Tribunali invasi, intasati, al collasso a causa del “boom di ricorsi” dei richiedenti asilo: passa dalle aule di giustizia l’ultimo argomento anti-immigrazione. La cronica lentezza della giustizia italiana viene addossata ai richiedenti asilo, che “osano” impugnare i provvedimenti di diniego delle Commissioni territoriali, e tanto basta per gridare alla “nuova emergenza”. Così sono sufficienti poco più di 50 mila procedimenti per evocare una biblica “pioggia di ricorsi”, una “paralisi” della giustizia o un cortocircuito; e ancora, una “esplosione” che secondo questa versione dei fatti ridurrebbe i “giudici allo stremo” e costringerebbe ad adottare “modalità organizzative eccezionali”. Il linguaggio è quello delle cronache di guerra, l’intento quello di trovare un nemico.
Che le cause in materia di asilo siano aumentate negli ultimi anni è una diretta conseguenza dell’aumento degli arrivi in Italia, unito all’alto tasso di risposta negativa da parte delle Commissioni. Analizzando i dati del sistema giudiziario, però, si scopre che le cause in materia di immigrazione sono una piccolissima percentuale del totale in Italia, e che hanno una durata molto ridotta rispetto agli altri procedimenti civili.
1) È vera invasione?
A dare una dimensione del fenomeno è l’Analisi dei flussi realizzata dall’Ufficio statistico del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha distribuito un questionario agli uffici giudiziari italiani per monitorare i procedimenti in materia di protezione internazionale. In apertura, il documento precisa che solo agli inizi del 2016 è stato introdotto un codice univoco per la registrazione di questi processi nel Sicid (il sistema informatico per la gestione dei procedimenti civili); grazie a questa etichetta informatica è possibile contare e catalogare i provvedimenti delle Commissioni territoriali che vengono impugnati. Prima del 2016, invece, i procedimenti in materia venivano contrassegnati con codici diversi, cosa che rende più complesso avere una stima per gli anni scorsi.
Sulla base del codice identificativo dei procedimenti, il Csm conta 51.728 processi nel corso del 2016. Di questi, 46.131 riguardano procedimenti di primo grado, 5.597 ricorsi in appello. A fine anno si registrano 50.956 processi pendenti (di cui 45.214 in tribunale, 5.742 in grado di appello). È vera invasione?
Un primo elemento di confronto è dato dal numero di procedimenti civili pendenti a fine 2016: più di 3,8 milioni, secondo il monitoraggio effettuato dal ministero della Giustizia. Vuol dire che a fine anno i ricorsi pendenti in materia di protezione internazionale rappresentavano appena l’1,34% del totale.
Restringendo il campo ai soli tribunali, sempre sulla base delle statistiche del ministero della Giustizia, si scopre un altro dato interessante: al 30 giugno 2016, le cause pendenti erano 2,3 milioni: più di 50 volte il numero dei ricorsi in materia di asilo pendenti in primo grado alla fine dello stesso anno. In corte d’Appello, invece, al 30 giugno 2016 pendevano 314.713 procedimenti: quasi 55 volte il totale dei ricorsi in materia di protezione internazionale pendenti a fine anno.
2) Ridimensionare la paralisi
Difficile, quindi, che circa 50 mila processi mandino in crisi l’intero sistema giudiziario civile. Visto che, come detto in precedenza, si tratta dell’1,34% dei procedimenti totali, occorre verificare se il problema sia un altro: forse i ricorsi in tema di protezione internazionale richiedono tempi di decisione molto lunghi? In altre parole, è un problema di durata?
Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, per il 2016 la durata media dei procedimenti civili nei tribunali italiani è stata di 375 giorni: vuol dire che, in media, serve poco più di un anno per ottenere una sentenza di primo grado. Nello stesso anno, la durata media dei procedimenti in materia di protezione internazionale di primo grado è stata di 278 giorni. Difficile affermare, allora, che siano questi procedimenti a mandare in cortocircuito le aule di giustizia e intasare le cancellerie.
Ancora più eclatante il confronto con i procedimenti contenziosi di primo grado: qui la durata schizza a 992 giorni, più di due anni e mezzo per ottenere una decisione. Su questa lentezza incide soprattutto il contenzioso in materia commerciale. Sono questi i casi che fanno parlare di cronica lentezza della giustizia italiana, queste le “lungaggini” che fanno venire meno quella ragionevole durata che è un principio cardine del giusto processo. Sono questi procedimenti a collocare l’Italia in coda alle classifiche europee per la durata dei processi (vedi l’Eu Justice Scoreboard 2017).
Senza negare la complessità della materia commerciale, non si può nemmeno tacere che i ricorsi in materia di protezione internazionale rappresentano un esempio virtuoso, in termini di durata.
3) I giudici allo stremo
Ricapitolando: non c’è alcuna invasione delle aule di giustizia e i procedimenti in materia di protezione internazionale sono particolarmente veloci. Forse a questi procedimenti è stata assegnata una corsia preferenziale, a discapito di altri settori? È per questo che i giudici sono “allo stremo”?
Anche l’allarme sui giudici schiacciati dai ricorsi va ridimensionato. “La percezione dell’invasione dei ricorsi in materia è diffusa, ed è impossibile negare che ci sia stato un aumento negli anni”, commenta l’avvocato Livio Neri dell’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (ASGI). Tuttavia, i numeri confermano che non c’è alcun allarme dal punto di vista delle aule di giustizia, e che il problema semmai è la strutturale e generalizzata mancanza di risorse. A tal proposito, secondo l’Eu Justice Scoreboard 2017 l’Italia è agli ultimi posti in Europa quanto al rapporto tra magistrati e abitanti: ce ne sono solo 11 ogni 100mila residenti (dati del 2015).
Alla mancanza di risorse si aggiunge una certa disorganizzazione in materia: “La protezione internazionale è un settore che richiede grande professionalità, mezzi e risorse specifiche”, spiega l’avvocato Neri, “il dibattimento è completamente diverso da quello solito, perché l’indagine sulla credibilità dell’interessato richiede interrogatori complessi; i mezzi istruttori non sono le classiche consulenze tecniche, ma, spesso, rapporti di istituzioni internazionali. In questo senso”, continua Neri, “vedo di buon occhio l’istituzione di sezioni specializzate in materia di immigrazione. Ma, al momento, manca la professionalità necessaria: magari in un tribunale c’è un giudice che si dedica esclusivamente alla materia, e altri che lo fanno come secondo incarico, quasi come un intralcio alla materia di cui si occupano di solito”.
I dati del Csm confermano questa situazione: circa il 15% dei magistrati civili di primo grado si occupa dei ricorsi dei richiedenti asilo, ma di questi sono pochissimi quelli che conoscono in maniera esclusiva la protezione internazionale.
Altri magistrati, invece, si dividono tra asilo e altri settori, in virtù di un piano di applicazioni straordinarie predisposto dal Csm e disciplinato con Legge n. 132/2015, per fronteggiare l’aumento dei procedimenti in materia di protezione internazionale. Questo, però, comporta una serie di disagi: da un lato, spiega il Csm nelle linee guida in tema di protezione internazionale adottate a marzo, questa riassegnazione si è scontrata con la strutturale carenza di organico, e non è stata realizzata dove poteva aggravare troppo il lavoro delle sezioni cedenti (ne sono rimasti esclusi, per esempio, i tribunali di Catania, Caltagirone e Reggio Calabria). Dall’altro, continua il Csm, l’applicazione ha richiesto in alcuni casi periodi di “adattamento per acquisire competenze e specializzazione”.
Secondo l’avvocato Guido Savio, membro dell’Asgi, il risultato è che “il fai da te regna sovrano – chi è appassionato alla materia si informa e approfondisce il tema, chi non lo è continua a non saperne niente”. Uno dei problemi è che la protezione internazionale è considerata un settore meno nobile, vuoi per una questione di formazione, vuoi perché appare come una materia poco tecnica, sul confine tra giuridico e sociale. “Capita anche di dover vincere la resistenza di quanti non sono abituati ad anteporre le fonti del diritto internazionale al codice civile”, continua Savio. “L’ideale sarebbe, dopo un adeguato periodo di formazione, affiancare ai magistrati degli esperti di geopolitica, di costumi”.
Quanto alle Country of Origin Information (Coi), spesso dirimenti per decidere se riconoscere la protezione internazionale, “anche su questo occorre una formazione specifica, per rintracciare le fonti più attendibili da cui trarre le informazioni”. Su questo punto si registra l’impegno del Csm, che ha sottoscritto un protocollo con il ministero dell’Interno per informatizzare e mettere a disposizione dei magistrati le Coi utilizzate dalle Commissioni territoriali.
4) Eliminare l’appello per snellire la procedura: rischio o vantaggio?
I ricorsi in materia di protezione internazionale hanno tempi di definizione molto più celeri degli altri procedimenti civili, pur non avendo alcuna corsia preferenziale. Nonostante questo, con il Decreto legge n. 13/2017, convertito in legge, si stabilisce di “snellire” la procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, eliminando il grado d’appello. In pratica le sentenze rese dal tribunale (sulla base di un procedimento camerale, senza l’audizione del richiedente) saranno impugnabili solo in Cassazione.
Una modifica inutile e dannosa: inutile perché non sono questi procedimenti a rallentare la giustizia civile; nonostante si parli di invasione “ci sono settori molto più contenziosi, come le liti di vicinato e tutte le liti bagattellari”, spiega l’avvocato Neri. “ Posso essere d’accordo sul fatto che tre gradi di giudizio siano tanti, ma perché eliminarne uno in questo settore? Non ha senso, quando posso avere tre gradi di giudizio contro una multa!”. Tre gradi di giudizio per difendere diritti patrimoniali, solo due (senza audizione) per diritti inviolabili: non solo è irrazionale, ma anche rischioso, e sono gli stessi magistrati a schierarsi contro questa modifica.
Secondo Antonello Cosentino, presidente della sezione Cassazione dell’Associazione Nazionale Magistrati: “Nei procedimenti relativi alla richiesta di protezione internazionale, il nucleo critico fondamentale è costituito dall’accertamento del fatto, per il quale la direttiva 2013/32/Ue pone a carico del giudice uno specifico onere di collaborazione nella ricerca dei riscontri di quanto il ricorrente dichiara, in ragione della oggettiva ‘debolezza’ della parte richiedente. Ed è noto che l’accertamento del fatto è precluso nel giudizio di Cassazione, cosicché, eliminando l’appello, viene in sostanza rimossa ogni possibilità di correzione degli errori in cui il tribunale possa essere incorso − tanto più se abbia giudicato senza alcun diretto contatto con il richiedente − negli apprezzamenti di fatto”. Quindi, secondo Cosentino, “è fin troppo facile prevedere che la stragrande maggioranza dei provvedimenti di rigetto delle impugnative dei dinieghi delle Commissioni territoriali sarà impugnata (in Cassazione, nda) con la deduzione, più o meno appropriata, di vizi motivazionali. Saranno impugnazioni in molti casi destinate al rigetto (…) che andranno decise e graveranno sui ruoli della Corte di Cassazione”. Della stessa opinione il presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, secondo cui non si possono sopprimere garanzie in nome della semplificazione delle procedure.
Foto di copertina: Matteo Pieroni (CC BY-NC-ND 2.0).