Il quartiere di Thiaroye è una distesa di acciaio, ferro, macchine, gomme e asfalto, che si estende nel cuore di Dakar partendo dal centro fino alla costa sud della penisola. Si vedono circolare Ritmo, Fiat Duna e altre vetture ormai scomparse dalle strade delle città europee. Transitano lentamente in un traffico fuori controllo, tra container, officine e altri cantieri a cielo aperto, dove la maggior parte degli abitanti lavora nel commercio di pezzi di ricambio per automobili.
Anche Diallo, senegalese di 38 anni originario della città di Kaolack, lavorava in un’officina, ma nel 2004 ha deciso di lasciare tutto per partire per l’Europa. Aveva 25 anni, un figlio di sei, una moglie e in tasca 2.600 franchi senegalesi (pari a 4 mila euro circa), prestati dal fratello magistrato per comprare un visto per il Portogallo. “Da elettrauto prendevo troppo poco e conoscevo tante persone che in Italia stavano bene, che avevano una macchina bella… che avevano cambiato vita”, racconta. “Per ottenere il visto, la persona che avevamo pagato aveva detto che avremmo seguito uno stage a Lisbona, ma in realtà volevamo solo andare in Italia”.
A Forlì, dove abitavano i suoi zii, ha trovato lavoro come magazziniere in una fabbrica di tessuti, la Falber, grazie al documento di un amico che faceva il venditore ambulante e non aveva bisogno della carta d’identità, e al quale ha versato in cambio 100 euro del suo stipendio mensile di 450 euro. Lo ha fatto per nove anni, fino a quando il suo prestanome non ha commesso un reato e la sua falsa identità è stata scoperta. Grazie al patteggiamento è riuscito a evitare un anno e mezzo di carcere, ma nel frattempo la procedura per ottenere un permesso di soggiorno, che aveva avviato tramite la mediazione di un commercialista, è stata interrotta. Diallo ha ricevuto un mandato di espulsione.
Allora si è rifugiato presso le strutture Caritas di varie città dell’Emilia Romagna. Mentre si trovava in quella di Faenza, ha scoperto di poter tornare in Senegal con un progetto di ritorno volontario assistito, attraverso il quale poteva ottenere un biglietto di ritorno e avviare un’attività commerciale, una volta rientrato, con un budget di circa 2 mila euro.
Diallo poteva usufruirne pur avendo ricevuto un’espulsione perché, secondo l’articolo 13 del Trattato Unico sull’Immigrazione, l’ammissione a programmi di rimpatrio volontario assistito permette di prorogare il termine previsto per lasciare il territorio nazionale. “Non ce la facevo più a stare qui senza lavoro, e la Falber si era tenuta i contributi che avevo maturato in nove anni. Avevo speso tanti soldi tra avvocati e commercialista senza ottenere niente. Con questo progetto, potevo essere aiutato”, racconta Diallo.
Tornato in Senegal a dicembre del 2016, ha deciso decide di provare a fare quello che faceva prima di partire. Con l’aiuto degli operatori della Ong partner del progetto, che accoglie e accompagna i migranti a Dakar nella realizzazione delle loro attività, ha comprato un container e ha aperto un’officina per la manutenzione di automobili.
Adesso vive con suo fratello e si dice contento di stare in famiglia. Ha sempre con sé un tablet che mostra la home page di Repubblica, quella del Corriere della Sera, e la cartina dell’Italia con le previsioni del tempo. Quando ci sentiamo mi domanda in un italiano fluente com’è il tempo a Roma. “In Italia tutto è pulito”, dice, “le macchine si fermano per farti attraversare. In Italia stavo bene quando pagavo un affitto e lavoravo. Se avessi ottenuto dei documenti, sarei rimasto”.
La difficoltà di ritornare
Secondo Martina Ruggiero, operatrice sociale del Cies (Centro informazione ed educazione allo sviluppo), la Onlus capofila del progetto con cui Diallo ha fatto ritorno, “chi è in Italia da tanti anni si abitua a una libertà che nel paese di origine non conosce. Libertà di costumi e di non dover rendere conto alla famiglia. In Italia sono soli, sono autonomi”. Ma la maggior parte di loro non ha più possibilità di vivere dignitosamente, e la prospettiva di tornare a casa, offerta dai progetti di rimpatrio assistito, rappresenta l’unica alternativa.
Da giugno 2016 al 31 dicembre 2017, sono stati 271 i migranti rimpatriati attraverso il Fondo Asilo Migrazione e Integrazione dell’Unione Europea e del Ministero dell’interno, che finanzia tre progetti di ritorno volontario assistito, uno gestito dal Cies, uno dal Cir (Centro italiano per i rifugiati) e uno dal Gus (Gruppo Umana Solidarietà). Fino a fine 2017, quello del Cies, Ermes II, si è occupato del rimpatrio volontario di 98 migranti in Tunisia, Marocco, Albania e Senegal. Il Cir ha invece realizzato 67 micro-progetti di reintegro in Colombia, Ecuador, Perù, Ghana, Marocco, Nigeria e Senegal, e il Gus, con il progetto “Back to the future” e lo slogan “Un Paese ci vuole”, si è occupato del reintegro di 106 migranti provenienti da diversi paesi, la maggior parte dalla Nigeria, dal Bangladesh, dalla Siria e dal Senegal.
Le modalità sono simili per tutti i progetti: si acquista un biglietto di ritorno e si finanzia un’attività commerciale con un budget di massimo 2 mila euro. In presenza di familiari a carico del rimpatriato è previsto un contributo aggiuntivo che va dai 600 ai 1000 euro per componente della famiglia a seconda che si tratti di un adulto o di un minore. In Italia si effettua un bilancio di competenze per stilare un piano commerciale che poi una volta ritornati può anche cambiare a seconda delle esigenze, dei consigli degli operatori in loco, e del budget. Alcune Ong prevedono che una parte della somma sia spesa per cure e spese mediche per quei migranti che tornano a casa a causa di problemi di salute, altre tendono a favorire la parte dedicata alle attività.
Anche l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (Oim) si occupa di rimpatrio volontario assistito e, con il finanziamento del fondo nazionale per il rimpatrio assistito del Ministero dell’Interno, da dicembre 2016 a dicembre 2017 ha assistito 42 migranti di ritorno dall’Italia al Senegal.
“Al progetto accedono persone in situazione di vulnerabilità, senza prospettiva di diventare regolari, senza fissa dimora e in situazioni socio sanitarie estreme. Il ritorno permette loro di ricominciare”, dichiara Martina, che si occupa di condurre i primi colloqui con i beneficiari in Italia e dei rapporti con istituzioni, prefetture e questure per dare il via libera al ritorno.
Ma anche se, come racconta, “quando li accompagniamo all’aeroporto, partono sempre con il sorriso”, ricominciare non è facile, perché il ritorno è percepito come un fallimento.
Per i migranti cosiddetti storici come Diallo, arrivati in Italia da almeno dieci anni, quando l’emigrazione era un progetto di vita concepito, progettato e finanziato dall’intera famiglia, l’arrivo a casa è accompagnato da un senso di inadeguatezza. Sanno che i parenti contavano su di loro come una delle entrate principali per mantenersi, e questi hanno difficoltà a capire le ragioni del ritorno, perché “non riescono a credere che in Europa sia diverso da quello che si racconta”, spiega Barbara Cassioli, operatrice di Ermes II per Open Group, cooperativa sociale partner del progetto per il nord d’Italia. Chi è partito spesso si vergogna di ammettere di aver perso il lavoro e non racconta la verità a chi è rimasto a casa, e per questo il ritorno definitivo può essere uno shock per la famiglia di origine.
Ci sono quelli arrivati di recente, partiti carichi di sogni e aspettative maturate tramite foto e racconti edulcorati degli amici, e per loro la delusione è profonda, perché avevano introiettato uno scenario che non risponde alla realtà. La maggior parte di questi viene dai paesi del Maghreb, principalmente Algeria e Marocco, e ha vissuto il viaggio verso l’Europa come un’avventura e una possibilità di scoprire un mondo nuovo. Una volta compresa la difficoltà della situazione, preferisce tornare a casa, ancora in tempo per costruirsi una vita. Barbara, che si era occupata anche dell’edizione precedente del progetto nel 2014-2015, afferma che questo tipo di migranti è aumentato rispetto alla prima fase. “Prima non avevamo persone che avevano fatto un percorso inferiore a due anni, erano migranti di lunga data. Adesso c’è una presenza consistente di giovani nati tra il 1994 e il 1997 arrivati negli ultimi 24 mesi”. Che temono l’incontro con la comunità di origine, anche se questa generalmente non faceva affidamento sul loro viaggio per sostenersi, e dunque accetta più facilmente il ritorno.
La famiglia di A. – senegalese di 39 anni della regione di Fatick tornato in Senegal ad agosto del 2016 attraverso il progetto dell’OIM – è composta da sua moglie, due figli, un fratello, una sorella e i suoi nipoti, che si chiedono perché sia tornato senza soldi a sufficienza per mantenerli. Ma A. voleva “controllare che tutto fosse a posto” dopo la morte della madre. Adesso lavora come saldatore in un’officina, mestiere che faceva anche prima di partire che però, dice, non gli fa guadagnare abbastanza.
Il ritorno di O.
O. invece ha deciso di aprire un allevamento di polli nel giardino della sua casa di famiglia, a Touba, città sacra famosa per ospitare la moschea in marmi bianchi in onore del marabutto più venerato del Senegal, Seign Touba. Sua madre lo ha accolto a marzo del 2017 dopo che lui aveva trascorso 11 anni n Italia a lavorare in una fabbrica di uova – gli ultimi tre senza lavoro, senza casa e senza documenti. Non le importava che il figlio non fosse diventato ricco, diceva che era stato Dio a volere che tornasse, ed era contenta di poter lavorare con lui nel cortile di casa. Ma si è ammalata, ed è morta pochi mesi dopo. O. è rimasto senza soldi perché aveva usato i ricavi del progetto per curarla. Adesso si sente di nuovo senza prospettiva, anche se ci sono ancora suo fratello, sua sorella e i suoi nipoti.
Per lui tornare non ha significato ricominciare, ma ritrovare alcuni dei problemi che lo avevano indotto a lasciare il Senegal la prima volta. La vera differenza la fa la presenza della sua famiglia che, dopo l’esperienza in Italia, apprezza di più, perché gli garantisce almeno un posto in cui stare.
In copertina: O. nel suo pollaio a Touba (fotografia di Marta Vigneri)