Dagli ultimi dati diffusi dalla Turkish Presidency of Migration Management relativi al mese di gennaio 2023, in Turchia ci sono più di 5,2 milioni di cittadini stranieri, dai quali 3,9 hanno richiesto la protezione internazionale: i siriani sono 3,5 milioni, gli altri titolari di protezione, con numeri nettamente inferiori, sono soprattutto afghani, iracheni e iraniani, e in piccola percentuale pakistani, bengalesi, turkmeni e uzbeki. Oltre 1.354.000 sono le persone di altra nazionalità che hanno un regolare permesso di residenza, un dato che secondo l’Unhcr è sceso di poco più di 10 mila rispetto allo stesso periodo del 2022.
Dei tre milioni e mezzo di siriani in regime di protezione temporanea con accesso ai servizi di base sul territorio turco, più di tre milioni 450 mila vivono ormai fuori dai campi profughi, dopo anni di permanenza, e solo 47 mila fra loro sono ancora residenti all’interno degli ultimi sette centri di alloggio temporaneo che si trovano vicino al confine. Un numero in calo di 3.740 unità se comparato con i dati del 2021.
Il terremoto del 6 febbraio che ha sconvolto l’Anatolia, oltre al nord est della Siria, rischia di riportare indietro di oltre dieci anni la situazione di molti rifugiati, soprattutto di coloro che, in larga maggioranza, si erano affrancati da tende e container e vivevano nei grandi centri urbani o nelle città più piccole, tenuto conto che quasi due dei 3,5 milioni di siriani presenti nel paese si trova proprio nelle dieci province interessate dal sisma.
“Quanto accaduto ha aggravato le difficoltà e i problemi socioeconomici già presenti in queste aree, soprattutto per i migranti, che vivevano in condizioni di fragilità – spiega Çiğdem Ertak, avvocata e presidente della Göç ve İnsani Yardım Vakfı, la Fondazione per le Migrazioni e gli aiuti umanitari di Diyarbakır – non dobbiamo dimenticare che per la maggior parte si tratta di persone che hanno subito il trauma della guerra e del percorso di riadattamento in altro paese, con una lingua diversa, e una vita da ricostruire partendo da zero, senza contare i casi di discriminazione e di sfruttamento a cui spesso sono sottoposti.”
La Turchia è il paese che ospita il numero più alto al mondo di rifugiati siriani, oltre a essere approdo di flussi migratori che partono dall’Asia e dall’Africa, e allo stesso tempo paese di passaggio per chi cerca di raggiungere l’Europa. Le persone straniere non in regola sul territorio, che si sommano ai richiedenti asilo e ai migranti che hanno ottenuto un permesso di soggiorno, avevano raggiunto un picco nel 2019, seguito poi da un calo di presenze nel 2020 con la pandemia, e una successiva e costante ripresa degli arrivi e dei transiti.
Ai migranti provenienti dall’estero si aggiungono i migranti interni, in particolar modo curdi, che hanno contribuito a una ridefinizione demografica in molte aree del paese. Si calcola che almeno tre milioni di persone si siano spostate da una zona all’altra, soprattutto in Anatolia, a seguito del conflitto fra Pkk e Governo turco nel corso degli anni Ottanta e Novanta, e che a questa migrazione “forzata” si sia poi aggiunta quella economica dalle aree rurali a quelle urbane in città come Diyarbakır e Gaziantep.
“Qui a Diyarbakır lavoriamo soprattutto con i migranti interni – continua Ertak – specialmente con i minori, che cerchiamo di sostenere in un percorso di istruzione anche attraverso borse di studio, per garantirgli un’alternativa al lavoro precoce e sottopagato. Abbiamo molte famiglie che non sono in condizioni di mantenere i figli, e che per questo li mandano a lavorare molto presto. Vale per i rifugiati siriani ma anche per tanti minori curdi, solitamente provenienti da aree rurali, che arrivano in città per cercare un impiego principalmente nelle fabbriche tessili. Grazie al lavoro quotidiano con queste persone, anche nell’urgenza del terremoto siamo riusciti a mantenere i contatti e a individuare rapidamente quali fossero i bisogni più urgenti da soddisfare. Il problema è che una volta passata la prima fase di emergenza, quello che lascia un evento del genere è una nuova ondata di povertà, disoccupazione, e una stretta sui diritti umani fondamentali.”
Il problema del lavoro sommerso e dello sfruttamento dei migranti è diffuso, in agricoltura come nelle fabbriche, e in entrambi i casi non manca anche quello minorile.
“L’afflusso di un grande numero di siriani, dal 2011 con l’inizio della guerra, ha portato d una sostituzione della manodopera agricola, edile, e operaia dai curdi meno abbienti ai rifugiati siriani – spiega Ece Kanaş, agronoma e membro della Göç ve İnsani Yardım Vakfı – la povertà ha portato ad accettare condizioni di lavoro e paghe indegne, e oggi i campi sono tutti coltivati da stranieri. Ad esempio, prima erano i curdi che andavano a raccogliere le noci nella zona del Mar Nero, adesso ci vanno i siriani, pagati ancora meno. La stessa cosa accade nelle industrie della farina, dove ormai la maggior parte dei lavoratori provengono dalla Siria. Se uno stipendio medio per 12 ore di lavoro al giorno è di 8.500 lire al mese, un siriano o un afghano arriva a stento a 5 mila, se è adulto, e a 2mila se è un bambino.”
La Göç ve İnsani Yardım Vakfı fa parte del Solidarity Network for children, women and Lgbti+, una rete di oltre ottanta organizzazioni non governative che si occupano di immigrazione, tutela dei minori, delle donne e delle persone lgbti, che dopo il sisma ha lavorato congiuntamente per cercare di dare una risposta quanto più efficace possibile. Per la distribuzione degli aiuti di prima necessità è stato creato un coordinamento comune, che è servito anche a individuare casi di particolare urgenza fra le centinaia di migliaia di sfollati che hanno perso tutto.
Dal lavoro di intervento e monitoraggio della Solidarity Network è nato anche un report sulle problematiche dell’area colpita dal sisma e sulle possibili soluzioni.
“Il primo problema che abbiamo individuato e che stiamo denunciando è il rischio di epidemie a causa delle precarie condizioni igienico-sanitarie in cui si trovano gli sfollati – dice Çiğdem Ertak – perché, dove ci sono, i servizi igienici sono pochi e promiscui, col rischio che possa diffondersi la scabbia. In alcune tendopoli non esistono nemmeno, e le persone non hanno acqua corrente e non possono lavarsi. Anche l’accesso alle cure è estremamente limitato, quindi bisogna lavorare per creare almeno delle aree pulite nelle quali ci sia la possibilità di lavarsi e di ricevere una visita medica. C’è poi una difficoltà per le madri single con figli, o per le donne sole, perché la richiesta di avere tende riservate è stata negata.”
Nel report si parla anche di casi di violenza fra le persone che oggi vivono nelle tendopoli, dovute un aumento esponenziale dell’ansia e dello stress dopo il sisma, e del fatto che nei campi istituzionali, chi dovrebbe vigilare non prenda alcun provvedimento per mitigare la situazione. Soprattutto per quanto riguarda i bambini, che si trovano in una condizione di estrema privazione, dovrebbero essere previste delle aree giochi in ambienti per quanto possibile adatti a loro, oltre a controlli più serrati rispetto agli accessi alle tendopoli, spesso prive di qualunque controllo, col rischio di incentivare traffici e abusi sui minori.
“Un altro grave problema che stiamo registrando è l’aumento di comportamenti razzisti nei confronti dei cittadini immigrati – conclude Çiğdem Ertak – perché oggi tutte le comunità dell’area colpita si trovano in condizioni di bisogno e hanno paura di non riuscire a ristabilire una situazione di normalità per sé stessi. Per questo dobbiamo attivarci per evitare situazioni di rischio, soprattutto lavorando con i bambini, che sono i più vulnerabili ma anche quelli che possono fare da collante fra le diverse collettività.”
Immagine di copertina di Ilaria Romano