1. Essere donne oggi significa ancora dover subire discriminazioni e violenze di genere. Tuttavia, ognuna affronta queste ultime in modo differente: cosa significa essere una donna migrante, o di origine straniera in Italia?
Essere una donna migrante in Italia è per noi prima di tutto sapere di stare lottando per la propria libertà. Quella di progettare un futuro diverso da quello possibile nel proprio paese di provenienza. Significa svegliarsi ogni giorno e ricordarsi tutti gli ostacoli posti dal razzismo istituzionale, dai salari insufficienti e dalla violenza patriarcale che colpiscono noi donne migranti due volte, a casa e al lavoro.
Desideriamo essere libere e autonome, di non sentirci dire che mestiere svolgere, che donna essere, di chi innamorarci. La strada per la conquista dei diritti è ancora lunga: anni di lavoro domestico e di cura per iscriversi all’università – o iscrivere le nostre figlie e figli – ed essere trattate anche lì come studentesse di serie B; anni di lavoro da facchine nei magazzini della logistica per potere avere l’autonomia economica necessaria a perseguire sogni e progetti; anni nei servizi di pulizia e di ristorazione, delle grandi catene multinazionali per crescere figlie e figli che dovranno lottare duro anche solo per avere una cittadinanza che spetterebbe loro dalla nascita; anni di ricerca della casa, di residenze, di servizi sociali sfuggenti o mancanti. E ancora anni di lotte per ottenere una cittadinanza che potrebbe esserci negata per un mese in cui risultiamo senza una residenza ufficiale o per qualche altro dettaglio formale che è un insulto alla nostra fatica e al nostro inesauribile coraggio.
Tuttavia siamo sempre di più, e con forti rivendicazioni che parlano delle nostre condizioni di lotta oltre che di vita. Ciò che non rende questa una lotta inutile o solo una fatica mal ripagata è il fatto di sapere che lo facciamo con altre, che lo facciamo per tutte le donne, che la conquista della nostra libertà e della nostra autonomia come migranti e come donne non è solo una lunga fila in questura, sempre ricca di scortesi maltrattamenti, non è solo una vertenza sindacale vinta o persa, una casa popolare ottenuta con enormi difficoltà o non ottenuta affatto. È essere libere e indipendenti anche quando non possiamo permettercelo, è sfidare, giorno per giorno, assieme alle altre, gli ordini di chi ci vuole obbedienti; è rompere le strette maglie che ancora ci limitano i movimenti, con il filo spinato sui confini, e la violenza dei governi e delle forze armate e dentro le città di cui noi donne migranti siamo la struttura portante, ma viviamo nei centri d’accoglienza con le sbarre alle finestre.
Corteo Non Una di Meno 27 Novembre. Ph: Luca Profenna
2. Il 25 novembre è stata la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne. In che modo questa violenza agisce sulle donne migranti?
Ci sono donne che per anni subiscono violenze domestiche, molestie sessuali o ricatti sul lavoro, che sono costrette al silenzio pur di non perdere il permesso di ricongiungimento familiare, un permesso che ci rende dipendenti da compagni violenti o anche solo maschilisti e arroganti. Per noi dire qualcosa non è solo rischiare il licenziamento, ma l’espulsione.
Inoltre, la violenza maschile e patriarcale che le donne migranti affrontano ogni giorno ha molte facce: significa sapere che, a prescindere dal proprio background, con ogni probabilità, ci si ritroverà a lavorare nei campi, nelle case con anziani o bambini, negli ospedali e negli uffici per pulire, non certo per altre mansioni. Questo perché l’altra faccia del razzismo della società è il razzismo delle istituzioni, quello che impone il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, quello delle questure e dei loro requisiti per la residenza, per il rinnovo dei permessi scaduti, per la cittadinanza nostra, delle nostre figlie e dei nostri figli.
Corteo Non Una di Meno. 27 Novembre. Ph: Lucia Argiolas
3. Insieme al Coordinamento Migranti di Bologna, vi battete per l’accesso a un permesso di soggiorno incondizionato. Qual è il legame tra l’autonomia delle donne e l’accesso ai documenti?
Il permesso di soggiorno è uno strumento politico usato dai governi e dai datori di lavoro per creare gerarchie tra le persone migranti e non; tra le persone migranti stesse categorizzandole con diversi nomi e alla fine tra uomini e donne.
I requisiti per il rinnovo del permesso di soggiorno impongono certe condizioni materiali sulle nostre vite e vengono utilizzati per sfruttarci meglio e tenerci sempre al posto dove secondo loro dovremmo essere noi migranti perciò un permesso di soggiorno incondizionato, cioè svincolato da lavoro, reddito e famiglia è un’arma contro razzismo, sfruttamento e violenza patriarcale e maschile. O meglio ancora è togliere a questa triade la possibilità di tenerci in silenzio.
Un permesso incondizionato è poter dire no al capo che ti propone la “cenetta” in cambio di una mansione migliore, è poter divorziare da un marito che alza le mani senza perdere casa, documenti e persino rischiare di perdere i figli, perché se non si dimostra come madri di poterli mantenere la colpa è delle madri, indipendentemente dalle condizioni in cui devono lottare per essere madri. Un permesso incondizionato è poter dire no alla violenza: a chi sul bus ci maltratta, a chi in questura ci tratta da criminali, a chi ai confini e in mare ci tratta come vite senza valore. E infine è poter dire sì, alla creazione di progetti, di lotte, di collettivi, di movimenti.
Non dipende tutto da un permesso incondizionato, non siamo ingenue, ma sappiamo già molto bene cosa potremmo farci. Non è un caso che non ce lo diano e tentino sempre di dividerci. Migranti economici, richiedenti, ecc. Per noi donne un permesso incondizionato è una sfida al patriarcato nei paesi di partenza, nelle famiglie di provenienza e nei paesi di arrivo, nelle nuove cerchie sociali, nei luoghi di lavoro e di studio.
Corteo Non Una di Meno. 27 Novembre. Ph: Giulia Tomassetti Pellegrini
4. Il governo ha proposto un “Reddito di Libertà” per le donne vittime di violenza: cosa ne pensate?
La misura del Reddito di Libertà è una misura assolutamente insufficiente per tutte le donne, non soltanto per noi migranti, e questo lo dimostrano anche le dichiarazioni fatte dai Centri Antiviolenza.
Infatti, il provvedimento, che prevede lo stanziamento di 400 euro per un massimo di dodici mensilità copre solo 625 donne in tutto a fronte delle 50.000 donne che ogni anno si rivolgono ai Centri. [“Secondo i calcoli di D.i.Re”, scrive infatti la giornalista Jennifer Guerra su The Vision, “la principale rete di centri antiviolenza in Italia, i fondi stanziati sono troppo pochi e il Reddito di libertà rischia di tradursi in un intervento di facciata – esattamente come accadde per i 30 milioni per le vittime di violenza annunciati in pompa magna ad aprile 2020: non nuovi fondi, ma soldi stanziati in precedenza e in ritardo di anni”].
La misura, quindi, è stata contestata da tutte, e in piazza il 27 novembre, durante il corteo di Non Una di Meno, erano moltissime le voci di donne che protestavano contro questo provvedimento. Il Reddito di Libertà è in realtà un tappabuchi: il Piano Antiviolenza è scaduto già da due anni, durante i quali nessuna misura è stata varata per rispondere alla violenza che le donne hanno continuato a subire. In aggiunta, non possiamo non constatare anche un altro aspetto, che, di nuovo, evidenzia come razzismo e violenza agiscano insieme: il reddito, infatti, è inaccessibile per qualsiasi donna che non detenga un permesso di soggiorno regolare. Consideriamo che negli ultimi due anni di pandemia le domande e le procedure per ottenere il permesso di soggiorno sono state rimandate in continuazione, i ritardi amministrativi hanno inciso ancora più del solito sulla vita delle e dei migranti. Se si pensa poi che la sanatoria voluta dall’ex Ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, che era rivolta soprattutto a badanti e colf, è un fallimento, è facile capire quanto possa essere difficile essere “regolari” in Italia.
Tuttavia, nemmeno essere regolari difende una donna dalla violenza: il 77% delle donne migranti ha subito violenza. Tuttavia, anche quando ci distribuiscono le briciole, rimane per i governi fondamentale creare delle classifiche e delle differenze fra chi ha e chi non ha la cittadinanza, fra chi è regolare e chi no. Quando sappiamo che l’unica vera classifica invece è chi è ricco e chi è povero, chi è sfruttato e chi no. Essere irregolare non può significare dover subire violenza: questo è importante che lo pensino tutte le donne, non solo le migranti. Quando subisci una violenza non ti viene chiesto se sei regolare o meno, ma può succedere che in quanto migrante o straniera, tu possa essere più facilmente chiamata “vittima”, perché la tua voce vale meno, la tua esistenza vale meno. Finché accettiamo fra di noi l’esistenza di classifiche non vedremo mai il vero problema ossia il patriarcato, il razzismo, e la violenza strutturale che insieme agiscono continuamente contro le donne.
Una manifestazione dell’Assemblea Donne Migranti e del Coordinamento Migranti di Bologna. 2020.
5. Cosa si può fare, sia a livello sistemico che culturale, per fare luce sulle molteplici discriminazioni subite dalle donne migranti o di origine straniera?
Noi donne, nere e bianche, migranti e italiane, lavoratrici e studentesse, viviamo condizioni difficili da molto tempo, e la pandemia le ha rese più dure. Ciascuna di noi lotta ogni giorno sfidando chi crede di poterci comandare nei magazzini o lungo le corsie degli ospedali, nei negozi o negli uffici, contro chi crede che non possiamo parlare perché siamo donne.
Se i social media ci sono serviti per amplificare le nostre voci e le nostre lotte, per condividere le nostre storie, sappiamo che non sono assolutamente sufficienti. Sappiamo che non dobbiamo restare isolate: per questo abbiamo deciso di organizzarci, perché le nostre singole lotte quotidiane diventino una lotta collettiva. Ci organizziamo, scendiamo in piazza insieme a gridare tutta la nostra rabbia, e non siamo più sole. L’italiano medio non ha idea di che cosa significano le sfide che dobbiamo affrontare durante le nostre vite, soprattutto non ne hanno idea coloro che detengono il potere decisionale. Non hanno idea di che cosa significhi essere donna, migrante e povera né di che cosa significhi dipendere da un permesso di soggiorno, o del permesso che ti arriva già scaduto a causa dei continui ritardi delle questure, del peso che questo ha sulle nostre vite di tutti i giorni. Bisogna dare voce a chi vive in prima persona queste condizioni, dare più spazio possibile alle donne migranti e lottare insieme. Ed è necessario, inoltre, ascoltare quali soluzioni vengono proposte dalle stesse migranti. L’assemblea è un luogo per comunicare liberamente e organizzarsi, uno spazio collettivo che non riproduce l’isolamento e le gerarchie di una società che ci vuole subordinate e silenziose.
Per molte di noi lottare in questi mesi e in questi anni ha significato non solo pagare gli scioperi con punizioni e licenziamenti ma anche affrontare i mariti e i padri quando non vogliono che lottiamo. Ci dicono che siamo “essenziali” per il paese, quando in realtà le nostre vite non sono essenziali per nessuno, tranne che per noi stesse e per chi lotta assieme a noi. Per questo lo sciopero è uno strumento essenziale, per dire che ciò che è essenziale è la nostra lotta e la nostra vita: noi siamo qui per vivere, non accettiamo niente di meno. Il nostro femminismo è una lotta per la libertà di tutte e tutti, per un permesso di soggiorno europeo slegato da famiglia e lavoro, per l’autonomia e l’autodeterminazione da padri e maschi violenti, da capi molesti che fanno del colore della nostra pelle o della nostra provenienza la legittimazione per trattarci da inferiori. La lotta delle migranti è la lotta di tutte le donne che ogni giorno lottano contro la precarietà, la violenza maschile e domestica, la violenza contro le persone LGBTQ+.
È importante consolidare uno spazio politico comune e rivoluzionario per tutte e tutti, così da poter combattere insieme e organizzarsi a livello transnazionale. Infatti, mentre lottiamo contro lo sfruttamento, il razzismo istituzionale e la violenza maschile, dobbiamo anche lottare contro la paura che ci impedisce di reclamare la nostra libertà come migranti, come lavoratrici e come donne. Non siamo che all’inizio della nostra lotta: durante la pandemia le donne migranti hanno alzato la loro testa e rotto il silenzio. Possiamo lottare insieme, dobbiamo lottare insieme.
Le risposte sono state elaborate da Laila, Liuba, Marie, Roberta, Laura, Orkide, Francesca, Gioia e Charity dell’Assemblea Donne Migranti.
L’Assemblea Donne Migranti invita tutte le donne migranti che che sono isolate, di scrivere e di parlare con loro E-mail: [email protected]; Facebook: Coordinamento migranti Bologna; Instagram: assembleadonnemigranti.
Foto copertina via Coordinamento Migranti Bologna/Facebook.