Abdulrahman è il più giovane di 13 fratelli, ma a Qamshili ne sono rimasti solo sei, perché gli altri vivono tutti in Europa, fra Svezia, Repubblica Ceca e Germania.
La scorsa settimana suo fratello è tornato a casa a visitare i genitori, ormai anziani, insieme alla moglie, anche lei siriana, e al figlio di dieci mesi.
“È quasi impossibile riuscire a riunirsi ormai – dice Abdulrahman – chi è partito rientra solo per le vacanze, si ferma qui al massimo due settimane. Se non fosse per mia madre e mio padre che contano solo su di me partirei anch’io”.
Sposato e con un figlio di due anni, laureato in ingegneria, oggi lavora per una ditta di trasporti. “È l’unico impiego stabile che ho trovato – spiega – poi saltuariamente faccio anche l’interprete, ma ormai capita di rado. Il nuovo conflitto con la Turchia ha reso ancora più insicuro questo territorio, già fiaccato dalla guerra civile prima e dalla presenza dello Stato Islamico più di recente. Dal 2019 in poi, quando i turchi hanno occupato una parte del territorio del Rojava, la situazione è ulteriormente peggiorata, perché hanno preso di mira le nostre infrastrutture, e i soldi per ricostruirle non ci sono”.
L’AANES, Amministrazione autonoma della Siria del Nord Est, non ha abbastanza fondi per finanziare grandi opere, e quelli internazionali sono sempre meno e rivolti alle prime necessità della popolazione.
Qamshili, da città di accoglienza a luogo di emigrazione
Nato e cresciuto a Qamshili, città a maggioranza curda della Siria del nord, fondata agli inizi del Novecento da curdi, assiri e armeni scampati al genocidio, Abdulrahman ha fatto appena in tempo a finire l’università prima che iniziasse la guerra, poi ha vissuto l’assedio delle forze di Assad e la presa della sua città da parte delle SDF, le Forze democratiche siriane, anche se il governo di Damasco continua a mantenere sotto il suo controllo una parte del centro urbano, qui come ad Al Hasaka. Le chiamano “security square” e di fatto sono aree interdette a chi non lavora negli uffici pubblici o non fa parte dell’esercito governativo, e sono frutto di accordi con l’amministrazione autonoma a guida curda.
La città è il più grande centro urbano vicino al confine con il Kurdistan iracheno, unica via di transito da e per la Regione autonoma attraverso il fiume Khabur, ed è sempre stata un punto di approdo, in questi anni, dalle altre province della Siria, Aleppo e Idlib in testa, a causa della guerra civile, e poi anche Raqqa e Deir ez Zur durante gli anni di occupazione dell’Isis. Oggi, con l’intensificarsi degli attacchi turchi, è diventato un altro luogo dal quale fuggire.
Ahmed sogna di raggiungere suo figlio che vive a Praga, dove ha aperto un ristorante siriano cinque anni fa. “Sono vecchio ormai per fare l’autista – dice – ho trascorso più di quarant’anni in macchina ma non posso permettermi di smettere. La nostra moneta non vale più nulla ma i prezzi dei beni alimentari e di tutto il resto sono cresciuti, e facciamo fatica anche solo a fare la spesa”.
Raqqa, la crisi economica post Isis
La maggior parte della popolazione del nord-est, fra le più povere del paese ormai smembrato dalla guerra civile, trova la sua prima fonte di sostentamento nel lavoro agricolo. Intere famiglie, compresi i bambini, lavorano nei campi, e tutte le mattine all’alba salgono nei cassoni dei furgoni per essere trasportati fino ai terreni da coltivare.
Spostandosi verso il centro-sud, a Raqqa, ex roccaforte dello Stato Islamico fino al 2017, la situazione economica è ancora peggiore. La disoccupazione giovanile in questa provincia raggiunge il 75%, e la città è ancora alle prese con una ricostruzione complessa e onerosa che procede molto lentamente. Se con la liberazione dall’Isis gran parte della popolazione si era illusa di poter tornare a casa, ora pensa di andarsene di nuovo, perché si trova a vivere in ruderi che non può ristrutturare, e in più trovare un lavoro resta un miraggio.
“Uno stipendio medio qui a Raqqa equivale a circa 60 dollari al mese – spiega Ibrahim, un ingegnere originario della città e rientrato nel 2017 per contribuire alla ricostruzione – prendere in affitto un appartamento decoroso ne costa almeno 100, una cifra inaccessibile per la maggior parte delle persone che hanno un impiego, figuriamoci per chi non lavora”.
Nonostante l’impegno della Municipalità e le sovvenzioni internazionali per la ricostruzione, la situazione della città è ancora critica. “Siamo partiti da zero perché tutto era stato raso al suolo – ricorda Ibrahim – è stata ripristinata la corrente elettrica per l’illuminazione stradale, le linee telefoniche, l’acqua corrente. Ma i problemi persistono, soprattutto con gli impianti idrici che continuano ad avere delle perdite e ad infiltrare le fondamenta degli edifici, anche quelli di nuova costruzione. Io sono riuscito a rimettere in piedi la mia casa, ma tutto intorno è ancora un disastro, abbiamo disagi con la spazzatura, con i tunnel scavati dai miliziani che non sono mai stati chiusi e che rischiano di provocare nuovi crolli”.
Adnan, il figlio di Ibrahim, ha 26 anni e sta pianificando di partire per l’Europa. “Restare qui è ormai inutile – dice – non c’è nessuna prospettiva, la guerra ha distrutto anche la voglia di ricominciare. I miei amici la pensano come me, ma il problema è riuscire ad andarsene, perché farlo legalmente è impossibile. Io parlo tre lingue, ho studiato, e mi ritrovo senza un lavoro e senza un futuro. Sto pensando alla Germania, conosco alcuni ragazzi che sono riusciti ad arrivarci e si trovano bene. Io qui ormai sopravvivo, e sono stanco di dover dipendere da mio padre”.
Una popolazione dimezzata
Dal 2011 a oggi più della metà dell’intera popolazione siriana, oltre 12 milioni di persone, ha lasciato la propria casa. Di questi, quasi sette milioni continuano a vivere da sfollati interni e poco meno di sei sono andati all’estero, la maggior parte nei paesi limitrofi, in particolare Giordania, Libano e Turchia, e in numeri più ridotti Iraq ed Egitto.
Secondo un’indagine condotta dall’Unhcr fra i siriani che vivono negli Stati vicini, con eccezione della Turchia dove non sono stati raccolti dati a riguardo, oltre la metà dei rifugiati spera ancora di poter tornare a casa. Il 56% degli intervistati ha dichiarato di voler rientrare in Siria in un periodo compreso fra 12 mesi e cinque anni, e questa percentuale sale al 65% fra i residenti in Giordania. Il 32% pensa che non ci sia speranza di rientro, mentre il 12% considera l’idea ma è consapevole che il trasferimento non avverrà nei prossimi anni.
Il 90% del campione di questa “Return perceptions and intention survey” riconosce di non avere attualmente una fonte di reddito che gli consenta di coprire adeguatamente i bisogni primari per sé e per la famiglia. I siriani rifugiati nei paesi limitrofi affermano di aver avuto difficoltà nel sostenere i costi relativi all’alloggio, al cibo, alla sanità. E affermano che la situazione è peggiorata dopo l’inizio della guerra in Ucraina, soprattutto per chi vive in Egitto, uno dei maggiori importatori di grano da Kiyv.
Siriani in Libano
Il Libano ospita il più alto numero di rifugiati al mondo in comparazione al totale della popolazione: un abitante ogni otto è un rifugiato, e i siriani sono circa un milione e mezzo, dei quali 950 mila quelli registrati dall’Unhcr.
Dall’inizio dell’esodo siriano nel 2011, il Libano ha subito chiarito che avrebbe lasciato la responsabilità dei rifugiati alle Nazioni Unite e alle Ong. In questi 13 anni, la Rete siriana per i diritti umani ha denunciato rimpatri forzati e limitazioni dei posti di lavoro per i rifugiati ai soli settori agricolo, edile e dei servizi igienico-sanitari. Il 90% dei siriani nel paese continua a vivere al di sotto della soglia di povertà, e le crisi degli ultimi anni, da quella economica del 2019, seguita dall’esplosione al porto di Beirut nel 2020, fino agli scontri della scorsa estate nel campo palestinese di Ain al-Hilweh e alla guerra di Gaza, hanno esacerbato la situazione.
Siriani in Giordania
I siriani in Giordania sono circa 1,3 milioni, dei quali poco più della metà registrati nelle liste dell’Alto Commissariato Onu. Rappresentano il 15% del totale della popolazione.
Dal 2015 il paese ha messo in atto il Jordanian response plan for Syria crisis, con cadenza triennale, per gestire il flusso di persone in fuga dalla Siria insieme a organizzazioni e donatori internazionali e agenzie Onu, ma nel corso del tempo l’approccio è cambiato, fino agli accordi con la Turchia per il coordinamento dei ritorni volontari, e alla “riabilitazione” di Bashar al Assad che per la prima volta lo scorso anno è stato riammesso alla Conferenza di Amman.
Siriani in Turchia
La Turchia è il paese con il più alto numero di siriani presenti, circa 3 milioni e 600 mila persone, dei quali 400 mila bambini fino a nove anni.
Secondo i dati dell’International labour organization, 930 mila rifugiati degli oltre due milioni in età lavorativa contribuiscono al mercato del lavoro turco, e rappresentano il 2,8% della popolazione impiegata nel paese. Il 97% dei rifugiati lavora però nel settore informale, in condizioni di sfruttamento, e solo il 24% dei lavoratori è impegnato per 45 ore settimanali, mentre gli altri lavorano dalle 46 alle 99 ore per paghe al di sotto della media.
Il terremoto dello scorso anno nell’area di Gaziantep ha creato poi nuove vulnerabilità nella popolazione locale, una delle più povere del paese, e ancora di più tra i rifugiati residenti.
Rimpatri forzati spacciati per volontari
Recentemente Human Rights Watch ha denunciato che la Turchia sta conducendo una campagna di espulsione di cittadini siriani, e che questi rimpatri vengano registrati come volontari. I numeri diffusi dall’organizzazione parlano di 57.519 espulsioni nel 2023, delle quali 16.652 attraverso il valico di Tel Abyad, nella zona a Nord della Siria che dal 2019 è sotto il controllo turco, dove il personale amministrativo di frontiera avrebbe ricevuto pressioni per non pubblicare il numero delle espulsioni e indicarle come transito volontario.
Da questa area controllata dalla Turchia è poi impossibile raggiungere legalmente la Regione autonoma del nord est della Siria, e l’unico modo per spostarsi è affidarsi ai trafficanti, se si possono pagare dai 500 ai 1000 dollari per un passaggio verso le città della Siria “curda”.
“Ricorrere a formule artificiali come la delimitazione di alcune aree della Siria definite sicure per i rimpatri non risolverà il problema”, ha dichiarato l’Alto Commissario dell’Unhcr Filippo Grandi durante la Conferenza di Bruxelles sul sostegno al futuro della Siria e della Regione dello scorso 27 maggio. Nella stessa occasione, è stato rinnovato il sostegno internazionale al popolo siriano con uno stanziamento complessivo di 7,5 miliardi di euro, dei quali 2,12 dell’Unione Europea, da destinare alla Turchia per un miliardo e a Libano, Giordania e Iraq per 560 milioni.
Siriani in Europa e il “freno” della Turchia
Dall’inizio della guerra l’Unione Europea e i suoi paesi membri hanno speso 33 miliardi di euro per la Siria, fra aiuti umanitari, di sviluppo e di stabilizzazione, ma i siriani restano i più numerosi richiedenti asilo sul suo territorio: nel 2023 le richieste sono state 183.035, il 17,5% del totale, rispetto alle 131.790 del 2022. Il numero maggiore di richieste arriva in Belgio, Danimarca, Germania, Bulgaria, Austria, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, e Grecia. La Turchia, dagli accordi del 2016 in poi con l’Ue, continua a esercitare un contenimento dei flussi migratori lungo la rotta balcanica e del Mediterraneo orientale, e ha reso le politiche migratorie oggetto di negoziazione e a volte ricatto. Ma il freno turco non basta. Da gennaio a ottobre 2023 i passaggi dalla rotta balcanica sono cresciuti del 34% rispetto al 2022, in corrispondenza a una lieve diminuzione delle traversate dalla Grecia verso l’Italia dopo la tragedia di Cutro.
Secondo l’organizzazione Collective Aid, che fa parte dello European Council on refugees and exiles, negli ultimi tempi è proprio il numero dei siriani che transitano dalla rotta balcanica ad essere aumentato, a causa del perdurare delle violazioni perpetrate dal regime siriano nelle zone ricondotte alla propria sovranità nel paese e dell’insicurezza diffusa non solo in tutto il paese ma anche in quelli limitrofi ospitanti.
Siriani in Italia
In Italia la comunità siriana non è particolarmente numerosa, anche se è cresciuta dalle quasi 5 mila persone presenti nel 2016 alle oltre 6.500 del 2023. Le Regioni con il maggior numero di presenze sono la Lombardia e il Lazio.
L’International Rescue Committee ha monitorato gli arrivi a Trieste dalla rotta balcanica: lo scorso anno gli arrivi sono stati 16.052, con un incremento del 22% rispetto al 2022. I siriani sono stati solo lo 0,4% del totale, un dato apparentemente contraddittorio con il numero di domande di asilo in Ue che li vedono al primo posto. Anche secondo i dati di Frontex i siriani sono stati i più numerosi a transitare lungo la rotta balcanica lo scorso anno, ma senza passare dall’Italia: come hanno osservato alcune organizzazioni come Collective Aid, i siriani che puntano alla Germania avrebbero scelto un tragitto che taglia fuori l’Italia dalla rotta.
Nei primi quattro mesi di quest’anno, invece, i siriani sono ricomparsi a Trieste: 344 in totale, pari all’11% degli arrivi. Fra le persone arrivate via mare nello stesso periodo, i siriani registrati sono stati 2.460.
Per quanto riguarda le richieste d’asilo, i dati più recenti per singolo paese di provenienza sono quelli del 2022, quando 410 cittadini partiti dalla Siria hanno presentato domanda di protezione in Italia, accolta solo per 228 di loro.