Alina siede in cucina dove ha appena finito di mangiare un borsh. Sceglie sempre il posto più vicino alla finestra, dove può vedere la luce del sole, perché racconta che qui a Odessa non ha paura di stare vicino ai vetri come succedeva a casa sua a Khakovka, nell’oblast di Kherson. Capita che suoni la sirena, certo, ma le esplosioni non sono così frequenti, e lei ha passato troppo tempo al buio negli ultimi tempi.
La casa-famiglia dell’associazione Way Home è diventata la sua abitazione temporanea da poco più di un mese, quando ha perso il marito dopo essere tornata in Ucraina. In questi tre anni di conflitto ha vissuto l’occupazione russa, l’arresto del figlio per alcune settimane, la fuga dai bombardamenti in un viaggio durato 46 giorni, il tentativo di rifarsi una vita in Polonia e infine la decisione di tornare a casa, o quanto più vicino possibile.
“Quando i russi sono entrati in città hanno cominciato a terrorizzare la popolazione – ricorda – avevamo paura anche solo ad uscire di casa per cercare da mangiare, o di accendere la televisione perché a guardare il programma sbagliato si poteva essere accusati di fare opposizione. Alcuni nostri vicini di casa sono diventati delle spie, e riferivano tutto ai soldati. Per la mia famiglia è stato uno shock, mai avremmo immaginato di ritrovarci ad avere paura delle stesse persone che abbiamo incontrato sotto casa per una vita intera. Mio figlio è stato accusato di fare spionaggio per le forze ucraine ed è stato trattenuto per due settimane, durante le quali non abbiamo più saputo nulla di lui, nemmeno se fosse vivo. Poi per fortuna, grazie a uno scambio di prigionieri, è stato rilasciato, e solo allora abbiamo scoperto che era stato picchiato e affamato.”
L’anno dopo, il 6 giugno del 2023, è crollata la diga di Khakovka, e il livello del fiume è diventato incontrollabile. Gli ucraini hanno accusato i russi di aver provocato il disastro, e i russi hanno rispedito le accuse al mittente. Nel frattempo l’acqua ha invaso tutto, e Alina ha passato un altro anno in condizioni estreme. “Le case al piano terra sono diventate inaccessibili, per mesi c’è stata acqua ovunque. Abbiamo deciso che era arrivato il momento di andarcene, a 70 anni avevamo resistito abbastanza.”
Residenti in territorio occupato dai russi, Alina e il marito si sono ritrovati a non potersi semplicemente spostare più a ovest, perché non li facevano passare in Ucraina. E così hanno deciso di attraversare la Crimea, entrare in Russia, poi in Bielorussia, e da lì in Polonia.
“Siamo rimasti lì alcuni mesi – dice la donna – siamo stati accolti bene ma la lontananza dalla nostra terra e da nostro figlio che non poteva uscire dal paese sono diventati ben presto insopportabili. Così abbiamo deciso di rientrare. Non a Kakhovka, che è ancora occupata, ma almeno in territorio ucraino, il più vicino possibile a casa.”
“La storia di questa signora è comune a molte di quelle che incontriamo con la nostra associazione – spiega Katarina, coordinatrice di Way Home Odessa, una realtà nata 28 anni fa come supporto alle donne vittime di violenza e alle persone senza fissa dimora, che con l’inizio della guerra ha cominciato a dedicarsi anche agli sfollati interni – tante persone non sono mai uscite dal paese, spostandosi in zone più distanti dal fronte, altre che inizialmente sono andate all’estero, hanno poi deciso di tornare.”
Alina racconta che le condizioni di salute del marito sono peggiorate con quell’estenuante viaggio, nonostante all’arrivo a Odessa siano subito entrati in contatto con i volontari di Way Home che li hanno aiutati con l’alloggio, i pasti, l’assistenza medica.
Attualmente in città vivono 250 mila sfollati interni registrati, provenienti principalmente dalle regioni di Mykolaiv e Kherson, ma anche da Zaporizhia, Donetsk e Luhansk, che hanno portato a oltre 2 milioni e mezzo gli abitanti totali. Lo stabile di Way Home ne ospita attualmente un centinaio, fra cui donne sole, con figli, intere famiglie. Nell’edificio ci sono anche spazi comuni per bambini e ragazzi, che qui trovano un aiuto per fare i compiti, un posto per giocare ma anche un supporto psicologico per affrontare i traumi della guerra.
“In città la vita continua – dice Katerina – ma questo non significa che tutti noi non siamo sottoposti a una pressione e a una paura continua. Ogni cittadino ucraino ha almeno un parente o un amico al fronte, ha subito delle perdite in famiglia, ha visto la sua vita cambiare da un giorno all’altro. Non ci si abitua mai a questa sensazione di provvisorietà, di incertezza per il futuro, soprattutto perché dopo tre anni non abbiamo ancora trovato una ragione a tutto questo. La salute mentale, che prima era un tema sottovalutato, sta diventando cruciale perché sempre più persone, di ogni età, cominciano a soffrire di depressione, di ansia, di disturbi comportamentali. Militari e civili, abbiamo sempre più bisogno di elaborare i nostri vissuti per andare avanti. Noi abbiamo cominciato con un servizio di volontari, oggi abbiamo un’equipe stabile che lavora grazie ai donatori esteri. Il problema è che l’attenzione su questo conflitto, dopo tre anni, non è più quella dei primi tempi, nonostante siamo entrati in una fase ancora più delicata e allo stesso tempo pericolosa nell’ambito dei rapporti internazionali.”
I dati dell’Unhcr dicono che all’inizio di quest’anno i rifugiati ucraini all’estero erano ancora 6,2 milioni, dei quali il 46% è rappresentato da donne e il 32% da minori. Gli sfollati interni sono 3 milioni, mentre coloro che sono rientrati dall’estero o si sono spostati nuovamente da una zona all’altra sono 5,8 milioni. Nel 2024 l’agenzia Onu per i rifugiati aveva richiesto fondi per 993.3 milioni di dollari per far fronte all’emergenza, ma alla fine di ottobre aveva ricevuto solo il 52% dell’importo. Il Piano di risposta e bisogni umanitari calcolato per l’anno in corso su 12,7 milioni di persone che necessitano di supporto umanitario è di 803,6 ulteriori milioni di dollari.
Secondo l’ultimo Rapporto della Kyiv School of Economics, i danni totali inflitti alle infrastrutture dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022 sfiorano i 170 miliardi di dollari, e solo nel 2024 sono aumentati di altri 12.6 miliardi a causa dei ripetuti attacchi missilistici e dei droni anche in aree molto lontane dal fronte. Gli edifici residenziali demoliti o fortemente danneggiati sono 236 mila (dati aggiornati a novembre 2024), e si concentrano soprattutto nelle regioni di Dobetsk, Kharkiv, Luhansk, Chernihiv, Kherson e Kyiv. I danni nel settore dell’energia ammontano a 14.6 miliardi di dollari, e la distruzione della centrale idroelettrica di Kakhovka e Dnipro ne è l’esempio più noto. Nessun comparto è stato risparmiato, da quello agricolo a quello sanitario, passando per le infrastrutture tecnologiche e dei trasporti.
Dei 42 mila civili feriti o uccisi negli attacchi, inclusi 2.500 bambini, il 13% è rimasto coinvolto nel crollo di un edificio, che fosse una casa, una scuola, un ospedale.
“La maggiore difficoltà è quella di accompagnare verso l’autonomia coloro che hanno perso tutto – racconta padre Alexander Gross, priore della Chiesa Luterana di Odessa che ha attivato dei progetti di accoglienza per sfollati interni in alcuni villaggi rurali a pochi chilometri dalla città, come Petrodolyns’ke – la ricerca di un lavoro è estremamente difficile, le condizioni economiche del paese sono critiche, e ciò che cerchiamo di fare è di garantire le condizioni di base per ripartire, riprendere in mano il lavoro agricolo dove possibile, oltre a garantire servizi per i bambini, dal doposcuola ai corsi di musica e di arte, in modo da dare ai genitori la possibilità di potersi attivare con più serenità.”
Le comunità rurali consentono di lavorare su piccoli numeri e con la partecipazione diretta di tutti, ognuno per le sue competenze. Padre Alexander avrebbe potuto trasferirsi in Germania con la famiglia, ma ha deciso di restare a fianco di chi non ne ha avuto l’opportunità. “Chi è rimasto in questi tre anni non ha avuto altre possibilità – spiega – perché troppo anziano o senza le risorse economiche e sociali sufficienti. Sono proprio questi ultimi che non dobbiamo lasciare soli. Nessuno si aspettava una guerra così logorante, eppure la stiamo vivendo e dobbiamo farci i conti. Noi siamo una piccola congregazione, non arriviamo dappertutto ma facciamo quello che si può, con i mezzi che abbiamo e il supporto delle persone.”