Appena fuori dal centro abitato di Brindisi si aprono distese di campi coltivati: al verde delle piante di pomodoro e di zucchine si alternano i terreni dove il grano è già stato mietuto. In mezzo, strade strette, deserte, se non per il passaggio di qualche trattore o di un bracciante in bicicletta, che rientra dopo la giornata di lavoro, quando le temperature sfiorano ancora i quaranta gradi. Sul ciglio di una di queste strade è morto Fantamadi Camara, un ragazzo di 27 anni originario del Mali, che nelle campagne del brindisino aveva cominciato a lavorare da appena tre giorni. Finita la sua giornata, aveva inforcato la bicicletta per tornare a casa, dove viveva con il fratello e altri braccianti. Su quello sterrato si era fermato e aveva appoggiato la bici a un muro, per sedersi e riprendere fiato. Lo hanno trovato accasciato per terra quando era troppo tardi, stroncato dal caldo e dalla fatica.
Per onorare la sua memoria e restituire il corpo alla famiglia, la comunità africana di Brindisi ha organizzato una raccolta fondi per il rimpatrio della salma, e sono giorni che il fratello Abdullahi riceve visite di condoglianze e attestati di solidarietà, e accoglie tutti nel cortile di casa, fra gli ulivi e i panni stesi. Anche lui è un bracciante, e condivide con altri lavoratori stagionali quattro mura alla periferia di Tuturano, comune in provincia di Brindisi, a pochi chilometri da dove è morto Fantamadi. Quella mattina sembra che avessero lavorato insieme, ma inizialmente non lo aveva detto per paura di ritorsioni, di perdere il posto, di creare problemi al datore di lavoro.
“In cinque giorni abbiamo raccolto oltre ventimila euro – spiega Drissa Kone, presidente della Comunità Africana di Brindisi – grazie ai tanti donatori che hanno contribuito dall’Italia e dall’estero. Ho ricontato la somma più volte, tanta era l’incredulità.” Drissa vive a Brindisi dal 2013, anche lui è passato attraverso lo sfruttamento nei campi e oggi è un mediatore culturale che cerca di non lasciare indietro nessuno. Il fratello di Fantamadi lo conosce da allora, quando si trovava ancora al dormitorio cittadino e la casa era una prospettiva lontana. “Purtroppo chi lavora nel settore agroalimentare in questa provincia molto spesso è un lavoratore sfruttato – dice – e ha paura di denunciare questa condizione. Quello che cerchiamo di fare come comunità è di offrire uno spazio di fiducia, in cui si lotti insieme per migliorare le condizioni di tutti.”
Proprio oggi alcuni rappresentanti della comunità hanno avuto un incontro con il sindacato di base Usb, per ragionare su nuovi progetti da portare avanti insieme, soprattutto nella formazione dei lavoratori sui loro diritti. “Da poco abbiamo organizzato un corso di educazione stradale in collaborazione con l’Aci – racconta Drissa – perché qui anche la situazione dei trasporti è critica. Quella di Fantamadi è la terza salma che manderemo a casa, prima di lui abbiamo fatto rimpatriare i corpi di altri due braccianti, uno morto per arresto cardiaco e l’altro investito da un’auto mentre tornava a casa in bicicletta, alcuni mesi fa. Si trovava sulla provinciale fra San Vito dei Normanni e Carovigno, e allora non c’era nessun tipo di segnaletica sul luogo dell’incidente. Abbiamo fatto una battaglia anche per questo, e ora i segnali ci sono, anche se non sono bastati a salvare la vita di un quattordicenne di Carovigno che è morto nello stesso modo, la settimana scorsa.”
Di fatto per molti braccianti la bicicletta è l’unica alternativa al passaggio in auto del caporale, che viene decurtato dalla paga, e dunque diventa un’altra voce di spesa su un guadagno giornaliero già misero. “Il problema del caporalato si fonda su alcuni elementi e il trasporto è uno dei punti di forza di chi sfrutta la manodopera, in particolare quella straniera – spiega Antonio Gagliardi, segretario Flai Cgil Puglia – anche se pure i lavoratori locali, che hanno l’unico vantaggio di non avere anche il problema abitativo, pagano chi li accompagna nei campi, spesso con bus e minivan in grado di raggiungere i singoli appezzamenti. Nel caso specifico di Fantamadi Camara, stiamo cercando di capire cosa sia realmente successo sul campo, perché pare che già dalla mattina avesse manifestato dei malori; ed è qui che entra in gioco il discorso contrattuale, perché è evidente che se i lavoratori sono irregolari, è difficile che si chiamino i soccorsi sul posto.”
Come rileva la Flai Cgil, non è insolito che in caso di richiesta d’aiuto per infortunio, quando si fa in tempo, il lavoratore risulti al suo primo giorno di impiego, come se fosse stato appena assunto. “Il fenomeno lo conosciamo bene – spiega Gagliardi – spesso i braccianti lavorano in nero ma in caso di problemi parte immediatamente l’ingaggio “regolare.”
Al suo primo giorno di lavoro era anche Giuseppina Spagnoletti, 39 anni, morta il 31 agosto del 2017 nelle campagne di Ginosa, in provincia di Taranto. Un malore, forse un problema al cuore e una grande fatica a temperature insostenibili. E prima di lei Paola Clemente, 49 anni, morta ad Andria il 13 luglio 2015 nei campi di uva da tavola, durante la stagione dell’acinellatura, un lavoro di ripulitura dei grappoli dagli acini imperfetti, fatto a mano sotto i teli di plastica che diventano caldi come saune, per il quale sono impiegate soprattutto donne, in particolare locali e romene. Pochi giorni dopo Paola, in quell’estate di 6 anni fa, era morto anche Mohammed, 47 anni, sudanese, mentre raccoglieva i pomodori nelle campagne fra Nardò (Lecce) e Avetrana (Taranto). Stroncato dal caldo e dalla fatica.
“Ci troviamo davanti a situazioni al limite della riduzione in schiavitù – continua Gagliardi – che mettono in grave pericolo i lavoratori, soprattutto perché gli è negata la possibilità di un primo soccorso garantito, oltre al resto. E la dinamica è omogenea su tutto il territorio nazionale.”
Il 15 giugno scorso, pochi giorni prima di Fantamadi, è morto un altro bracciante agricolo in provincia di Pavia: si trovava in un campo di riso e all’improvviso si è accasciato per terra, e anche se in questo caso pare che i soccorsi siano stati attivati in tempi brevi, non c’è stato nulla da fare. Aveva 57 anni ed era arrivato in Italia dalla Cina.
Contro il grande caldo di queste settimane, prima il sindaco di Brindisi e poi quello di Nardò, seguiti dalla Regione Puglia, hanno emesso un’ordinanza per vietare il lavoro nei campi fra mezzogiorno e le 16. Ma difficilmente dove non arrivano i soccorsi, l’acqua, e si lavora anche il doppio delle ore previste da un qualunque contratto di categoria, ci sarà modo di far rispettare il divieto. “Abbiamo già notizia di aziende che si stanno organizzando per anticipare l’orario di lavoro e garantirsi almeno otto ore – continua Antonio Gagliardi – quando i contratti agricoli ne prevedono sei e mezzo. E anche in questo caso i più vulnerabili sono sempre i lavoratori stranieri che pur di compensare la differenza salariale fra quello che dovrebbero percepire e quanto effettivamente sono pagati, sono disposti a fare anche dodici, quattordici ore al giorno. Lo Stato si è dotato di leggi importanti come la 199/16 per il contrasto al caporalato, ma se si dà seguito solo alla parte repressiva e non a quella propositiva, l’opera resta a metà: noi continuiamo a fare un plauso alle forze dell’ordine perché soprattutto nel periodo estivo fanno quello che possono e nel migliore dei modi, ma non basterebbe nemmeno l’esercito per controllare tutto.”
Anche la Comunità africana di Brindisi, nel suo territorio, collabora attivamente con le forze di polizia: “ogni volta che ci arriva notizia di qualche imprenditore che sfrutta, che non assume, noi lo segnaliamo – dice Drissa – ma è un percorso lungo, in primis per gli stessi braccianti che devono acquisire la consapevolezza di essere in una situazione di sfruttamento, e non di normalità.”
Due anni fa, e dunque prima della pandemia, la ong Medici con l’Africa Cuamm aveva stilato un rapporto raccogliendo i dati sull’assistenza prestata ai braccianti agricoli attraverso le sue postazioni mobili: quasi la metà dei lavoratori incontrati aveva problemi di salute a causa del troppo lavoro e delle precarie condizioni di vita. In quell’occasione i medici avevano anche denunciato la morte di 1500 persone nei sei anni precedenti, vittime non solo di malori durante la stagione, ma anche di ritorsioni, e incidenti in tutto il resto dell’anno, soprattutto fra coloro che vivono nei ghetti e tentano di scaldarsi accendendo un fuoco, e continuano a muoversi in bicicletta o con pulmini di fortuna.
Il Covid ha aggiunto ai fattori di vulnerabilità già presenti anche il rischio sanitario, come evidenziato da uno studio dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr e dell’Università di Sheffield, e pubblicato su Journal of Migration and Ethnic Studies. Il caso analizzato è quello dei lavoratori della Capitanata, nel nord della Puglia, che a partire dalla primavera del 2020 sono rientrati, come tutti i lavoratori agricoli, nelle categorie definite essenziali, impegnati cioè in un settore chiave dell’economia. Con la differenza che le condizioni di vita e di lavoro, fino a quel momento note e tollerate, sebbene in violazione dei diritti umani, sono diventate fattore di rischio di contagio, per l’impossibilità di mantenere il distanziamento e di avere dispositivi di protezione individuale realmente efficaci. Fra la popolazione impiegata nei campi, c’è stato anche un parziale ricambio fra i lavoratori dell’Est Europa che lo scorso anno non sono potuti rientrare in Italia e i braccianti locali, mentre fra le persone provenienti da paesi africani la presenza è rimasta pressoché stabile, per la scarsa possibilità di rientro nelle terre d’origine.
“A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia e a sei mesi dall’apertura della campagna vaccinale – spiega Yacouba Saganogo, delegato Usb di Pescara – rischiamo che la maggior parte dei lavoratori stranieri, soprattutto se in condizioni di irregolarità, non rientrino in nessun piano sanitario e dunque non possano ricevere il vaccino come tutti, con le conseguenze che possiamo immaginare. Anche questa deve essere una battaglia da portare avanti, insieme a quella per i gravissimi ritardi nell’esame delle domande di emersione presentate con la “sanatoria” 2020.”
Incopertina: la casa dove viveva Fantamadi Camara col fratello e altri braccianti. Foto di Ilaria Romano.