Un’economia in crisi e la gente che scende in piazza per protestare contro la mancanza di prospettive e le misure di austerity: è questo il ritratto della Tunisia di oggi. E sebbene il Fondo monetario internazionale stimi che la crescita del Pil del Paese toccherà il 2,4% nel 2018 e arriverà al 2,9% l’anno prossimo, resta tuttavia vivo il malcontento tra le varie classi sociali.
A preoccupare, in particolare, è la disoccupazione: si attesta sopra il 15% sfiorando il 38% tra i giovani (di questi il 41% sono donne e il 31% laureati).
Il 17 Dicembre 2010 a Sidi Bouzid, una cittadina nell’entroterra tunisino, il 26enne Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di verdure, si è dato fuoco dopo che la polizia gli aveva confiscato il carretto con la merce, riducendolo al lastrico. Quell’episodio ha dato il l via ad una serie di proteste che sono sfociate nella cosiddetta “Rivoluzione dei Gelsomini”. Dopo un mese di scontri, nel Gennaio 2011, il presidente Ben Ali fu costretto a fuggire; la caduta del dittatore inaugurò la stagione di quelle che poi sarebbero passate alla storia come le rivolte della Primavera Araba.
A distanza di otto anni dall’evento che diede il via alle proteste, il Paese dei gelsomini sta vivendo una situazione di stallo economico che ha fatto riaprire la rotta tunisina dei migranti economici verso l’Italia. La stabilità politica non va di pari passo con l’idea di cambiamento e rinnovamento che era stata il motore della rivoluzione, e la disillusione e l’assenza di prospettive la fanno da padrone in tutta la nazione, dalla costa all’entroterra, tra giovani e meno giovani.
Il rientro
E poi ci sono i delusi, quelli che dopo una vita spesa all’estero hanno creduto che con la rivoluzione fosse finalmente arrivato il momento di rientrare in patria.
Tra loro c’è Sleimane. Lo incontriamo nel suo ristorante appena fuori la medina di Sfax, in una calda giornata di fine agosto.
Cinquecento mila abitanti, Sfax è il secondo polo del paese, dopo la capitale Tunisi. Molti qui l’hanno soprannominata la “Milano tunisina”, ma rispetto al capoluogo meneghino può vantare il mare ed un fiorente porto.
Sleimane l’Italia la conosce bene, ci ha vissuto dal 1985 al 2013, quasi la metà della sua vita. Ha iniziato come pescatore, prima a Mazzara del Vallo, “un posto che mi ricordava molto la mia terra”, racconta con un velo di nostalgia. Poi si è spostato ad Anzio, polo marittimo poco distante da Roma, dove ha vissuto per dieci anni. La salita verso il nord è continuata e Sleimane è approdato prima a Reggio Emilia e poi a Parma, dove ha dato vita ad una piccola ditta di trasporti. “Tornavo in Tunisia varie volte durante l’anno, lì c’era la mia famiglia, mia moglie e i miei 4 figli”. Quell’andirivieni non era però sufficiente a colmare la distanza che sentiva dentro: “c’era freddezza nei nostri rapporti, non mi sentivo un padre, bensì un padre portafoglio”.
Poi è arrivata la rivoluzione e con essa tutte le speranze e la voglia di riscatto di un popolo che reclamava il cambiamento: “ho pensato che fosse arrivato il momento giusto per tornare, ho creduto di poter costruire qualcosa di importante nel mio paese e di poterlo fare accanto ai miei cari. Ho aperto questo ristorante grazie ai risparmi messi insieme in Italia, però adesso mi sento ancora più solo, perché non mi riconosco nella mia gente, non mi sento a mio agio e soprattutto la Tunisia non ha vissuto il cambiamento che tutti speravamo, c’è una forte crisi oggi”.
E poi c’è la famiglia. Quel legame che si era basato prevalentemente sulla distanza non ha retto ad un ricongiungimento così tardivo: “con mia moglie ci siamo separati poco dopo il mio rientro e con i miei figli il rapporto non è semplice”. Prende fiato, apre il portafoglio ed estrae una tessera plastificata: è italiana, ed è il suo permesso di soggiorno illimitato per motivi lavorativi. “Posso tornare in Italia liberamente, ma questo significherebbe voltare di nuovo le spalle ai miei figli. Loro mi rimproverano di non averli portati in Italia quando erano ancora minorenni, perché ora che sono adulti non posso più far valere il ricongiungimento familiare. Ho sbagliato – afferma – ma credevo che il nostro futuro fosse qui”.
Il rimpatrio
Se Sleimane ha pagato sulla sua pelle la scelta di voler tornare in Tunisia, c’è chi è stato costretto a farlo. E’ il caso di Hassen, deportato con un aereo speciale dalla Svizzera. Lo incontriamo in un bar del centro di Tunisi, al lato dell’Avenue Bourguiba, al termine della sua giornata di lavoro.
Davanti a un caffè ci racconta la sua storia. “Ero un campione di lotta libera, viaggiavo tanto per l’Europa con la mia squadra e, durante una trasferta in Italia, ho deciso di fermarmi. All’inizio è andato tutto bene, vivevo a Genova e lavoravo come saldatore in Fincantieri. Non guadagnavo tantissimo, quel tanto che bastava per avere una vita dignitosa, e riuscivo anche ad inviare soldi alla mia famiglia in Tunisia”.
Poi la crisi del 2008 ha cambiato tutto. “Sono stato licenziato – prosegue nel racconto – mi sono trovato in mezzo alla strada, e quando sei in mezzo alla strada non hai tante scelte per sopravvivere”. Ha iniziato a spacciare, soprattutto fuori le discoteche, “ma non mi sono mai drogato – ci tiene a precisare – al massimo qualche canna”. Una sera viene arrestato dalla polizia, finisce in carcere a Venezia dove sconta dieci mesi di pena. Con la detenzione perde anche il permesso di soggiorno e, quando viene rilasciato, diventa un clandestino. “Non mi piaceva vivere nell’ombra, così sono andato in Svizzera, sperando di riuscire ad ottenere di nuovo i documenti”. Ma se in Italia la sua condizione di illegale era difficile, sul suolo elvetico lo diventa ancor di più: “Sono finito in un centro per espulsione, dove ci trattavano malissimo. In galera sì, è stata dura, ma era la giusta punizione che meritavo, avevo sbagliato e stavo pagando per i miei errori. Ma in Svizzera? Perché mi trattavano in quel modo ancor prima di aver esaminato la mia storia?”.
Dopo alcuni mesi arriva per Hassen l’ordine di espulsione e conseguente deportazione. “Sono piombati nella mia camera in piena notte, mi hanno preso e fatto salire di forza su quel maledetto aereo, immobilizzato mani e piedi, quasi fossi il peggiore dei ricercati. C’erano tante guardie, un trattamento del genere è riservato solo ai terroristi”.
E così dopo diciotto anni di assenza Hassen torna in Tunisia, dove oggi ha trovato impiego come vigilantes nel Centro della Cultura di Tunisi, un edificio considerato un fiore all’occhiello di tutto il Maghreb.
In un paese in cui il tasso di disoccupazione sfiora il 38%, Hassen dovrebbe considerarsi fortunato ad avere un’occupazione, ma non è così: “Lavoro per dieci ore al giorno e guadagno 150 euro al mese. Non è un lavoro che ti permette di creare una famiglia, di costruirti una casa, ma soltanto di sopravvivere”. E ci svela che, malgrado tutto, sta ancora cercando un modo per tornare in Europa: “Non voglio salire su un barcone, ci sono altri modi”, rivela. Uno di questi, secondo Hassen, sarebbe quello di corrompere qualcuno tra coloro che lavorano all’interno delle ambasciate di alcuni paesi. Due o tremila euro per ottenere un Visto di un paio di settimane. “In questo modo non metti a rischio la tua vita nel viaggio, però alla scadenza del Visto diventi illegale, ed io non voglio più sentirmi illegale da nessuna parte”.
Gettare la spugna
Arriviamo ad Hammam Lif all’imbrunire. È una cittadina che dista una decina di chilometri da Tunisi, nella periferia sud est della capitale, sulla costa. Vicino al porto c’è un gruppo di pescatori che fa un gran baccano tra chi è intento a slegare le sardine rimaste impigliate nelle reti e chi cerca di vendere le rimanenze del pescato odierno.
È qui che incontriamo Rafiq, quarant’anni circa, fisico atletico ed uno sguardo spento. “Ho provato per diciotto volte, ma non sono mai riuscito ad arrivare in Italia”. Lo ha fatto, Rafiq, nascondendosi dentro ai tir per poi imbarcarsi sulle navi cargo; ha provato a salire sui barconi che partivano dalle coste tunisine di Sfax e Kerkenna; ha tentato di spingersi più a sud, inserendosi nella rotta libica, ma non è mai riuscito a portare a termine quel viaggio. Mentre era a Tripoli, e lavorava come muratore ha rischiato anche di essere reclutato per combattere in Siria: “Ero molto agile nei cantieri, mi arrampicavo velocemente tra le impalcature, ed un giorno l’imprenditore al quale stavo ristrutturando la casa mi ha proposto di andare in Siria, perché con la mia prestanza fisica sarei stato utile alla causa. Mi ha promesso molti soldi, ma io ho rifiutato, non sono mai stato un radicale, non mi è mai piaciuta la violenza, io volevo soltanto arrivare in Italia. Quell’uomo ha tentato di convincermi in tutti i modi e so che altri giovani si sono fatti abbindolare dalla sua proposta”.
Oggi che ha varcato la soglia dei quarant’anni, Rafiq ha abbandonato il sogno di una vita migliore all’estero. Continua a fare il pescatore, ma sta lavorando anche ad un progetto parallelo a cui tiene molto: “voglio aprire una palestra in questa zona, voglio far sì che i ragazzi inizino a coltivare il sogno ed i sani principi dello sport, così magari la smetteranno di idealizzare una traversata del mare che può essergli fatale”.
Leggi la prima parte del reportage sulla rotta Tunisia-Italia: “La Tunisia delle migrazioni: i dispersi nel Mediterraneo“
Foto di copertina: una statua di ferro raffigurante un cavallo domina la piazza vicino al porto di Zarzis, in Tunisia (fotografia di Romina Vinci)