A luglio 2019 quasi un migrante su dieci è morto durante l’attraversamento del Mediterraneo centrale (partenza da Tunisia o Libia, arrivo in Italia). Lo dicono i dati delle agenzie Unhcr e Oim con cui si tracciano i movimenti lungo le due sponde del Mediterraneo. È una netta crescita rispetto al passato: nel 2011 il tasso di mortalità era dell’1,9%, nel 2016 del 2,2%. Nel 2019, finora, luglio non è nemmeno il mese peggiore. A gennaio i morti sono stati 17 ogni 100 “partenti”. Quest’ultimo insieme è calcolato sommando chi arriva in Italia dopo un salvataggio, chi muore e chi viene riportato indietro in Libia o a Malta. La mortalità pesa soprattutto sulla rotta libica, mentre quella tunisina ha, come vedremo, altre dinamiche.
L’aumento della mortalità relativa (la percentuale di deceduti rispetto al totale dei partenti) si accompagna a una riduzione degli sbarchi dell’87% che ha portato ad avere nel 2018 1.314 morti, contro i 4.491 del 2016, anno che resta ancora il record negativo. Su un gommone con 45 persone a bordo, in media quell’anno un passeggero non avrebbe raggiunto le nostre coste. Se nell’anno successivo il dato è rimasto pressoché lo stesso, nel 2018 l’incidenza è più che raddoppiata passando al 3,3%. Vale a dire che lo scorso anno un migrante ogni 30 è morto affogato, per disidratazione, per soffocamento inalando la benzina del motore della barca o per altre circostanze dovute al naufragio.
A leggere i dati in prospettiva con lo storico degli ultimi tre anni si comprende che quest’impennata è proporzionale a due fattori opposti: il diminuire delle imbarcazioni in mare a pattugliare le acque antistanti la Libia e l’aumentare delle responsabilità della Guardia costiera del paese nord africano. Partiamo dal primo. Già nel 2015 il report di Amnesty International Europe’s shrinking shame aveva sottolineato che la maggiore mortalità quell’anno si era avuta in contemporanea con l’assenza di dispositivi europei di pattugliamento delle acque antistanti la Libia, cioè prima che si costituisse la missione di Frontex Triton e quando le Ong erano ancora poche in acqua. Secondo i dati di Frontex, nei primi sei mesi del 2016, queste ultime sono state responsabili del 40% dei salvataggi, con nove imbarcazioni in acqua. La Guardia Costiera italiana confermava lo stesso dato nel 2017, con dieci imbarcazioni in acqua. Poi, dal giugno 2017 e la scrittura del codice di condotta delle Ong, il numero di salvataggi diminuisce, come dimostra uno studio de La Voce “Chi fa ancora soccorso in mare?”. A giugno 2016 sono cinque. Ad agosto 2017 è rimasta in mare solo Acquarius di Sos Mediterranée. A gennaio 2019 è rimasta solo la Sea Watch 3, poi a luglio 2019 tornano ad esserci quattro imbarcazioni (Alan Kurdi di Sea Eye, Ocean Viking di Sos Mediterranée e Msf e Open Arms della fondazione Pro Activa, In attesa di riprendere il mare Mediterranea e Sea Watch). Questa scarsa presenza delle Ong in mare non ha però ridotto gli sbarchi, a testimonianza della totale infondatezza della teoria secondo cui le Ong sono un pull factor, cioè un fattore che spinge i trafficanti a far partire navi verso l’Italia. I numeri li fornisce Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto studi politici internazionali (Ispi) e esperto di immigrazione: “Tra l’1 gennaio e il 31 luglio, dalla #Libia sono partite almeno 8.081 persone. 1.353 partite quando le Ong erano al largo delle coste libiche. 6.728 partite senza nessun assetto europeo a fare ricerca e soccorso”, twitta. Su 82 sbarchi in Italia registrati dalle autorità nel 2019, solo 5 sono stati effettuati da Ong. Una percentuale minima, riscontrata anche nel numero di persone accolte a terra: su 3.844 persone solo 237 sono sbarcate su suolo italiano grazie all’intervento delle navi Ong, il 6 per cento.
Anche la presenza di dispositivi di pattugliamento di navi militari si è molto ridotta. Eunavfor Med, missione delle marine europee di pattugliamento delle acque della Sar libica allo scopo di fermare e distruggere le reti di trafficanti, dal primo aprile non ha più navi in mare. Returns Network, gruppo di giornalisti specializzati in immigrazione, coordinato da Lighthouse reporters (di cui fa parte anche il centro di giornalismo investigativo IRPI), ha mostrato in un pezzo per il britannico Guardian l’impegno crescente di Frontex, guardia costiera e di frontiera europea, nel sostituire le navi con i droni per poter monitorare la situazione alla frontiera.
Il secondo aspetto che invece è diventato più importante è il ruolo della Guardia costiera libica. Da dicembre 2018 il Paese dispone di un centro di coordinamento dei soccorsi e di una Search and rescue region, la zona di competenza dei salvataggi riconosciuta dall’International maritime organisation (IMO), organizzazione delle Nazioni Unite che ha competenze sul mare. I mezzi per pattugliarla sono sempre forniti dall’Italia nell’ambito del Memorandum of Understaning firmato tra l’allora ministro Marco Minniti e il presidente del governo di Tripoli Fayez al-Serraj. Da gennaio 2019 per 46 volte sono stati i natanti della Guardia costiera libica a intervenire in mare, riportando sulle coste nordafricane circa 4.700 persone.
In Libia le città dalle quali si registra il numero più alto di partenze sono le solite ormai da anni: Al Khoms, Zawiya, Zuwara, Tajoiura. Sono le città in cui operavano le milizie fedeli al governo di Tripoli, incaricate con il Memorandum of Understanding di prevenire le partenze. C’era un fronte compatto, in Tripolitania, ma già dall’estate del 2017 ne è caduta una delle pedine fondamentali: la città di Sabratha, fino a quel momento roccaforte della famiglia al-Dabbashi. È da lì che si sono infiltrati gruppi armati alleati dell’Esercito nazionale libico di Haftar in un tessuto erroneamente considerato compatto nel sostegno ad al-Serraj. L’avanzata dell’Enl, cominciata ad aprile per la conquista di Tripoli, sembrava che con l’annessione di Zawya dovesse procedere velocemente verso un finale favorevole al Generale. Invece la progressione si è fermata e ora gli scontri sono in una fase di stallo. Mai come in questo conflitto sono stati coinvolti anche i centri di detenzione: a inizio agosto il governo è stato costretto a chiuderne tre, tra cui quello di Tajoura, colpito a luglio da un raid condotto secondo le prime ipotesi dall’esercito di Haftar, anche se l’esercito non dispone di quella forza aerea.
La chiusura dei centri di detenzione, una novità rispetto al passato, potrebbe incidere sul traffico di esseri umani. A guadagnare con il business dei migranti, infatti, sono “i signori della guerra”, come li ha definiti il procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio in audizione alla Commissione parlamentare antimafia il 2 luglio scorso. Al centro di Tajoura, ad esempio, comandava la milizia Daman, fedele ad al-Serraj. Il centro faceva parte del Direttorato per combattere l’immigrazione illegale (Dcmi), organismo del Ministero dell’Interno di Tripoli finanziato e sostenuto dalla cooperazione Italia-Libia. Il controllo delle strutture è il principale modo in cui le milizie controllano anche le partenze: chi lascia un centro di detenzione è solo perché ha saldato il conto. La rotta libica è tanto mortale perché non c’è alcun interesse a garantire che il viaggio arrivi alla fine. Dal lato italiano, però, investigare sui boss del traffico e non solo sugli scafisti è molto complesso. Durante l’audizione all’antimafia, il pm Patronaggio ha usato spesso la parola “impotenza” per definire la condizione in cui opera la nostra magistratura in relazione al traffico degli esseri umani.
Sempre Patronaggio stima che nel numero totale degli sbarcati in Italia vada calcolato un 20-25% di “sbarchi fantasma”: sono arrivi in cui non è stato possibile registrare le persone sbarcate. Si sa che lo sbarco è avvenuto per via di vestiti o barche abbandonate sulla spiaggia, ma non c’è un conto preciso. Sono un fenomeno che dura da anni, ma che tra il 2018 e il 2019 ha avuto un forte incremento. Mete preferite: le spiagge di Lampedusa o dell’agrigentino. Paese di partenza: sempre la Tunisia. Le inchieste giudiziarie italiane e le immagine raccolte dai droni di Frontex dimostrano due elementi: esistono organizzazioni criminali con cellule sia in Tunisia sia in Sicilia, i migranti partono a volte a bordo di navi madri (grossi pescherecci che ritornano poi indietro) per poi essere trasferiti su barchini più piccoli che poi “scompaiono” lungo coste poco sorvegliate, oppure in gommoni con motori abbastanza potenti per coprire il tragitto in 3 ore e mezza. Viaggi “sicuri”, in cui il tasso di mortalità è bassissimo. Nella terza inchiesta del filone soprannominato Scorpion Fish, una delle più approfondite indagini sulle organizzazioni criminali tunisine, gli investigatori sostengono che alcuni dei migranti possano anche essere vittime di tratta e finiscano ad essere sfruttati nel lavoro nei campi, in Italia come in altri Paesi europei. Il timore però continua ad essere che tra gli sbarcati ci possano anche essere affiliati a organizzazioni criminali o addirittura terroristi, un dato che, se di certo non può essere escluso, al momento non ha ottenuto alcun riscontro oggettivo. Quel che è certo, invece, è che nel Mediterraneo, per chi parte dalla Libia, si muore.
In copertina: tomba di una donna migrante nel Cimitero degli sconosciuti di Zaris. Foto di Ilaria Romano