Nel centro della città i contorni della guerra sfumano, e lasciano spazio a una quotidiana “normalità” nelle ore di sole, prima del coprifuoco, quando le persone escono a piedi con i bambini, o con i cani al guinzaglio, sorseggiando un caffè o un tè da asporto comprato al chiosco. Quella che prima era piazza Lenin, almeno fino al 2016 quando il monumento venne smantellato, è l’inizio – o la fine – di viale Soborny, noto come la strada più lunga d’Europa, di quasi undici chilometri. Zaporizhia ha anche un altro primato nella sua regione, la centrale nucleare di Enderhodar sull’altra sponda del Dnepr, nei pressi del bacino idrico di Kakhovka, la più grande per capacità di tutto il territorio europeo, e sotto il controllo russo dal quattro marzo scorso.
Fra il centro urbano e le aree occupate, c’è una strada dritta che per gli sfollati è l’ultimo tratto di una fuga che può durare giorni, lungo la quale i primi a raccogliere le loro storie sono i militari dei posti di blocco ucraini.
“Le persone che arrivano da Mariupol sono le più spaventate – spiega un soldato di guardia – e quelle che hanno meno voglia di parlare. Spesso hanno trascorso più di un mese sottoterra, nascoste in qualche scantinato, e la maggior parte di loro ha perso tutto perché la città è rasa al suolo. Chi racconta parla di rapimenti dei cittadini più in vista, per i quali viene chiesto un riscatto in cambio del rilascio, e di gente che non ha fatto più ritorno a casa. Anche un mio compagno di unità non ha più notizie dei familiari da quasi trenta giorni e non riesce ad avere informazioni su di loro perché i contatti scarseggiano, e non vuole mettere in pericolo altri parenti rimasti in città.”
Chi passa di qua, come spiega il militare, ha già viaggiato per giorni, e spesso è stato costretto a fermarsi in diversi centri abitati, o in campagna, cercando di evitare i posto di blocco russi che controllano persino eventuali tatuaggi sulla pelle che possano ricondurre a un’attività militare, e per questo impedire il passaggio.
Chi raggiunge Zaporizhia trova un centro di accoglienza allestito sin dai primi di marzo nel piazzale di un centro commerciale, dove oggi c’è un tendone con lunghi tavoli di legno, panche, bevande e cibi caldi, indumenti puliti, prodotti per bambini, e un parcheggio riservato agli autobus e alle macchine di chi è scappato. Alcune delle auto hanno la scritta “bambini” sui finestrini. “Quella scritta che a Kyiv non ha funzionato”, commenta un ufficiale di polizia che presta servizio sul posto, ricordando Bucha, Irpin e tutte le famiglie prese di mira mentre tentavano di portare in salvo i figli.
“Quando i soldati russi del posto di blocco hanno visto la nostra bandiera bianca annodata allo specchietto ci hanno deriso – racconta Anton, un ragazzo di vent’anni appena arrivato da Berdyansk con la fidanzata – hanno cominciato a dire che eravamo degli stupidi a pensare che quel pezzo di stoffa ci avrebbe salvato la vita. Noi siamo scappati perché ormai non avevamo altra scelta: da quando la nostra città è stata occupata non ci sono più negozi aperti, il cibo non si trova, a meno che non si accettino i loro aiuti umanitari, che poi sono quelli che hanno sottratto agli ucraini quando ancora c’erano le nostre forze nella zona. Ci sono anziani, persone fragili che li accettano, e molti di loro sono stati male perché alcuni alimenti erano scaduti. All’inizio noi siamo scesi in piazza contro di loro, poi hanno cominciato a spararci addosso con i fucili automatici e allora abbiamo smesso di partecipare alle manifestazioni.”
Anton e Cataryna sono arrivati a Zaporizhia cercando di evitare le strade principali, per evitare di essere fermati e rischiare di dover tornare indietro o peggio. “Altri che sono partiti prima di noi hanno dovuto sborsare almeno mille Grivne per passare, gli hanno controllato le auto, preso gioielli e tutto ciò che avevano di valore.”
Anche un’altra coppia è appena arrivata da Berdyansk con una bimba di quattro anni. Hanno paura a rivelare i loro nomi perché sono entrambi ricercati dai russi.
“Da noi i primi mezzi militari sono entrati in città il 26 o il 27 febbraio, non ricordo esattamente – spiega l’uomo – e noi siamo andati in strada con la bandiera ucraina. Abbiamo comprato della benzina, preparato alcune bottiglie molotov e gliele abbiamo lanciate contro. Dovevamo fare qualcosa per dire che non li volevamo, che avremmo resistito alla loro occupazione, ma questo ha attirato l’attenzione su di noi. Il mio nome e la mia foto sono stati pubblicati sui social in alcuni gruppi russi, che mi accusavano di essere un neonazista, e per due mesi ci siamo nascosti cercando di cambiare posto molto spesso. Saremmo andati via anche prima, ma la paura di essere fermati e riconosciuti era più forte. Poi quando la città è stata occupata completamente, i militari russi hanno cominciato a fermare la gente per strada, i civili, e a forzarli ad arruolarsi con loro, e a quel punto abbiamo capito che la nostra unica possibilità era tentare di andare via. Ormai a Berdyansk è rimasta solo una fabbrica di salumi aperta, e se sei ucraino non puoi più lavorare, se non al mercato. Le altre attività sono state chiuse.”
“Oggi arrivano qui un migliaio di persone al giorno – spiega Savitskyi Oleksii, responsabile del centro di prima accoglienza – fino a qualche settimana fa erano fra le quattro e le seimila quotidianamente. I corridoi umanitari veri e propri non sono stati tanti, oggi non ce ne sono più. Noi qui cerchiamo di affrontare le emergenze delle persone, abbiamo anche degli psicologi che lavorano con adulti e bambini. In tutto siamo oltre duecento volontari e copriamo le 24 ore facendo i turni. In più abbiamo altre sessanta persone che ci aiutano con la distribuzione dei pasti e la ricerca di un posto letto per gli sfollati che decidono di fermarsi per un po’ qui a Zaporizhia. Le persone maggiormente traumatizzate che riceviamo provengono tutte da Mariupol: tutte loro hanno trascorso almeno un mese sottoterra, e hanno rischiato moltissimo per scappare. L’altro giorno è arrivata una donna con una bambina di soli tre mesi, che ha camminato a piedi per tre giorni fino a Manhush, finché non ha incontrato altri sfollati che le hanno dato un passaggio.”
I volontari del centro registrano i dati di tutti i nuovi arrivati, per avere una stima degli sfollati ma soprattutto per poterli mettere in contatto con parenti o amici. Se ci sono persone che hanno bisogno di assistenza medica, all’interno del negozio di bricolage e articoli per la casa è stato anche allestito un ambulatorio, con uno spazio per le visite e un magazzino con i medicinali.
“Ci sono persone che vogliono raggiungere i familiari in altre località e qui li aiutiamo anche con il trasporto – spiega Iryna, volontaria che con l’aiuto di due amiche aggiorna il database – oltre a fare servizio psicologico e a fornire un minimo di assistenza anche sulle necessità pratiche come un paio di scarpe o un maglione pulito. Ci sono state mamme con bambini arrivati qui scalzi o con le pantofole, quando faceva ancora molto freddo. All’inizio scappavano solo da Mariupol, adesso anche dalla regione di Zaporizhia. E tanti riferiscono gli stessi orrori che poi abbiamo scoperto a Bucha e Irpin. Sono esseri umani che non hanno più un posto dove tornare, che quando arrivano hanno l’odore della polvere da sparo, del fumo, della terra umida che gli resta incollato addosso, e certo non hanno bisogno di spiegare da dove stanno arrivando.”