Nelle campagne intorno a Zahlè, a poco meno di due ore da Beirut, la vista sui campi coltivati e verso le montagne che separano la valle della Bekaa dalla costa libanese è punteggiata da decine di accampamenti informali dove migliaia di rifugiati siriani vivono da anni.
Una vista ormai diventata usuale: circa il 20% dell’1,5 milioni di siriani in Libano che non riesce a permettersi un appartamento o un sistemazione nelle aree urbane vive nei campi profughi, raggruppamenti di poche decine o centinaia di baracche su appezzamenti di terreni privati. E il loro numero è in aumento.
Insieme a sua moglie Mariam e ai loro sei figli, Ahmed è riuscito a sistemarsi in maniera dignitosa, date le circostanze, visto che dal 2015 vive nella stessa baracca: qualche decina di metri quadri, arredata con cuscini e stuoie e rivestita di teli impermeabili.
“Paghiamo un affitto di 100 dollari al mese: per risparmiare abbiamo deciso di dividere la tenda con la famiglia di mio fratello, che occupa l’altra metà”, spiega. “Siamo arrivati in Libano nel 2012 e ogni anno è peggio”. Il loro accampamento si trova nel distretto di Saadnayel e conta circa 450 persone. Ognuna delle 76 famiglie paga un affitto al padrone del terreno.
“Prima andavo spesso a Beirut o a Balbeek per cercare lavoro. Ma ultimamente ho paura” dice Ahmed, spiegando che ora è costretto ad accontentarsi di qualunque lavoro che riesca a trovare in zona, di solito come bracciante o come muratore.
Deportazioni: una linea rossa che è stata oltrepassata
Con un cambio di rotta che diverse organizzazioni per i diritti umani hanno definito preoccupante, il 15 maggio scorso, la General Security (l’agenzia di intelligence libanese), ha emesso un provvedimento che prevede la deportazione di tutti i siriani entrati illegalmente in Libano dopo il 24 aprile 2019.
Una decisione che segue una serie di provvedimenti – mantenuti confidenziali – adottati ad aprile dal Consiglio supremo della Difesa per “controllare il traffico di merci e persone attraverso il confine”.
Gli unici numeri ad ora disponibili sono quelli rilasciata dalla General Security (GSO) al quotidiano libanese Daily Star: dal 21 maggio al 28 agosto i siriani rimpatriati forzatamente sarebbero 2.731. L’agenzia non ha fornito ulteriori dettagli e non è chiaro se questo numero includa anche siriani fermati lungo la zona di confine e rimpatriati poco dopo aver tentato l’ingresso nel paese.
Ahmed è arrivato in Libano da Idlib nel 2012, ma non essendo chiaro quali documenti la GSO accetti come prova, preferisce non rischiare. L’Ong libanese Access Center for Human Rights (ACHR) ha documentato almeno sei casi di persone che sono state deportate nonostante fossero entrate nel paese prima di aprile. Inoltre, a differenza ad esempio della Turchia, questi rimpatri sono condotti in accordo con le autorità siriane. E secondo quanto riportato da Human Rights Watch, almeno sei persone sarebbero state arrestate e torturate una volta riportate in Siria.
“Da tempo ci sono pressioni nei confronti dei siriani, ma ora si è oltrepassata una linea rossa”, afferma Ghida Frangieh, avvocato di Legal Agenda, un’organizzazione locale che insieme ad altri esponenti della società civile ha siglato una petizione per fermare le deportazioni.
“Sono deportazioni condotte completamente al di fuori dello stato di diritto: in Libano l’immigrazione illegale è un crimine. E anche se può sembrare paradossale – spiega Frangieh, in realtà si tratta di una garanzia perché significa che i provvedimenti di espulsione devono essere discussi di fronte ad un giudice. Cosa che però in questo caso non è mai successa. A nessuna delle persone arrestate è stata data la possibilità di difendersi o di fornire le prove di un timore fondato in caso di rimpatrio”.
Le poche informazioni diffuse finora non permettono di capire se gli arresti che hanno preceduto le deportazioni abbiano preso di mira una certa area geografica o alcune persone in particolare: “Per quanto ne sappiamo finora sembrano essere abbastanza casuali: ci sono persone fermate ai check-in durante controlli di routine, altre arrestate all’interno dei campi informali o per strada. Questo non significa che non ci sia una logica, ma non abbiamo abbastanza prove per affermare il contrario”, spiega Franghieh.
Status legale precario
Quello che è certo è che le deportazioni hanno aumentato la paura tra rifugiati siriani, spingendoli a non uscire di casa o dal campo e limitandone l’accesso ai servizi di base.
La percentuale di siriani senza permesso di soggiorno ha ormai toccato il 73%. Nel 2015 il Libano, con una direttiva anche in questo caso emanata dalla General Security, ha messo fino alla politica delle ‘porte aperte’ nei confronti dei siriani, che sono ora obbligati a dichiarare le motivazioni di ingresso, ristrette a due possibilità: visita o lavoro. “Nel primo caso non possono chiedere un permesso di soggiorno (e quindi allo scadere dei termini diventano automaticamente irregolari, ndr), mentre nel secondo caso devono trovare uno ‘sponsor’, una persona fisica che faccia da garante in qualità di datore di lavoro – spiega Frangieh. E questo li espone a ricatti e sfruttamento”.
Ahmed dice di aver speso in questi anni circa 2mila dollari per garantirsi uno ‘sponsor’, che quasi mai era il vero datore di lavoro ma solo un prestanome. In alcuni casi è stato truffato, perché la persona che doveva fargli da garante è sparita dopo aver preso i soldi, mentre in altri casi il rinnovo del permesso gli è stato rifiutato senza che gli fosse spiegato il motivo. Sfila dal portafoglio una serie di fogli rosa e di documenti. Molti riportano un timbro che gli intima formalmente di lasciare il paese: da oltre un anno non ha più un permesso.
Secondo l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, oltre il 92% dei siriani lavora in nero, e meno di uno su quattro riceve uno stipendio regolare. Molti lavorano in agricoltura e nel settore edilizio, ma anche in bar e ristoranti. A luglio una serie di raid voluti dal ministero del Lavoro ha portato a multe e alla chiusura di diversi esercizi commerciali perché impiegavano siriani.
Il diritto di asilo è riconosciuto a livello costituzionale, ma il Libano non ha siglato la Convenzione di Ginevra, per cui di fatto non riconosce automaticamente ai rifugiati il diritto al lavoro o ad un permesso di soggiorno. Nel 2017 l’UNHCR ha trovato un accordo con il governo libanese per garantire ai richiedenti asilo un permesso di soggiorno. A due condizioni: non aver mai avuto uno sponsor e non lavorare. Sono quindi pochissime le persone che hanno avuto accesso a questa sanatoria.
“L’ulteriore paradosso – continua Frangieh – è che nel 2018 il Consiglio di Stato ha dichiarato illegale le restrizioni all’ingresso introdotte nel 2015. Ma il sistema giudiziario non ha i mezzi per imporre alla General Security di rispettare questa decisione. Siamo di fronte a un grave squilibrio di poteri e ad un politica elaborata dalla agenzie di sicurezza, senza un revisione parlamentare e giudiziaria. Oggi le vittime sono i siriani, i migranti, domani i cittadini libanesi”.
Un clima sempre più ostile
Le recenti proteste di piazza che hanno bloccato il paese hanno imposto l’attenzione sulla crisi economica in cui versa il Libano, a causa della corruzione e di un sistema clientelare. Ma i leader politici hanno più volte tentato di usare i siriani come capro espiatorio: “L’arrivo degli sfollati siriani ha causato ripercussioni negative che hanno colpito tutti i settori libanese”, ha dichiarato ad esempio il presidente Michel Aoun a giugno, aggiungendo che per il ritorno dei rifugiati non si può attendere una soluzione politica in Siria.
E non sono solo parole: negli ultimi mesi si sono intensificate anche le demolizioni degli accampamenti informali nelle Bekaa e soprattutto nella zona di Arsal. “È evidentemente un ambiente coercitivo”, afferma Mike Bruce del Consiglio norvegese per i rifugiati (NRC), che offre sostegno legale e di emergenza anche ai siriani che vivono nei campi.
Decine di accampamenti sono stati demoliti ad Arsal a luglio, mentre almeno 350 abitazioni sono state distrutte in Akkar lo scorso agosto. Il tutto in base ad una legge esistente, ma fino ad ora largamente inapplicata. Le famiglie a rischio sono almeno 3.500 solo ad Arsal: “Sono demolizioni completamente arbitrarie – afferma Bruce. Si tratta di terreni che i privati hanno affittato ai siriani: per demolire le costruzioni servirebbe quantomeno l’approvazione di un giudice. Inoltre in questo modo responsabilità e danno sono esclusivamente a carico dei rifugiati, invece che dei proprietari dei terreni”.
Le persone sgomberate di solito non hanno altra scelta che spostarsi in un altro accampamento informale: ma fino a quando sarà possibile? “Il nostro timore è che sempre più persone siano spinte a tornare in Siria, nonostante questo possa mettere a rischio al loro sicurezza”.
Ritorni (in)volontari
Da oltre un anno continuano anche i ritorni volontari, o meglio, come li definiscono NRC e altri organizzazioni, i “Ritorni organizzati dalla General Security” per distinguerli dai ritorni completamente spontanei. I siriani possono infatti fare domanda per il ritorno assistito presso gli uffici dei partiti politici o della GSO. La lista di nomi viene quindi inviata alle autorità siriane e le persone a cui stato dato il via libera attraversano la frontiera a bordo di autobus organizzati una volta al mese.
Amnesty contesta che che questi ritorni siano davvero volontari: “un ritorno volontario – si legge nel rapporto – è basato su una scelta libera e informata”, ma “le politiche discriminatori sono un fattore fondamentale nella decisione dei siriani di lasciare il paese”.
“Certo, dobbiamo essere pragmatici e riconoscere che alcuni siriani vanno e vengono dal paese di origine senza problemi, chi per ragioni personali, che per accedere alle cure mediche – afferma Franghieh. Alcune parti della Siria sono sicure per alcune persone, ma il punto è che non tutta la Siria è sicura per chiunque”. Ahmed, che è originario dei dintorni di Idlib, dove si continua a combattere, non ha dubbi: “Dove dovremmo tornare?” si domanda. “E per che cosa? Per essere sfollati e vivere in una tenda in Siria?”.
Immagine di copertina: Saadnayel, Valle della Beqa’ Libano (Foto di Daniela Sala)