La vita di S. a Palermo e la crisi alla mensa universitaria
S.M. ha 26 anni, è marocchino e vive in Italia da dieci anni. Dal 13 aprile si trova rinchiuso nell’ex Cie di Caltanissetta, ora Centro permanente per i rimpatri, contrada Pian del Lago. In tasca ha un decreto di espulsione e una richiesta di protezione umanitaria. Passa la maggior parte del tempo a letto, senza dormire. Si alza solo per i pasti, non parla e non comunica quasi con nessuno. La frase che lo si sente dire più spesso è: “In Marocco la mia vita è finita”.
La vicenda che lo riguarda è cominciata il 9 aprile scorso nei locali della mensa dell’università di Palermo, poco lontano dallo studentato dove viveva dopo aver vinto una borsa di studio per un corso alla facoltà di Economia. Quel giorno, mentre gli altri studenti erano seduti a mangiare, S. ha dato in escandescenze. Avrebbe urlato frasi sconnesse su “ebrei, musulmani, cristiani e satanisti”, che hanno provocato il panico. Gli altri studenti sono scappati, e qualcuno ha chiamato la polizia, che si è presentata poco dopo con diverse volanti e ha bloccato il ragazzo. Pochi giorni più tardi, S. è stato portato al Cie di Pian del Lago.
Nonostante i giornali locali abbiano parlato di “bravata”, di “scherzo” per “simulare un attentato” o anche di possibili legami con il terrorismo, quel giorno S. ha semplicemente avuto una crisi dovuta al grave disagio psichico con cui convive da anni, e per il quale era stato a lungo in cura. “S. è arrivato a Palermo una decina d’anni fa con il padre, che era in pessime condizioni economiche e non si è mai curato di lui”, racconta Marco Farina, presidente dell’Associazione per i diritti umani Hyro, con cui, dice, S. ha “stabilito un legame particolare”. Farina racconta che il giovane “soffre di un disagio psichico diagnosticato, è stato ricoverato e ha abitato per anni in una comunità terapeutica della città. Pian piano si è inserito nel contesto sociale, ha iniziato a fare volontariato. Organizzava eventi, partecipava alle raccolte dei vestiti per i migranti, si è sempre speso”.
Nel corso degli anni si è diplomato e ha ottenuto una borsa di studio dell’università di Palermo, grazie alla quale gli hanno assegnato il posto al pensionato dell’ateneo. “Andava avanti con la sua vita normalmente”, spiega Farina, “studiava e si recava in ambulatorio per curarsi. Prendeva dei farmaci e faceva un’iniezione mensile che però i primi giorni lo affaticava moltissimo. A un certo punto ha smesso di presentarsi all’appuntamento con i medici. Siccome non aveva famiglia, nessuno è riuscito a seguirlo o ad accertarsi che proseguisse le cure. E anche dall’ambulatorio non hanno fatto nessuna segnalazione. Non voglio dire ci sia stata una mancanza, hanno tanti casi, semplicemente non si sono posti il problema”. Interrotte le cure, per S. sono ricominciate le crisi, con l’episodio alla mensa universitaria.
“Nessun pericolo”
Subito dopo il fermo, l’ente per il diritto allo studio gli ha ritirato la borsa e sospeso l’alloggio. “Considerato che non ha una casa e una famiglia, estromettendolo dallo studentato lo hanno letteralmente lasciato in mezzo a una strada”, spiega Farina, secondo il quale la reazione è stata del tutto esagerata: “Posso capire la situazione di panico collettivo, ma non c’era alcun pericolo”. Ilenia Grottadaurea, legale di S. e membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, denuncia come questo sia accaduto “nonostante il ragazzo abbia solo farneticato qualche parola. Dopo il fermo sono state fatte anche varie perquisizioni, sia in loco sia alla residenza, e nulla è stato trovato. Insomma era sotto gli occhi di tutti che non si trattasse di un soggetto pericoloso o di un terrorista come addirittura si è tentato di farlo apparire, ma di un ragazzo che ha bisogno di cure”.
I volontari di Hyro si sono attivati per cercare una sistemazione a S., l’hanno convinto a riprendere la terapia che aveva interrotto e a farsi ricoverare, come aveva suggerito la stessa polizia. Il 13 aprile, però, mentre si trovava al dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria provinciale (Asp), il giovane ha ricevuto una telefonata dalle forze dell’ordine, che l’hanno poi raggiunto notificandogli la revoca del permesso di soggiorno per studio e un decreto di espulsione. Quel giorno, come ha spiegato in una nota Bijou Nzirirane, responsabile migranti della Cgil di Palermo, il medico del centro di salute mentale dell’Asp aveva detto che il ragazzo “doveva essere subito ricoverato e sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio” (alcuni suoi amici sottolineano che non ce n’era stato bisogno perché S. aveva acconsentito volontariamente a farsi accompagnare in clinica). Poche ore dopo invece, S., dichiarato “socialmente pericoloso”, si è ritrovato chiuso nel Cie di Caltanissetta.
Il diritto alla salute violato
Il trasferimento nel centro di Pian del Lago è stato convalidato due giorni dopo “nonostante avessimo già depositato ampia documentazione che attestava la grave patologia sofferta dal ragazzo”, spiega Grottadaurea, che la mattina dell’udienza ha trovato il suo cliente “in stato deficitario, perché da quando è arrivato al Cie non ha assunto i farmaci. Tant’è che sono stata costretta a rintracciare le autorità competenti chiedendo che fossero usate tutte le accortezze necessarie per non pregiudicare ulteriormente il suo stato. Il luogo dove è trattenuto è assolutamente incompatibile con le sue condizioni di salute”. La legale ha impugnato il decreto di espulsione. Il ricorso è stato però respinto, nonostante il giudice avesse riconosciuto la necessità di un trattamento terapeutico. Pochi giorni dopo è stata presentata richiesta di un permesso per cure mediche, che ha avuto l’effetto di far sospendere temporaneamente l’espulsione e per il quale si attende ancora un responso.
Nel frattempo però lo stato di S. è peggiorato. “Minaccia di suicidarsi, ha sconforti, deliri. È una persona con un disagio psichico dentro un Cie, non è facile”, spiega Farina. Il malessere di S. è culminato il 10 maggio in una violenta crisi di tremori e deliri davanti alla Commissione territoriale di Caltanissetta che si sarebbe dovuta pronunciare sul suo trattenimento nel Cie. L’udienza è stata sospesa, e il giudice ha predisposto una verifica sulla compatibilità della sua condizione con il centro di Pian del Lago, dando un termine di altri quindici giorni.
Nell’ultimo mese, diverse realtà locali si sono mosse per denunciare la situazione del giovane. Sui social è partita la campagna “#SLibero” per chiedere il suo rilascio. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, è intervenuto sul caso, assicurando il sostegno del Comune alle iniziative, di fronte a “provvedimenti dal dubbio profilo costituzionale”. Anche Grottadaurea è convinta “dell’illegittimità” dei provvedimenti nei confronti di S.: “stiamo parlando di un ragazzo bisognoso di cure, non doveva in alcun modo essere portato in quel centro, che ne sta sicuramente esacerbando la patologia”. Secondo la legale è riscontrabile un’evidente lesione del diritto alla salute garantito dalla Costituzione. “E credo che un eventuale rimpatrio andrebbe a ledere anche il diritto alla vita di questo ragazzo”, aggiunge. Per il dottor Daniele La Barbera, psichiatra e direttore della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’università di Palermo, “non è in alcun modo accettabile sostituire una terapia con una punizione, le cui conseguenze, peraltro, possono essere gravissime, proprio perché si tratta di un soggetto psicologicamente fragile. Addolora che un soggetto affetto da un disturbo psichico debba ancora oggi essere considerato socialmente pericoloso piuttosto che bisognevole di cure”.
La cosa paradossale di questa vicenda, infatti, è che la pericolosità sociale è stata attribuita a S. proprio a causa della sua malattia. “È come se un ragazzo con problemi psichici venisse curato da un mese in un carcere anziché in una struttura sanitaria”, ha commentato Nzirirane della Cgil. Secondo Grottadaurea, comunque, quello che è successo a S. non è slegato dalla direzione intrapresa con la recente legge Minniti-Orlando su immigrazione e asilo: “Io credo che siamo arrivati a questa situazione anche a causa del proliferare di leggi e prassi abbastanza negative. Anzi, ne sono certa, perché nulla poteva ricondurre questo episodio a un’ipotesi di terrorismo o altro”. Secondo Farina, quello che è drammatico è che “dentro i Cie o i Cpr vengono ammassate persone senza tenere conto della loro condizione, spesso vulnerabile”. Di recente l’associazione Hyro ha saputo che un altro ragazzo, anche lui con disagio psichico, avrebbe subito il rimpatrio coatto in Marocco: “Purtroppo il suo caso è passato in sordina, a noi la notizia è arrivata tardi”, dice Farina. “Ci siamo spesi tanto e in tanti per S., per una sola persona e per un solo caso. Cado nello sconforto se penso a tutti gli altri”.
Tutte le fotografie sono tratte dalla pagina Facebook “S libero” dove alcuni cittadini fanno campagna perché S. venga rimesso in libertà.