Sono le 4 del pomeriggio: Mariam, 14 anni, ha ancora la testa avvolta dalla kefiah che usa per ripararsi dalla polvere e dal sole estivo mentre lavora alla raccolta della frutta. “Mi fa un po’ male la testa, credo sia il caldo”, dice mentre consegna a sua madre, Umm Khalid, una cesta di pesche che il datore di lavoro le ha regalato.
Ogni giorno, all’alba, un camioncino si ferma all’ingresso dell’accampamento in cui Mariam vive e la porta, insieme ad altre decine di persone, all’impresa agricola in cui lavora. Fa ritorno nel pomeriggio, quando la temperatura è ormai insopportabile.
Situato a circa 20 minuti di macchina da Mafraq, con le sue coltivazioni di pesche, uva, albicocche, pomodori e cetrioli Baladia Shmali è, insieme alla valle del Giordano, uno dei due poli agricoli della Giordania. A prima vista è difficile crederlo: l’orizzonte è petroso, riarso e le temperature in estate, quando qui è stagione di raccolta, superano spesso i 35 gradi – in ogni caso più sopportabili dei 42 gradi umidi della valle del Giordano. Il confine siriano è a pochi chilometri e a volte in lontananza si sentono rimbombare le esplosioni dell’offensiva su Daraa, non lontano da dove prima viveva la famiglia di Umm Khalid.
“Tutti devono lavorare”
Da un anno, invece, la casa di Umm Khalid e dei suoi 11 figli – “una squadra di calcio”, dice scherzando – è questa: un tendone, una stuoia per terra, alcuni materassi e una bombola a gas per cucinare. Nell’accampamento, sorto in uno spiazzo di terra battuta in mezzo ai campi, non c’è acqua corrente, ma ci sono alcuni generatori elettrici. Ci sono 37 tende per 160 persone: tutti siriani e tutti in qualche modo imparentati tra loro. Sono arrivati dal sud della Siria 5 o 6 anni fa: per un po’ hanno fatto la spola tra la valle del Giordano, in inverno, e la zona di Mafraq, d’estate, seguendo le stagioni del raccolto. Tra il 2016 e il 2017, ci raccontano, si sono spostati praticamente ogni due mesi, da una fattoria all’altra, cercando di intercettare di chi cercava manodopera.
La paga è sempre la stessa: 1 dinaro all’ora (circa 1,20 euro), in un paese in cui il costo della vita non è molto diverso da quello dell’Italia. Ora le famiglie hanno deciso di fermarsi qui il più a lungo possibile: vogliono che i figli più piccoli abbiano la possibilità di andare a scuola e imparino almeno a leggere e scrivere.
Secondo l’Ong giordana Tamkeen, i siriani che lavorano nei campi sono circa 20 mila. E la maggior parte sarebbero donne: la Giordania infatti, stando ai dati della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, è il paese con il più alto tasso di donne impiegate in agricoltura nella regione, il 75 per cento circa.
Nell’accampamento dove vive Umm Khalid ci spiegano che questo succede semplicemente perché spesso le donne sono la maggioranza. E chiunque è in grado di lavorare è tenuto a farlo: donne, uomini e bambini.
Umm Khalid è scappata dalla Siria da sola: di suo marito, dice, ha perso le tracce da tempo. Non sa se sia morto nei combattimenti o se sia scappato altrove. Oltre a Mariam, l’anno scorso anche le figlie più piccole, di 11 e 12 anni lavoravano, fino a quando una non si è rotta un braccio cadendo da una scala e l’altra si è fatta male alla schiena. Quando le domandiamo se non sia preoccupata di mandare sua figlia Mariam ogni giorno a lavorare da sola – mentre lei resta a casa per badare ai figli – la sua risposta è lapidaria: “Non c’è scelta”.
Il Jordan Compact, aiuti economici in cambio di permessi di lavoro
L’appezzamento di terra di Abu Hamza si trova ad una quindicina di minuti di macchina dall’accampamento dove vive Umm Khalid. Un gruppo di una ventina di donne tra i 15 e i 50 anni, i visi coperti, è al lavoro. Le schiene piegate sotto il sole di mezzogiorno, stanno ripulendo un campo di pomodori dalle erbacce, chi a mani nude, chi con indosso un paio di vecchi guanti di gomma.
Ogni estate Abu Hamza dà lavoro a circa 100 braccianti: “Sono tutti siriani e tre su quattro sono donne”, dice. “Preferisco lavorare con le donne perché danno meno problemi e si lamentano meno degli uomini”. Senza contare, aggiunge, che dare lavoro ai siriani è più economico che assumere gli egiziani. E anche meno rischioso, da quando la Giordania ha facilitato il rilascio dei permessi di lavoro ai siriani, rendendo al contempo più complicate le cose per i migranti di altre nazionalità.
Nel febbraio 2016, l’Unione Europea e la Giordania hanno firmato un accordo, noto come Jordan Compact in cambio di 700 milioni di dollari di aiuti all’anno, per tre anni, e di 1,9 miliardi di dollari in prestiti agevolati, la Giordania si è impegnata a migliorare le condizioni di accesso all’istruzione e ad aprire parzialmente il mercato del lavoro all’1,3 milioni di rifugiati siriani che vivono nel paese (l’UNHCR parla di 670 mila siriani in Giordania, ma si tratta solo dei rifugiati registrati, almeno altrettanti sarebbero i siriani non registrati, ma che vivono stabilmente nel paese), a cui prima era formalmente vietato lavorare.
Nonostante questi sforzi, nessuna delle donne che abbiamo incontrato nelle coltivazioni di Mafraq aveva un permesso di lavoro. La maggior parte di loro ci ha detto di avere un buon rapporto con l’attuale datore di lavoro, ma in passato, chi di loro ha avuto problemi relativi ad esempio ai mancati pagamenti, non ha potuto fare altro che andarsene e cercare un nuovo lavoro.
A fine giugno 2018, i permessi di lavoro concessi dalle autorità giordane ai siriani ammontano a 105.404, di questi solo 4.400 sono stati concessi a donne. In totale i permessi per lavorare in agricoltura sono il 43,1%.
Secondo l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, si tratta di dati che evidentemente non rispecchiano la realtà: l’Ilo stima che in realtà i siriani che lavorano come braccianti siano solo il 4-5% del totale. La maggior parte dei siriani avrebbe quindi ottenuto un permesso in agricoltura, che è il più facile da ottenere, per poi lavorare in altri settori, come la ristorazione o i servizi. Una minima garanzia in caso di controlli.
Scarsi investimenti e sfruttamento: un circolo vizioso
In ogni caso, la forza lavoro dei siriani in agricoltura è cresciuta esponenzialmente, anche perché parallelamente il governo ha posto limiti sempre più stringenti all’assunzione di lavoratori migranti di altre nazionalità, tra cui gli egiziani costituivano la maggioranza.
“A paragone con la forza lavoro impiegata in edilizia o altrove, in realtà in siriani che lavorano nei campi non sono molti ma le condizioni di lavoro in questo settore sono particolarmente preoccupanti”, sottolinea Maha Katta, coordinatrice della risposta alla crisi siriana di Ilo.
Di recente l’Ilo ha realizzato un sondaggio, non ancora pubblicato, intervistando 1400 siriani che lavorano come braccianti: “i dati che ci preoccupano di più riguardano il lavoro minorile e l’abbandono scolastico”, dice Katta. Inoltre dalla stessa ricerca è emerso che il 60% delle famiglie vive in accampamenti, dove le condizioni abitative sono precarie e l’accesso ai servizi limitato.
Di fatto la questione è un circolo vizioso, secondo Katta: “in seguito alla chiusura dei confini con la Siria e con l’Iraq, le esportazioni sono crollate e il mercato per i prodotti giordani si è molto ristretto. Per essere competitiva la Giordania dovrebbe puntare su prodotti e metodi produttivi di qualità”. E per questo servirebbero investimenti stranieri, se non fosse che “i potenziali finanziatori sono preoccupati proprio di investire in un settore dove lo sfruttamento è così diffuso”, conclude.
“Non abbiamo altra scelta”
In lontananza, oltre il campo di pomodori che le donne che lavorano per Abu Hamza stanno ripulendo dalle erbacce, si intravedono le serre. Ed è lavorando in una di quelle serre che l’estate scorsa la figlia di Siam si è ammalata: “quando lei ha iniziato a sanguinare ho pensato che fosse il ciclo, ma dopo 45 giorni continuava a perdere sangue”.
Incontriamo Siam e sua figlia Uala, 12 anni, nell’accampamento situato a pochi minuti dalla fattoria di Abu Hamza. Non esiste un servizio di trasporto pubblico tra l’accampamento e Mafraq, la città dove si trova l’ospedale più vicino. Siam ha speso 5 dinari – quasi la retribuzione di un’intera giornata di lavoro – per portare sua figlia all’ospedale finanziato dagli Emirati, che offre un’assistenza di base gratuita ai siriani. “Il medico ci ha detto che era necessario farle ulteriori esami, per capire la causa e poterla curare”, dice Siam. L’esame però sarebbe costato 20 dinari, una cifra che la famiglia non può permettersi. “Il medico ha detto che quasi sicuramente era colpa del caldo, e mi ha detto di non mandarla più al lavoro”. A sostituire Uala al lavoro, da quest’anno, è sua sorella più piccola, Doha, che ha da poco compiuto 12 anni.
Intanto, anche la violenza di genere è una preoccupazione crescente. Recentemente l’organizzazione Tamkeen ha condotto una serie di incontri su questo specifico argomento con alcune donne che lavorano in agricoltura. Ma a causa dello stigma associato alle molestie e alle condizioni di vulnerabilità in cui spesso si trovano, raramente le donne ne parlano apertamente. “Durante queste incontri a volte le donne raccontano di certi incidenti, riferendoli a loro conoscenti: commenti sgradevoli, o palpeggiamenti, sia da parte dei datori di lavoro che di altri lavoratori, ma non ne parlano mai in prima persona”, spiega Hanan, una donna siriana che lavora come mediatrice per Tamkeen a Jerash. “Hanno paura di perdere la faccia, o peggio di esporsi al rischio di un delitto d’onore”, aggiunge Bader, mediatore giordano.
Due anni fa, Siam ha deciso di far sposare sua figlia maggiore appena ha compiuto 14 anni, per evitarle di andare a lavorare nei campi e perché fosse “più protetta”. Quando le chiediamo se sia preoccupata per sua figlia Doha, ci risponde, quasi sottovoce, che ovviamente lo è: ha sentito dire che altrove gli uomini “non sempre si comportano bene”, ma che per quanto riguardano la fattoria dove lavora Doha non ci sono problemi, si conoscono tutti. E in ogni caso, come aveva risposto anche Umm Khalid, al momento “non abbiamo altra scelta”.
L’autrice del reportage ha potuto realizzarlo grazie al supporto economico che ha ricevuto dal “EJN/ILO Migration Journalism Fellowship Programme”
In copertina: una donna siriana mentre ripulisce un campo di pomodori dalla erbacce nell’impresa agricola di Abu Hamza. Provincia di Al-Mafraq, Giordania (fotografia di Daniela Sala, come tutte le immagini di questo articolo)