“Quando siamo arrivate eravamo giovani e forti. Venti anni dopo, ci ritroviamo ad aver dato l’anima e ad aver perso la salute”. È così che esordisce Malala, prima ancora di iniziare l’intervista: “Abbiamo cresciuto i loro figli per permettere ai nostri, cresciuti a migliaia a migliaia di chilometri di distanza, di studiare. E alla fine che cosa ci resta? Quando non serviamo più, le famiglie per cui abbiamo lavorato e con cui abbiamo vissuto per anni, semplicemente si dimenticano di noi”. Malala è arrivata dallo Sri Lanka più di trenta anni fa ed è una delle 250 mila lavoratrici domestiche che vivono in Libano.
Ci ha appena raggiunto una sua collega, Lina (che chiede di non usare il suo vero nome), e le sta raccontando che ha passato le ultime settimane dentro e fuori dall’ospedale per un problema alla colonna vertebrale. La aspettano sei mesi di fisioterapia a causa di un’infiammazione cronica, che le causa forti dolori al petto e problemi al cuore. Un problema, le hanno detto i medici, dovuto ai decenni di lavori domestici. Nonostante questo, Lina non ha diritto a un periodo di malattia e continua a prendersi cura a tempo pieno dei bambini della famiglia straniera per cui lavora ormai da diversi anni. Senza contare che, a causa dell’assicurazione sanitaria scadente stipulata dal suo datore di lavoro, ora ha accumulato centinaia di dollari di debiti.
In Libano, tutti i lavoratori stranieri per essere regolari devono essere legati ad uno “sponsor”, una persona fisica. Per le lavoratrici domestiche si tratta normalmente della famiglia per cui lavorano. Se decidono di andarsene, magari a seguito di violenze, perdono il permesso di soggiorno e rischiano la deportazione. È il cosiddetto sistema della “kafala”, in vigore in diversi paesi dell’area e del Golfo e che tra le altre cose ha determinato il proliferare di una rete di agenzie di reclutamento nei paesi di origine ed in Libano che fungono da intermediari e alle quali sia i migranti che i datori di lavoro pagano diverse centinaia di dollari di commissione.
È un sistema che diverse organizzazioni locali denunciano da anni e che l’attuale ministro del lavoro, Camille Abousleiman, ha detto di voler superare. Ma negli ultimi anni le lavoratrice domestiche stesse hanno deciso di far sentire la propria voce.
Malala e Lina sono appunto tra le fondatrici delle “Alliance of Migrants Domestic Workers in Lebanon”: un gruppo nato nel 2016 che riunisce circa 200 donne. “C’è un nucleo centrale di sette donne: oltre a Malala ed io, ci sono altre cinque compagne della Costa D’Avorio, Etiopia, Camerun, Madagascar e Togo”, spiega Lina. “Noi sette ci incontriamo una volta settimana, ogni sabato. Mentre ognuna di noi, soprattutto attraverso gruppi WhatsApp, tiene regolarmente informate le proprie connazionali, riguardo alle iniziative o alle novità”.
Sono tutte attiviste da tempo e si sono incontrate per la prima volta al Migrant Community Center del Movimento antirazzista libanese. Nel 2015 insieme ad altre donne avevano fondato l’Unione delle lavoratrici domestiche (DWU), con l’appoggio della Federazione sindacale internazionale e dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Fenasol).
Ma nel 2016 Malala, Lina ed altre hanno deciso di staccarsi: “Volevamo essere indipendenti e decidere per noi, collettivamente. Non c’è una persona a capo dell’Alliance – spiega Lina – Le Ong e altre organizzazioni ci sostengono e ci hanno aiutato, ma spesso, una volta conclusa una manifestazione o un evento non sono così presenti. Questa invece per noi è una battaglia quotidiana”.
Il problema però è che la legge sul Lavoro libanese non comprende il lavoro domestico. Questo significa che non solo le lavoratrici sono escluse dalla contrattazione su orario di lavoro e stipendio minimo, ma che non possono nemmeno riunirsi in unione o essere elette come rappresentanti sindacali. “Ogni volta che vogliamo organizzare un evento pubblico o una manifestazione, dobbiamo necessariamente appoggiarci a qualche organizzazione locale che sia registrata”, aggiunge Lina.
La sua mentore, racconta Lina, è stata Gemma Justo, una lavoratrice filippina tra le fondatrici della DWU e poi dell’Alliance: “Se oggi siamo qui è grazie a Gemma e a Rose (un’altra loro collega del Camerun, ndr)”, dice. Entrambe sono state deportate poco dopo la nascita dell’Alliance: una circostanza preoccupante e che è uno dei motivi per cui Lina preferisce non usare il suo vero nome.
L’anno scorso, le donne dell’Alliance hanno lavorato per mesi alla preparazione di una rappresentazione teatrale in cui raccontavano le loro storie e le violenze che hanno subito dai datori di lavoro. Ma a pochi giorni dallo spettacolo la General Security, l’agenzia libanese di intelligence, si è presentata nel locale che le avrebbe ospitate chiedendo di visionare i documenti di tutte le lavoratrici coinvolte, o non avrebbero autorizzato l’evento. Per ragioni di sicurezza è stato quindi deciso di cancellarlo.
E le difficoltà non si fermano qui: molte donne lavorano sette giorni a settimana e quasi sempre vivono nella stessa casa in cui lavorano. Tante arrivano giovanissime: non conoscono i propri diritti, né il paese o la lingua. Quando Malala è arrivata in Libano era il 1983, nel pieno della guerra civile. “Sono atterrata a Cipro ed ero convinta che avrei lavorato lì”, invece mi hanno caricato su una barca e mi hanno portato in Libano. L’aeroporto era chiuso a causa dei bombardamenti. È stato un viaggio terribile”, racconta. “Le prime parole che ho imparato in arabo sono state ‘himara’ (‘stupida’ in arabo), ‘kalba’ (cagna), e ‘sharmuta’ (prostituta). Tu sei semplicemente una loro proprietà”. Sia Malala che Lina hanno impiegato anni prima di poter far valere i propri diritti, diritti minimi come non essere picchiate e avere un giorno libero a settimana. L’anno scorso Malala è tornata in Sri Lanka per la laurea di sua figlia: “Non ho praticamente nemmeno chiesto il permesso di partire: non potevo mancare. Ho lavorato tutti questi anni per questo, per dare un futuro migliore ai miei figli”.
Da dieci anni Malala rappresenta le sue connazionali all’interno della IDWF, la Federazione internazionale delle lavoratrici domestiche, di cui anche l’Alliance è entrata a far parte l’anno scorso. Mentre la priorità resta l’abolizione della kafala, le lavoratrici chiedono più attività di informazione sui diritti e il supporto legale.
“Ormai ci sono persone, anche nostre colleghe, che mi prendono in giro, perché sono decenni che chiediamo l’abolizione di questo sistema ma nulla è cambiato. E nemmeno io stessa riesco a far rispettare i miei diritti”. La kafala però non è una legge che può essere emendata dal Parlamento, ma piuttosto un sistema, che va smontato pezzo a pezzo e che richiede anche un cambiamento culturale rispetto alla concezione del lavoro domestico e al razzismo a cui sono soggette le lavoratrici straniere.
“A volte il cuore mi pesa come un pietra: vogliono tenerci sottomesse”, dice Lina, “Molte volte ho pensato di lasciar perdere l’attivismo, ma la verità è che non posso. Sì, forse ora siamo bloccate, forse le cose non cambieranno oggi. Ma dobbiamo continuare a combattere”, conclude sorridendo.
Immagine di copertina: veduta di Beirut. Foto di Daniela Sala