Nell’andarsene da Riace, su disposizione del Viminale, il sindaco Domenico Lucano ha dichiarato non solo di essere pronto a ripetere quanto fatto fino a ora per aiutare i rifugiati, ma di essere riuscito, grazie a questo esperimento, a superare i vincoli degli SPRAR creando una realtà funzionante e autosufficiente. Si tratta di affermazioni importanti che, oltre a sottolineare il divario esistente tra i meccanismi burocratici dell’apparato statale e dell’ordinamento legale e la moralità dei singoli individui, invitano a un ripensamento complessivo dei principi e dell’operare in ambito umanitario.
Non è un caso se Sara Bergamaschi, una lunga esperienza presso le Nazioni Unite e oggi membro fondatrice della ONG SAHR (Strategic Advocacy for Human Rights), ci dica che “Le persone più umane che ho incontrato hanno lavori normali e si danno da fare per aiutare gli immigrati. Se si fa il nostro lavoro, lo spirito umanitario non dovrebbe mai mancare e, tanto meno, il rispetto della cultura locale che invece le istituzioni non hanno. ” Per Sara, “ Il sindaco di Riace è un esempio di come dovrebbero essere gestiti tutti i comuni.”
Di fronte a casi come questo, l’esperienza insegna che un eccessivo coinvolgimento – politico e ideologico – comporta una perdita del senso della realtà. Pertanto il punto di vista distaccato che la cultura può offrire su un determinato fenomeno, richiamando alla memoria anche esperienze del passato talvolta dimenticate, diventa probabilmente la forma di testimonianza più attendibile su cui fare affidamento e avviare un confronto.
Ecco perché, come già successo nel caso dei pescatori tunisini, scagionati dall’accusa di favoreggiamento del traffico illegale di esseri umani grazie al documentario Strange Fish di Giulia Bertoluzzi, nel caso di Riace diventano particolarmente illuminanti due altri film realizzati – ironia della sorte – da due coppie di registi che da tempo, chi per scelta chi da generazioni, dall’Italia sono emigrati. Si tratta di It Will Be Chaos di Lorena Luciano e Filippo Piscopo e Un paese di Calabria di Catherine Catela e Shu Aiello.
Senza conoscersi e in maniera del tutto autonoma gli uni dagli altri, non solo i filmmaker hanno finito per convergere proprio a Riace, dimostrando che – aldilà di tutto ciò che di erroneo o non conforme alla legge è emerso dall’amministrazione di Lucano – il suo sistema di accoglienza è sostenibile e merita di essere salvaguardato; ma anche che la crisi umanitaria dei flussi migratori non può fare a meno dell’intervento esterno di tutti quegli eroi comuni che, a costo di rimanere nell’ombra, contribuiscono con il proprio aiuto disinteressato non, come si vuol far credere, al traffico clandestino di uomini, ma alla salvezza di migliaia di persone in grave difficoltà sulla base del principio morale universale di umanità.
“Riace, come anche Lampedusa e Falerna, rappresenta l’esempio di una realtà locale di frontiera e di accoglienza con un sindaco che ha avuto una visione, quella di un paese che sta morendo e che rinasce grazie all’afflusso di nuovi venuti, che in questo caso sono i rifugiati ”, ci racconta Filippo Piscopo che proprio in queste settimane va e viene dall’Italia agli Stati Uniti, dove risiede e lavora da ormai vent’anni con sua moglie Lorena, per portare in giro It Will Be Chaos.
Quando si parla di comunità di frontiera aperte all’accoglienza, l’aspetto umanamente più significativo arriva da esperienze come quelle di Domenico Colapinto e di suo fratello Raffaele che nel 2013 riuscirono a salvare 18 persone tra le centinaia che persero la vita nel tragico naufragio del 3 ottobre al largo di Lampedusa, pur sapendo che con la Bossi-Fini avrebbero potuto essere incriminati. “E infatti, poi, sono stati convocati dai Carabinieri” ci spiega Piscopo. “Loro, però, hanno deciso di obbedire alla legge del mare che impone l’obbligo morale di salvare chiunque stia annegando. È un po’ la stessa cosa di Lucano. Sono solo alcuni dei tantissimi eroi che rimangono invisibili, ma che è importante raccontare, soprattutto adesso che a ottenere spazio sembra sia solo chi urla slogan estremistici e populistici ”.
It Will Be Chaos è un documentario corale che racconta diversi aspetti e storie di un fenomeno molto più ampio e complesso, di cui Riace è solo uno dei tasselli. Proprio Sara Bergamaschi ha reso possibile la realizzazione di una di queste storie, quella di Wael e della sua famiglia, costretti, a causa della guerra, ad abbandonare Damasco, dove conducevano una vita agiata, e a raggiungere la Germania dopo un’odissea attraverso l’Europa raggiunta via mare a bordo di uno dei tanti barconi partiti dalle coste turche. In Germania, infatti, era già arrivato il fratello di Wael – Thair – che Sara conosceva da alcuni anni e che in precedenza, con il sostegno dei suoi genitori, aveva aiutato quando era transitato dall’Italia. “Mentre le leggi nazionali seguono le leggi della costituzione, le leggi dell’umanità non devono seguire per forza le leggi dello stato” sottolinea la Bergamaschi. “Siccome legalità e moralità, oggigiorno e molto spesso, non sono la stessa cosa, bisogna chiedersi: se una cosa è moralmente giusta ma illegale, io la faccio lo stesso? È il grande concetto fondamentale della disobbedienza civile. Io vivo la mia vita secondo questo principio, e anche tutti gli altri attivisti.”
Per Piscopo e Luciano il viaggio che dagli Stati Uniti li ha portati per cinque anni a immergersi nel fenomeno dell’emergenza dei flussi migratori in Italia e in Europa è iniziato nel 2011, mentre erano al lavoro su un altro progetto, ambientato in West Virginia, riguardante lo stesso fenomeno, ma dal punto di vista della comunità di italiani giunta in quella zona degli Stati Uniti per lo più dalla Calabria. A dimostrazione che anche noi italiani siamo e siamo stati migranti, e in quanto tali siamo stati vituperati e guardati dall’alto in basso.
“Quando nel 2011 siamo arrivati a Lampedusa ci siamo trovati davanti a una situazione molto diversa da come ce l’eravamo immaginata e veniva dipinta dai media. Abbiamo conosciuto una comunità di frontiera abbandonata a se stessa a gestire la crisi, con un sindaco senza mezzi, addirittura ostracizzato dal suo stesso governo, e i pescatori che salvavano i migranti dispersi in mare.” Quando in seguito sono arrivati a Riace, Lucano, in quel periodo, era appena uscito dallo sciopero della fame come forma di protesta per il mancato arrivo dei fondi statali al comune, invero già destinati. “Il comune era in debito e la situazione di estrema insicurezza perché ancora non c’erano i fondi per dar da mangiare ai rifugiati e per coprire i costi degli affitti delle case. Un momento di grossa tensione.”
Diversamente è andata per Catherine Catela e Shu Aiello che si sono imbattuti nella realtà di Riace per caso, ascoltando una trasmissione radiofonica francese. Da lì, la decisione di andare a vedere se era vero. “Abbiamo girato dal 2012 al 2016 e in questo arco di tempo abbiamo potuto capire anche gli aspetti più piccoli e marginali della realtà riacese.” Catherine e Shu sono francesi, ma hanno origini italianissime. I genitori di Catherine sono siciliani e si sono trasferiti in Francia negli anni ’50. Shu, al contrario, deve la discendenza italiana ai nonni che negli anni ’30 migrarono dalla Calabria a Nizza.
“Per gli italiani emigrati in Francia è stata dura. In un secolo sono stati 46 milioni a essersene andati. Quella dell’Italia è una storia di migrazione enorme. In Francia questa generazione di immigrati ha voluto talmente integrarsi che oggi sono i più restii ad accettare le nuove ondate migratorie. A votare il Front National, ad esempio, sono tantissimi di origine italiana e magrebina. Come si suol dire, gli ultimi che arrivano chiudono la porta.” Come si capisce chiaramente dal loro documentario, per le due registe era fondamentale raccontare il meccanismo inarrestabile di andata e ritorno, che caratterizza questo flusso, per mostrare come la storia dell’umanità da sempre sia caratterizzata da queste ondate. Un punto, questo, che trova d’accordo anche Piscopo e Luciano quando dicono che “i grossi fenomeni di migrazione sono inevitabili e riguardano tutti e non solo quelli che arrivano in un momento specifico.”
“All’inizio ” prosegue Catherine, rifiutandosi di parlarne al passato, “siamo state attratte dall’esperienza di Riace, sia perché è un’anomalia, ma anche perché funziona così bene, il che la rende ancora più strana. Da qui, l’idea di partenza di fare un film che spiegasse il suo funzionamento”. Successivamente si sono rese conto che la vera importanza di Riace sta nel suo progetto di integrazione totale e quindi hanno deciso di fare un film sulla sua comunità, sul paese in generale. “La forza di Riace sta nell’essere un progetto comune a lungo termine, un ripensamento della vita assieme tra i locali e la gente accolta”.
Nel loro lavoro di documentazione su Riace, che Catela definisce “un’utopia concreta in movimento”, la regista ci spiega che si tratta di un’esperienza inventata giorno dopo giorno. “Per le cose che non funzionavano Domenico e la sua equipe cercavano altre soluzioni. I bonus sono nati così. Per via del ritardo con cui arrivavano i finanziamenti. Grazie a questi bonus di loro invenzione hanno potuto mantenere le attività e la vita locale”.
Un altro aspetto del modello Riace estremamente positivo che si evince da Un paese di Calabria è anche il suo contributo nella lotta contro la mafia. Come ci spiega Catela “le due cose vanno di pari passo. Non penso che Lucano abbia separato i due aspetti. Anzi, secondo me il concetto di accoglienza e lotta contro la mafia per lui sono la stessa cosa. Accogliere significa aprirsi agli altri e uscire da questa cultura del silenzio, dell’alienazione. Grazie a lui, la gente se n’è resa conto e ha preso una posizione”. Tanto è vero che, tornate a Riace in occasione della manifestazione in favore del sindaco, le due cineaste francesi si sono scontrate con una realtà cambiata rispetto a come l’avevano lasciata. “Abbiamo provato a parlare con gente che conoscevamo, e tutti ci dicevano: lo dico a te, ma non raccontarlo in giro.”
Tanto Un paese di Calabria che It Will Be Chaos dimostrano come il modello Riace non solo possa funzionare, ma consenta di intravedere all’orizzonte scenari che sulla carta possono sembrare utopici, ma nella pratica non lo sono.
Anziché criminalizzare Riace e il suo sindaco, pur con qualche inevitabile miglioria nella sua gestione, il sistema che hanno creato andrebbe tenuto a modello per ripensare e gestire il fenomeno dell’accoglienza. Il suo esperimento – come rileva Catherine Catela – è stato possibile (e qui è stata la sua fortuna) fintanto che nessuno, almeno all’inizio, si è interessato a Riace e in generale alla Calabria. “A chi importa, in fondo, della Calabria e di un paese dove non c’è niente se non poveri e vecchi? Secondo me all’inizio non si sono neanche posti il problema. L’hanno fatto e basta. E questo è geniale.”
In copertina: Murales nel centro di Riace (foto via Wiki Commons)