avviene però anche tramite dati ante-mortem forniti dalle famiglie. Le testimonianze dei sopravvissuti sono preziose, anche se spesso vengono raccolte con obiettivi diversi da quello di identificare i defunti. In generale contattare le famiglie non è semplice, soprattutto se queste si trovano ancora nel paese di provenienza, e lo è ancor meno farle arrivare in Italia per l’identificazione vera e propria.
Il risultato è che la maggior parte dei cadaveri trovati in mare da soccorritori, dalle ong, o da semplici bagnanti, alla fine viene sepolta senza identità. E migliaia di madri, padre, fratelli e sorelle restano ignari della sorte dei propri cari e vivono in uno stato di “perdita ambigua”, condannati ad una sofferenza senza sbocco, senza possibilità di chiusura.
È questo il caso di Manal Hashash e del marito Wahid Yousef. “Una volta che io e mia moglie ci siamo ricongiunti, tramite la dottoressa Cattaneo dell’istituto di Milano e il mio avvocato, abbiamo iniziato la ricerca del dna”, racconta Wahid, “poi mi hanno chiesto di andare a Milano e una volta lì mi hanno mostrato delle foto di bambini morti in quel naufragio, ma non c’erano le mie bambine. Allora Tareke – presidente del Comitato 3 Ottobre – mi ha detto di andare all’istituto medico di Ginevra per prendere il dna sia mio che di mia moglie. In seguito la Croce Rossa tedesca ha chiesto nuovamente il dna, ma gli abbiamo detto che l’avevamo già dato a Ginevra e quindi l’istituto tedesco l’ha preso da lì”. L’ultima lettera ricevuta da Wahid, circa lo stato delle indagini, risale ad un anno fa, diceva che ancora non erano stati rinvenuti i corpi. “Non so niente di che fine abbiano fatto le mie figlie, sono considerate ‘presunte disperse’, né morte né vive. Mi sono rivolto all’interpol in Svizzera, a Save The Children, per avere informazioni, ma non ho mai avuto nessun riscontro. Non so chi stia davvero cercando le mie figlie, da undici anni vivo una guerra interiore tra il mio cervello e il mio cuore. Il cuore mi dice che le mie figlie sono ancora vive, il cervello dice che è impossibile”.
Come Wahid, tanti genitori sopravvissuti a quei due naufragi, non hanno ancora una tomba dove andare a trovare i propri figli. Il problema dell’assenza di una norma che legiferi sul riconoscimento e il ricongiungimento dei migranti morti con le proprie famiglie ancora in vita, lede il diritto a piangere i propri cari. Questa assenza di risposte, un giorno dopo l’altro, fa male almeno quanto la morte stessa.
Nella foto di copertina Manal Hashash. Credit: Lidia Ginestra Giuffrida