Indifferenti alle trattative in corso tra Italia e Libia, migranti e profughi continuano ad attraversare il Mediterraneo, costretti su gommoni e carrette fatiscenti da scafisti. La strage è dietro l’angolo. Quanto all’intesa in fase di negoziazione con la Libia, il rischio è di creare in Nordafrica dei maxi campi profughi senza alcuna garanzia di rispetto dei diritti umani, mentre difficilmente scoraggerà i trafficanti dall’aprire nuove rotte verso l’Europa.
Aprire canali di accesso legale e sicuro per i rifugiati, invece, priverebbe i trafficanti della fonte del loro business, salvando al contempo migliaia di persone. Ci hanno provato la Comunità di Sant’Egidio e la Federazione delle Chiese Valdesi con i corridoi umanitari, che hanno consentito a circa 700 profughi di raggiungere l’Italia in modo legale. Trattandosi di un’iniziativa privata e autofinanziata, però, può riguardare solo gruppi ridotti di persone. Un caso recentemente portato all’attenzione della Corte di Giustizia Ue, invece, sembra suggerire che esiste nel diritto dell’Unione la possibilità di creare canali umanitari istituzionali.
La vicenda
Una famiglia siriana (madre, padre e tre bambini) vuole fuggire da Aleppo e raggiungere Bruxelles per farvi richiesta d’asilo. La famiglia chiede all’ambasciata belga a Beirut il rilascio di un visto per entrare in Belgio – in particolare un visto con validità territoriale limitata, della durata di 90 giorni, disciplinato dall’art. 25 del Regolamento 810/2009 (il cosiddetto Codice Ue dei visti). Pochi dubbi sul fatto che, una volta arrivati a Bruxelles, i cinque siriani otterrebbero lo status di rifugiati: già esposta a rischio dal fatto di vivere ad Aleppo, la famiglia appartiene inoltre a una minoranza religiosa soggetta a persecuzione e il padre è stato sequestrato e torturato da un gruppo di terroristi, che lo hanno rilasciato dietro pagamento di un riscatto. L’Ufficio belga per gli stranieri, però, rifiuta il visto, perché i richiedenti intendono fare domanda di asilo e quindi dovranno necessariamente soggiornare in Belgio più di 90 giorni, violando i termini previsti dall’art. 25 del Codice dei visti. Ma la famiglia non si scoraggia davanti a questo stop, impugna il provvedimento di diniego e apre la fase giudiziale.
Qui emerge un primo dubbio sulla legittimità (e l’opportunità) del rifiuto. Occorre decidere:
- se il permesso chiesto ricada nella disciplina del visto breve previsto dall’art. 25;
- se, alla luce della normativa europea e internazionale sui diritti fondamentali (Carta di Nizza, Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e sull’asilo (Convenzione di Ginevra), il Belgio non sia obbligato a concedere il visto, proprio per prevenire il rischio che, rimanendo in Siria, la famiglia vada incontro a “torture, trattamenti inumani e degradanti” vietati tanto dalla Carta di Nizza (art. 4) quanto dalla Cedu (art. 3).
La sentenza della Cgue
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cgue) conferma il rifiuto: i giudici fanno proprio l’argomento del governo belga secondo cui le intenzioni della famiglia non sono compatibili con un soggiorno breve, per cui alla famiglia non si può rilasciare il permesso previsto dall’art. 25 del Codice dei visti; anzi, la materia non è regolata dal diritto Ue. La Corte afferma infatti – accogliendo il parere del Belgio e di altri Paesi membri intervenuti in udienza – che non esiste alcuna normativa europea sulle condizioni di rilascio di visti di lunga durata per motivi umanitari. Quindi la materia rimane di competenza esclusiva degli Stati che, poiché al caso non si applica il diritto Ue, non sono tenuti ad applicare le prescrizioni della Carta di Nizza a tutela dei diritti fondamentali.
“La conclusione contraria”, scrive la Corte “equivarrebbe, laddove il Codice dei visti è stato concepito ai fini del rilascio di visti per soggiorni non superiori a 90 giorni, a consentire ai cittadini di Paesi terzi di presentare … domande di visto finalizzate ad ottenere protezione internazionale nello Stato membro di loro scelta, il che lederebbe l’impianto generale” del sistema Dublino 3. La Corte, quindi, esclude l’applicazione del diritto Ue per un argomento formale – e cioè la durata del soggiorno – e per evitare il cosiddetto “asylum shopping” (la prassi di presentare domanda d’asilo nel paese che offrirà le migliori condizioni di accoglienza, o di presentare una domanda in un altro paese dopo essere stato respinto).
Una diversa lettura è possibile
In base alle conclusioni dell’avvocato generale, Paolo Mengozzi, invece, quella della Corte non è affatto un’interpretazione necessaria: anzi, è possibile leggere le stesse norme nel senso che il Belgio sia obbligato a rilasciare il visto richiesto. Applicando in generale questa seconda lettura, si aprirebbe un canale di accesso all’Ue legale e sicuro – per chi parte e per chi accoglie – e porrebbe così fine al business dei trafficanti. Nelle conclusioni di Mengozzi emerge anche la critica all’atteggiamento di totale chiusura e ingiustificato allarme tenuto anche degli altri Stati intervenuti in giudizio.
Ecco, in estrema sintesi, il ragionamento dell’avvocato generale:
- Il caso ricade nel campo di applicazione del Codice dei visti, quindi del diritto Ue. La domanda di visto è stata presentata ex art. 25 del Codice ed è stata la stessa autorità belga ad applicare il diritto Ue, dichiarandola ammissibile ai sensi dell’art. 19 e rifiutando il visto ex art. 32 del Codice (in base al quale il visto può essere rifiutato se ci sono dubbi sul fatto che il richiedente lasci il territorio dello Stato entro 90 giorni);
- Il fatto che la famiglia intenda chiedere asilo non cambia le cose: il visto serve solo a entrare legalmente in uno stato Ue, invece di affidarsi ai trafficanti (né il Codice dei visti menziona, tra le condizioni di ammissibilità della domanda, i motivi per cui il visto è richiesto). Se poi la famiglia farà richiesta di asilo, il suo titolo di permanenza in Belgio sarà costituito dalla condizione di richiedenti asilo (nella pendenza del procedimento), poi dallo status di rifugiato;
- L’art. 25 del Codice dei visti, invocato dalla famiglia, recita che “I visti con validità territoriale limitata sono rilasciati eccezionalmente quando, per motivi umanitari … lo Stato membro interessato ritiene necessario” derogare ai requisiti di ammissibilità. Ad esempio, in presenza di motivi umanitari si può rilasciare un visto a chi non abbia i documenti prescritti, e perfino a chi abbia “già utilizzato un visto uniforme o un visto con validità territoriale limitata per un soggiorno di 90 giorni”. Lo Stato conserva un margine di discrezionalità sulla richiesta, volto a valutare se esistano i “motivi umanitari” ex art. 25. In caso affermativo lo Stato deve rilasciare (dato il dettato tassativo dell’articolo) il visto;
- Quanto all’esistenza di motivi umanitari nel caso specifico: l’Ufficio per gli stranieri, nell’esaminare la domanda di visto, ha riconosciuto l’esistenza di una “situazione catastrofica” ai danni della famiglia siriana. La valutazione dei motivi umanitari va fatta alla luce delle prescrizioni della Carta di Nizza, che si applica sempre nell’attuazione del Codice dei visti (cfr. considerando 29) e sancisce che tutti hanno diritto alla vita e all’integrità fisica e il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti (artt. 2, 3 e 4 della Carta), in particolare in presenza di “persone particolarmente vulnerabili”, tra cui i minori (art. 24 c. 2);
- Una situazione come quella della famiglia siriana (in fuga da Aleppo e appartenente a una minoranza religiosa, unita alla circostanza che il padre sia già stato sequestrato da terroristi) sicuramente li espone a rischi per la vita, a torture o trattamenti degradanti, quindi integra i “motivi umanitari” in presenza dei quali lo Stato richiesto è obbligato a concedere un visto ex art. 25.
Due interpretazioni agli antipodi
Da una parte, quindi, c’è una sentenza che “sembra poter far venire meno quella sorta di obbligo di accoglienza sostenuto da più parti per motivi umanitari”, come scrive Claudio Bovino, avvocato del Foro di Milano. Una decisione che “potrebbe rafforzare le posizioni di quanti sono poco propensi ad accogliere il più recente flusso di migliaia di migranti che, in particolare dalla Siria, in ginocchio dopo sei anni di disastroso conflitto, è alla disperata ricerca di asilo in Europa”.
Dall’altra parte ci sono poi le conclusioni dell’avvocato generale, che conducono a un risultato diametralmente opposto a quello della Corte del Lussemburgo: non solo è possibile concedere il visto, ma è anche obbligatorio farlo nel caso della famiglia siriana (e in generale, ove si accerti l’esistenza di motivi umanitari). L’avvocato Mengozzi, quindi, afferma sostanzialmente che il diritto Ue prevede un canale di accesso sicuro all’Unione Europea: l’art. 25 del Codice, lo stesso invocato per attivare i corridoi umanitari.
Diritto o politica?
Viene da chiedersi come sia possibile una così netta contraddizione tra le due letture, quella della Corte e quella dell’avvocato generale. Secondo l’avvocato Caterina Bove, dell’Asgi, “la sentenza era prevedibile in qualche modo, anche considerato il clima politico in cui è stata emessa”. E che di una scelta politica si sia tratto lo dimostra l’argomento (sostenuto dagli Stati intervenuti nel giudizio e accolto dalla Corte) secondo cui consentire ai cittadini di Paesi terzi di presentare domande di asilo all’estero avrebbe conseguenze “fatali” per l’Unione europea (per usare le parole del rappresentante ceco), sia per l’afflusso massiccio di migranti che determinerebbe, sia perché farebbe saltare il sistema di Dublino.
Ma, come più volte ribadito dall’avvocato Mengozzi, all’ambasciata di Beirut la famiglia siriana non ha chiesto il riconoscimento della protezione internazionale, ma un visto per accedere al territorio di un solo Stato membro; il Belgio sarebbe stato lo Stato di primo ingresso nella Ue per la famiglia, che qui avrebbe chiesto asilo. In più, per chi risiede in una zona di conflitto raggiungere una sede diplomatica per presentare domanda di visto è tutt’altro che agevole, per cui il rischio di un’invasione è scongiurato, e pure la presunta possibilità di asylum shopping ne risulta ridimensionata. “In condizioni estreme come quelle che i ricorrenti hanno sopportato, la loro possibilità di scegliere è limitata come la possibilità degli Stati del bacino del Mediterraneo di trasformarsi in Paesi senza sbocco sul mare” sottolinea l’avvocato Bove, non risparmiando una frecciata: per come è disciplinato il sistema di asilo Ue, gli unici Stati obbligati a sopportare la pressione migratoria sono Italia e (prima del disastroso accordo con la Turchia) Grecia. In definitiva, quello dell’invasione non è un argomento giuridico, mentre lo è il rispetto universale dei diritti fondamentali oggetto di specifiche convenzioni.
Un’occasione persa
“In pratica questa sentenza lascia tutto com’è, perché interpreta la normativa in maniera molto letterale – spiega l’avvocato Bove – Mentre l’avvocato generale aveva fatto leva sui principi fondamentali dell’Ue, sul diritto d’asilo e sul divieto di subire trattamenti inumani e degradanti”. In questo senso, la decisione della Corte di non aprire un canale legale e sicuro di accesso alla protezione internazionale “è un’occasione persa, quella di mettere a nudo il paradosso per cui il diritto d’asilo esiste, è tutelato, ma si riesce a esercitarlo soltanto arrivando in maniera illegale sul territorio degli Stati”.
La possibilità di creare canali di accesso legale e sicuro in Europa, quindi, rimane affidata alla società civile, come nel caso dei corridoi umanitari, “inventati” proprio a partire dall’art. 25 del Codice dei visti. Il progetto è in crescita: a gennaio anche la Cei ha firmato con Viminale e Farnesina un accordo per consentire l’ingresso di 500 profughi eritrei, somali e sud-sudanesi, tra quelli che vivono in campi profughi in Etiopia. Il modello è stato anche “esportato”: è di pochi giorni fa la notizia che la Francia ha deciso di accogliere 500 profughi iracheni e siriani residenti in Libano, adottando lo schema dei corridoi umanitari della Comunità Sant’Egidio. Ma, anche sommando le 700 persone già arrivate, si tratta una goccia nel mare.
Gli stessi Stati che hanno l’obbligo di non respingimento dei rifugiati (art. 33 delle Convenzione di Ginevra), gli stessi che salvano i migranti dai barconi della morte, gli stessi che sono disposti a spendere milioni per bloccare i trafficanti (al rischio di confinare i migranti in campi profughi, come in Turchia), possono rifiutare l’ingresso a una persona che abbia provato ad accedere legalmente in Ue, con un permesso ex art. 25 del Codice dei visti. Un paradosso: uno Stato che rifiuti quel visto, stante la sentenza della Corte, non può essere condannato se “respinge” un (probabile) profugo di guerra, o climatico, un perseguitato eccetera.
Per concludere con le parole dell’avvocato Mengozzi, per timore che un’invasione (ipotetica) distrugga l’Europa, gli Stati membri la stanno già disgregando; lo fanno ogni volta che rinunciano ai valori e ai diritti umani sui quali si fonda la costruzione europea.
Foto di copertina: Pixabay (CC0).