In Europa, l’attenzione nei confronti dell’agricoltura è cresciuta. Già prima della pandemia, il settore era uno di quelli al centro del Green Deal. Poi, con il lockdown, in molti hanno compreso l’importanza di una filiera agroalimentare funzionante e il ruolo dei lavoratori stranieri nell’assicurarla. “Il Coronavirus ha mostrato al grande pubblico i problemi di cui l’agricoltura europea soffre da decenni”, spiega Enrico Somaglia, vicesegretario generale di EFFAT, la Federazione europea dei sindacati alimentari, agricoli e del turismo. “Il lavoro in questo comparto è precario e difficile per tutti. Per i lavoratori stranieri ancora di più”, aggiunge.
Tra il 2011 e il 2017, nell’Ue la quota di migranti che lavora in agricoltura è aumentata dal 4,3 al 6,5 per cento degli occupati. A fare da traino, con una crescita superiore alla media finanche di otto punti, sono state Danimarca, Spagna e Italia. Nel nostro paese, gli occupati stranieri nel settore sono il 18 per cento del totale. Nel 2019, gli operai stranieri a tempo determinato sono stati poco meno di 360 mila. E tutto questo senza contare il lavoro nero.
“Nei campi italiani, negli ultimi anni, sono aumentati prima i comunitari, soprattutto romeni, e poi richiedenti asilo, rifugiati e diniegati extraeuropei. Le condizioni di questi due gruppi sono spesso peggiori di quelle di altri stranieri, come per esempio i lavoratori tunisini, solitamente più stanziali e più sindacalizzati”, sostiene Letizia Palumbo, ricercatrice al Migration Policy Centre dello European University Institute. Sfruttamento, lavoro nero e caporalato sono molto frequenti. Così come degrado abitativo, turni massacranti, salari bassissimi e abusi sessuali sulle donne. In Italia, ma anche in altri paesi mediterranei come Grecia e, soprattutto, Spagna. La questione, però, non riguarda solo il sud del continente.
Il ruolo della Politica Agricola Comune
Un recente lavoro curato da Palumbo con Alessandra Corrado sottolinea come lo sfruttamento esista anche in Germania, Paesi Bassi e Svezia, per quanto su scale e con modalità differenti. “Nei paesi del Nord – riprende la ricercatrice – vengono utilizzati quegli spazi di informalità e irregolarità che offre l’esternalizzazione della forza lavoro”.
Il problema, quindi, è europeo e ha molteplici cause. Tra queste, le politiche in materia di immigrazione. In particolare, a incidere è la mancanza di vie d’accesso legali per i lavoratori stranieri poco qualificati, che però nemmeno il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo ha affrontato. Ci sono poi le motivazioni legate al modello di produzione agricola continentale che, come spiega una ricerca del Parlamento Europeo, porta a “una generale compressione dei diritti dei lavoratori, che in alcuni casi diventa grave sfruttamento o traffico di esseri umani”.
A sostenere questo sistema è anche la Politica Agricola Comune (PAC), alla quale viene destinata la fetta più ampia del bilancio Ue. Per il periodo 2021-2027, si tratta di oltre 336 miliardi di euro, che, in gran parte, sosterranno direttamente gli agricoltori. Varata nel 1962 e più volte aggiornata, la PAC è oggi al centro di un ulteriore progetto di riforma, che la pandemia ha fatto slittare almeno al 2023. Le trattative sono tuttora in corso e il Parlamento Europeo potrebbe votare la sua posizione a fine ottobre. Per questo, secondo diversi enti, è questo il momento giusto per far valere le istanze di chi è impiegato nel settore.
“Nei documenti della PAC – si scalda Palumbo – i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori non vengono praticamente mai menzionati”. Per far si che non sia più così, ad aprile, un cartello di organizzazioni della società civile europea (tra cui CILD, promotrice di Open Migration) ha fatto alcune richieste all’UE. Una di queste è subordinare i finanziamenti della PAC al rispetto delle norme sul lavoro, degli standard sociali e dei contratti collettivi di lavoro. “La Politica Agricola Comune, in base a quanto previsto dal Green Deal europeo, avrà una dimensione ambientale più forte. È giusto. Ma è altrettanto giusto che abbia anche una dimensione sociale forte. Chiediamo semplicemente il rispetto dei contratti collettivi e della normativa giuslavoristica vigente. Le istituzioni Europee e i Governi non possono distogliere lo sguardo da un settore dove lo sfruttamento e il lavoro precario sono spesso la norma”, ragiona Somaglia di EFFAT, che è stata tra i primi promotori delle richieste. Oggi i pagamenti della PAC vengono sostanzialmente erogati in base agli ettari coltivati. Per i firmatari dell’appello, è tempo di cambiare questi criteri. E non solo i soli a pensarla così.
La condizionalità dei fondi
“Le 30 aziende agricole che lavorano con noi prendono i fondi europei esattamente come la maggior parte di tutte le altre. I finanziamenti non vengono assegnati a chi garantisce diritti e lavoro di qualità. Non va bene”, spiega Yvan Sagnet, ex bracciante, oggi presidente di No Cap. L’associazione da lui fondata ha lanciato l’anno scorso un progetto di filiera etica contro il caporalato, che coinvolge lavoratori, produttori, trasformatori, distributori e consumatori: in nove mesi, sono stati impiegati regolarmente oltre 400 braccianti.
“La diffusa cultura dell’illegalità presente in agricoltura è figlia anche della mancanza dei controlli da parte dello Stato”, continua Sagnet. “Per questo, tra le nostre proposte, c’è anche una riforma dell’ispettorato nazionale del lavoro”. Quello degli strumenti di controllo è un elemento fondamentale perché qualsiasi condizionalità funzioni davvero. Ammesso che si riesca ad introdurla.
A Bruxelles, il dibattito che riguarda la condizionalità, infatti, è ampio e spinoso. La questione del rispetto di certi requisiti ambientali da parte dei fruitori dei finanziamenti comunitari, cui accennava Somaglia, riguarda diversi ambiti economici, non solo l’agricoltura. Inoltre, la Commissione UE propone da tempo di negare i sostegni UE a quei paesi, come Ungheria e Polonia, in cui lo stato di diritto è messo in discussione.
Ma la resistenza degli stati membri è molto forte e pare poco probabile che si riesca, nell’immediato, a trovare consenso sufficiente a introdurre nuovi vincoli, soprattutto per la PAC. Da una parte, perché si tratta di una voce del budget UE davvero molto ricca e, dall’altra, perché gli agricoltori europei ne sono fortemente dipendenti. Tra il 2014 e il 2018, in media, i sussidi hanno inciso sul loro reddito per il 36 per cento.
La questione dei prezzi
La battaglia sulla condizionalità, quindi, al momento, sembra difficile da vincere. Ma la guerra per un’agricoltura europea più giusta è appena cominciata. Il più importante, secondo Alessandro Buffardi, è quello dei prezzi. Buffardi è presidente della cooperativa sociale Esperanto che, dal 2018, produce pomodori biologici a Castel Volturno sui terreni confiscati alla camorra. “Finché i prodotti che coltiviamo vengono pagati così poco, cambiare davvero il sistema è complicato”, riflette.
Le ricerche di Letizia Palumbo confermano: “uno dei fattori che favoriscono il ricorso a una forza lavoro migrante a basso salario, flessibile e sfruttabile nella produzione agroalimentare è la pressione sui prezzi da parte dell’industria e della grande distribuzione organizzata”. Per limitare il potere di questi soggetti, come già spiegato su Open Migration, servono interventi legislativi, in vari ambiti. Tra questi, vi sono le vendite sotto costo e le aste a doppio ribasso: la proposta di legge per regolamentarle, dopo esser stata approvata dalla Camera nel 2019, è ancora ferma alla Commissione Agricoltura del Senato.
Vi è poi la direttiva UE 2019/633: a gennaio il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che delega il Governo al suo recepimento. Si attendono ulteriori passi concreti, che sarebbero importanti. Secondo Paolo De Castro, ex Ministro dell’agricoltura e oggi parlamentare europeo, si tratta di un provvedimento che potrebbe “equilibrare i rapporti di forza” tra fornitori e catene della Grande distribuzione “vietando comportamenti non più accettabili come pagamenti ritardati, modifiche unilaterali dei contratti o l’obbligo di pagare per merce deperita dopo la consegna”.
I fronti su cui agire sono numerosi, tra cui anche quelli dell’etichettatura o del salario minimo europeo. Per Somaglia, “non esiste un solo provvedimento panacea: serve un approccio olistico”. Un approccio diverso da quello usato da molti stati UE durante il lockdown. “Quando i governi di Germania o Regno Unito hanno organizzato dei voli charter per portare i braccianti dell’Est nei loro campi – conclude il vicesegretario di EFFAT – si sono preoccupati solo dell’assenza dei lavoratori, non certo delle loro condizioni, ragione primaria della mancanza di manodopera durante il lockdown. È il momento di cambiare, come chiedono sindacati e società civile. E questa istanza non va disattesa”.
Immagine di copertina: Lavoratori della filiera No Cap – Foto: Maria Palmieri