All’origine l’asilo designava un luogo inviolabile, sicuro per definizione. Oggi indica una protezione che una persona può richiedere ad uno Stato sul suo territorio, laddove questa sia impossibilitata all’esercizio dei diritti fondamentali e delle libertà democratiche nello Stato di appartenenza. Riguarda quindi persone, in generale, costrette ad uno spostamento coatto.
Il diritto di asilo è garantito in primo luogo dall’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre 1948, ma anche da diversi atti dell’Unione europea e dall’art.10 della Costituzione italiana, senza tuttavia trovare attuazione in una vera e propria legge.
E’ la pratica dei richiedenti asilo consistente nel presentare domanda d’asilo in diversi Stati o nel presentare domanda in un determinato Stato dopo aver transitato in altri Paesi.
La legislazione dell’Unione Europea, attraverso il c.d. Regolamento di Dublino, al fine di scongiurare abusi del fenomeno stabilisce che le domande d’asilo debbano essere presentate e registrate nel Paese di primo d’arrivo dei migranti e che la decisione del primo Paese membro in cui è stata formalizzata la domanda sia la decisione finale in tutti gli altri Paesi dell’UE.
Il cittadino straniero appena arrivato in Italia, privo di documenti di identificazione, che intende chiedere la protezione internazionale, viene inviato nei Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) per l’identificazione e l’avvio delle procedure relative alla protezione internazionale. I richiedenti asilo dovrebbero restare fino a un massimo di 35 giorni in attesa che la loro richiesta di protezione sia esaminata dalla commissione territoriale competente. Un sistema caratterizzato da centri di grandi dimensioni, costi elevati, bassa qualità dei servizi erogati e isolamento dai centri urbani.
Ai sensi del decreto legislativo n. 142 del 2015, i CARA dovrebbero essere semplicemente convertiti in “centri governativi di prima accoglienza”, in sostanza sostituiti dai centri governativi per richiedenti asilo a livello regionale o interregionale, i cosiddetti Hub previsti dalla Roadmap italiana.
Sono immaginati al fine di sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza o nei servizi predisposti dagli enti locali, in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti. Ad oggi costituiscono la modalità ordinaria di accoglienza. Tali strutture sono individuate dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici, sentito l’ente locale nel cui territorio la struttura è situata. La permanenza dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture seconda accoglienza.
La Commissione territoriale per il Riconoscimento della Protezione internazionale è l’organo che ha il compito di valutare e decidere in merito alla domanda di protezione internazionale, previa audizione del richiedente. Attualmente ve ne sono 20 sul territorio nazionale.
Tale organismo è composto da un funzionario della Prefettura, che ha la carica di presidente; un funzionario della polizia di Stato; un rappresentante del comune o della provincia o della regione, e un rappresentante dell’UNHCR.
I colloqui personali tra richiedente protezione e Commissione si svolgono al cospetto di un solo membro della Commissione, ma la decisione è collegiale. La Commissione, può decidere di riconoscere lo status di rifugiato, concedere la protezione sussidiaria o umanitaria, oppure rigettare la domanda.
Sono strutture di detenzione amministrativa ove vengono reclusi i cittadini non comunitari sprovvisti sprovvisti di un regolare documento di soggiorno oppure già destinatari di un provvedimento di espulsione. Nei CPR, vengono sottoposti ad un regime di privazione della libertà personale individui che hanno violato una disposizione amministrativa, come quella del necessario possesso del permesso di soggiorno.
Furono istituiti nel 1998 dalla Legge Turco-Napolitano con il nome di C.P.T. (Centri di Permanenza Temporanea), poi denominati C.I.E. (Centri di Identificazione ed Espulsione) dalla Legge Bossi-Fini del 2002, ed infine rinominati C.P.R. (Centri di Permanenza per i Rimpatri) dalla Legge Minniti-Orlando del 2017.
Originariamente, la durata massima della detenzione amministrativa era fissato in 30 giorni (art. 12 Legge Turco-Napolitano); la Legge Bossi-Fini ha stabilito che, laddove si riscontrino serie difficoltà nelle procedure di accertamento dell’identità di uno straniero, il periodo di detenzione possa essere prorogato dal giudice per ulteriori 30 giorni; nel 2013 tale periodo è stato fissato fino ad un massimo di 90 giorni; il recente “Decreto Sicurezza”, con l’art. 2, ha aumentato da 90 a 180 giorni il periodo massimo di trattenimento all’interno dei C.P.R.
In Italia, attualmente, risultano operativi 6 Centri di Permanenza per il Rimpatrio: entro la fine del 2019 è attesa l’ultimazione delle procedure per l’attivazione dei centri di Gradisca d’Isonzo, Modena, Macomer, Oppido Mamertina e Montichiari.
In data 26 giugno 2013, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno approvato la direttiva 2013/32/UE – la c.d. nuova direttiva “procedure” – che ha come scopo quello di definire procedure comuni, e non più norme minime, allo scopo del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale.
In data 26 giugno 2013, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno approvato la direttiva 2013/33/UE – c.d. direttiva “accoglienza” – che disciplina la normativa europea relativa all’accoglienza dei richiedenti in attesa del riconoscimento dello status. Obiettivo dichiarato della direttiva è procedere con l’armonizzazione e il miglioramento delle condizioni di accoglienza, anche al fine di limitare i movimenti secondari dei richiedenti all’interno dell’UE.
La direttiva 2008/115/CE – detta anche “direttiva rimpatri” – disciplina le norme e le procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Il testo finale è stato adottato in prima lettura dal Parlamento europeo il 18 giugno 2008 e poi definitivamente approvato dal Consiglio il 16 dicembre dello stesso anno. Il fine era da un lato, quello di creare, a livello europeo, una politica di rimpatrio credibile coordinando le legislazioni degli Stati membri, dall’altro, di elaborare norme comuni affinché le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali.
La direttiva ha suscitato critiche diametralmente opposte. Il risultato finale è stato giudicato da alcuni come un passo avanti nella tutela dei diritti umani, poiché la direttiva stabilirebbe delle norme che costituiscono un minimo comune denominatore, e soprattutto perché l’attuazione di tali norme è soggetta al controllo della Commissione e della Corte di Giustizia. Da molti altri è stato invece fortemente criticato proprio relativamente al riferimento ai diritti umani che, seppur sancito in diversi punti della direttiva, non sempre è stato tradotto in norme chiare, precise e incondizionate, ed è stato invece spesso diluito in formule vaghe ed ambigue.
L’Agenda europea sulla migrazione propone la creazione di “hotspot”, letteralmente “punto caldo”, cioè centri sulle frontiere esterne dell’Unione in cui si procederà a registrare i dati personali dei cittadini stranieri appena sbarcati, fotografarli e raccoglierne le impronte digitali entro 48 ore dal loro arrivo, eventualmente prorogabili a 72 al massimo. Nel caso in cui si rifiutino di farsi identificare saranno trasferiti nei Cie al fine di essere identificati e rimpatriati.
Obiettivo fondamentale è l’identificazione e, quindi, la distinzione immediata tra quanti hanno diritto a fare domanda di protezione e chi invece va rimpatriato, i cosiddetti “migranti economici”, mettendo in discussione il principio fondamentale della necessaria valutazione delle motivazioni personali alla base di ogni singola domanda d’asilo.
Sono coinvolti sei porti: Pozzallo; Porto Empedocle; Trapani; Lampedusa, già attivo in via sperimentale; Augusta e Taranto. Anche la Grecia ha iniziato a sperimentare il metodo hotspot.
Previsti dalla nuova Roadmap, ossia la tabella di marcia del Ministero dell’Interno, nella fase di prima accoglienza e concepiti come grandi centri a livello regionale e/o interregionale dove fare un primo screening dei migranti che abbiano espresso la volontà di richiedere protezione. Per la realizzazione di queste nuove strutture verranno riconvertiti i centri per richiedenti asilo (CARA) e i centri di prima accoglienza (CDA). In sostanza, una sorta di centro di smistamento dove le persone dovrebbero restare per poco tempo, per realizzare le operazioni di identificazione e formalizzazione della domanda di protezione ed essere poi trasferiti nei centri di seconda accoglienza, vale a dire nelle strutture della rete SPRAR. Non essendo definito un termine massimo di permanenza, il rischio è quello che si ripresentino le stesse incertezze presenti nell’attuale sistema di accoglienza.
E’ il cittadino straniero sprovvisto del permesso di soggiorno o perché entrato irregolarmente nel territorio di uno Stato eludendo i controlli alla frontiera, o perché entrato in maniera regolare, cioè con visto turistico o di lavoro, ma trattenutosi oltre la scadenza del permesso.
I richiedenti asilo solitamente entrano in modo irregolare nel territorio di uno Stato, tuttavia dal momento della presentazione della richiesta di domanda di protezione internazionale sono regolarmente soggiornanti e non sono dunque definibili come migranti irregolari.
Da non confondere con protezione speciale. In concreto si tratta di permessi soggiorno rilasciati nelle ipotesi in cui, fino all’introduzione del “Decreto Sicurezza”, veniva concessa la protezione umanitaria: a) per protezione sociale delle vittime di delitti oggetto di violenza o grave sfruttamento le quali sono in pericolo per avere collaborato o essersi sottratte ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e partecipino ad un programma di assistenza ed integrazione sociale; b) per le vittime di violenza domestica che denuncino l’autore del reato; c) nei casi di sfruttamento lavorativo, per il lavoratore sfruttato che denunci il datore di lavoro.
Hanno durata di 6 mesi, sono prorogabili fino ad 1 anno (laddove perdurino le esigenze giudiziarie) e possono essere convertiti in altre tipologie di permessi di soggiorno.
È un permesso di soggiorno rilasciato dal Ministro dell’Interno, su proposta del prefetto competente, qualora il cittadino straniero abbia compiuto “atti di particolare valore civile”.
Viene concesso per aver salvato delle persone, per aver impedito o diminuito gli effetti di un grave disastro pubblico o privato, per aver ristabilito l’ordine pubblico, per aver arrestato o partecipato all’arresto di qualcuno, per scienza o per aver contribuito al progresso dell’umanità.
Ha durata di 2 anni, è rinnovabile alla scadenza e può essere convertito in permesso di lavoro o di studio.
È un permesso di soggiorno rilasciato allo straniero laddove il Paese d’origine versi in una comprovata situazione di “contingente ed eccezionale calamità naturale” tale da non consentire il rientro in condizioni di sicurezza.
Ha durata di 6 mesi, è valido solo in Italia, consente allo straniero di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in nessun’altra tipologia di permesso di soggiorno.
È un permesso di soggiorno rilasciato allo straniero che documenti adeguatamente di versare in “condizioni di salute di eccezionale gravità”. È, inoltre, necessario che sussista il pericolo che, in caso di rimpatrio, il cittadino straniero subisca un danno irreparabile alla salute.
Ha durata di 1 anno, è rinnovabile alla scadenza, non consente allo straniero di lavorare né risulta convertibile in altra tipologia di permesso di soggiorno.
Il principio di non respingimento è un principio fondamentale del diritto internazionale: infatti, ai sensi dell’art.33 della Convenzione di Ginevra a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può esso essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate.
Per effetto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il divieto di refoulement si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia stata riconosciuta rifugiata e/o dall’aver quest’ultima formalizzato o meno una domanda diretta ad ottenere tale riconoscimento.
Il refoulement consiste, in sostanza, in qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un paese non sicuro.
Prevista dalla nuova Agenda europea sull’immigrazione, la “relocation”, consiste nel trasferimento in Europa dei migranti richiedenti protezione arrivati in Italia, Grecia e Ungheria. Si tratta in sostanza di un meccanismo di selezione a cui possono aderire quelle persone in evidente necessità di protezione internazionale, appartenenti cioè a nazionalità il cui tasso di riconoscimento di protezione è pari o superiore al 75% sulla base dei dati Eurostat. In sostanza siriani, eritrei ed iracheni.
In pratica, dagli hotspot, le persone che vengono selezionate per essere ricollocate vengono prima trasferite negli hubs dedicati, dove si valuta la compatibilità dei profili delle persone con le varie disponibilità di accoglienza degli Stati membri.
Nell’ambito della normativa europea, per richiesta di protezione internazionale si intende la domanda che mira ad ottenere lo status di rifugiato o il riconoscimento di protezione sussidiaria. Fino alla decisione sulla richiesta di protezione internazionale, al richiedente viene rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo. Ai fini del riconoscimento di una protezione internazionale devono sussistere gravi violazioni dei diritti umani fondamentali della persona.
Da non confondere con i permessi di soggiorno per casi speciali, costituisce una forma di protezione che dà diritto al rilascio di un permesso di soggiorno laddove la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale non riconosca allo straniero lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, ma ritenga impossibile il suo allontanamento per il rischio di subire persecuzioni o torture.
Ha durata di 1 anno, consente allo straniero di lavorare ma non può essere convertita in permesso di lavoro.
È, inoltre, rinnovabile ma necessita di un nuovo vaglio della Commissione Territoriale, la quale deve verificare persistano le condizioni necessarie.
Una delle forme di protezione che può essere riconosciuta dalla Commissione territoriale competente a una persona richiedente asilo, laddove non possa dimostrare di essere a rischio di persecuzione personale, ma rischi di subire un grave danno (condanna a morte, tortura, minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza in situazioni di conflitto armato) per cui non può o non vuole avvalersi della protezione del suo paese. Il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria ha una durata di 5 anni, è rinnovabile previa verifica della permanenza dei motivi per cui è stato rilasciato e consente, tra le altre cose, l’accesso allo studio, lo svolgimento di un’attività lavorativa e l’iscrizione al servizio sanitario.
Costituiva una forma residuale di protezione prevista, prima del “Decreto Sicurezza”, dalla legislazione italiana per quanti non avevano diritto al riconoscimento dello status di rifugiato né della protezione sussidiaria ma non potevano essere allontanati dal territorio nazionale a causa di oggettive e gravi situazioni personali. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari veniva rilasciato dal questore a seguito di raccomandazione della Commissione Territoriale in caso di diniego, qualora ricorressero “seri motivi” di carattere umanitario: motivi di salute o di età, carestie e disastri ambientali o naturali, l’assenza di legami familiari nel Paese d’origine, l’essere vittima di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza o di insufficiente rispetto dei diritti umani.
Il permesso per motivi umanitari – per chi l’ha ottenuto prima delle recenti modifiche legislative – ha una durata di 2 anni, è rinnovabile, e può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro.
Il recente “Decreto Sicurezza”, convertito in L. 132/2018, ha abrogato tale forma di protezione sostituendola con il permesso di soggiorno per protezione speciale.
Tuttavia, con la sentenza n. the, la Corte di Cassazione ha stabilito che, per le domande di protezione internazionale presentate prima del 5 ottobre 2018, le Commissioni Territoriali debbano continuare a valutare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Il Regolamento Dublino III, entrato in vigore il 1 gennaio 2014, stabilisce, sulla base di alcuni criteri, quale Stato debba farsi carico della richiesta di asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide. Il principio generale alla base del regolamento è che qualsiasi domanda di asilo debba essere esaminata da un solo Stato membro. La competenza per l’esame di una domanda ricade in primo luogo sullo Stato in cui il richiedente asilo ha fatto il primo ingresso nell’Unione europea, salvo eccezioni.
Il regolamento prevede un sistema informatico che gestisce una banca dati europea per il confronto delle impronte digitali dei richiedenti asilo e delle persone che hanno attraversato in maniera irregolare una frontiera esterna dell’Unione. Funzionale all’applicazione del regolamento di Dublino III, in quanto permette di determinare quale Paese è competente ad esaminare una richiesta d’asilo. In sostanza, i paesi dell’UE, attraverso il raffronto delle impronte raccolte nel sistema, possono verificare se un cittadino straniero, ha già presentato una domanda di asilo in un altro paese dell’UE o se è entrato irregolarmente nel territorio dell’Unione dalla frontiera esterna di un altro Stato membro.
Introdotto dall’Agenda europea sull’immigrazione, il Programma di reinsediamento europeo prevede il trasferimento di persone in evidente bisogno di protezione internazionale da Paesi terzi – come la Turchia, il Libano, la Giordania – verso Stati membri dell’Unione. Il programma prevede il reinsediamento di 20.000 persone in due anni in tutti gli Stati membri secondo criteri di distribuzione come PIL, popolazione, tasso di disoccupazione e numero passato di richiedenti asilo e di rifugiati reinsediati. Il programma si basa comunque su una partecipazione volontaria da parte degli Stati membri.
Il richiedente asilo è una persona che, fuori dal Paese di origine, presenta, in un altro Stato, domanda di protezione internazionale o comunque ha manifestato la volontà di chiedere asilo. Un richiedente rimane tale fino alla decisione delle autorità competenti sul riconoscimento dello status di rifugiato o di altra forma di protezione.
Il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (SIPROIMI, ex SPRAR) è costituito dalla rete degli enti locali che, per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata, utilizzano il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo.
L’accesso al SIPROIMI e ai relativi progetti diretti ad offrire assistenza, servizi di inclusione sociale e favorire processi di integrazione è riservato: a) ai titolari di protezione internazionale; b) ai minori stranieri non accompagnati, anche non richiedenti asilo; c) agli stranieri titolari di permesso di soggiorno per casi speciali; d) agli stranieri che hanno ottenuto un permesso di soggiorno per cure mediche; e) ai beneficiari di protezione umanitaria, fino alla scadenza del progetto d’accoglienza in cui sono stati inseriti.
Si tratta di una modifica introdotta dal recente “Decreto Sicurezza” che, rimodulando lo SPRAR, esclude che del SIPROIMI possano beneficiare anche i richiedenti asilo nell’attesa che venga decisa la propria domanda di protezione internazionale.
Il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), la cosiddetta “seconda accoglienza”, è istituito dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale e gestito dall’Anci (l’associazione dei Comuni italiani).
Il richiedente, che lo chiedeva, una volta formalizzata la richiesta di asilo e dimostrando di non disporre di mezzi di sussistenza poteva essere inserito nel sistema di accoglienza in centri di secondo livello. Oltre al vitto e alloggio, erano erogati servizi come la mediazione linguistica e culturale, corsi di lingua italiana, percorsi di formazione e professionali, orientamento e assistenza legale al fine di favorire l’integrazione. L’accoglienza era prevista per sei mesi, rinnovabili per altri sei ed era comunque garantita fino alla decisione della Commissione territoriale oppure, in caso di ricorso, fino all’esito dell’istanza sospensiva e/o alla definizione del procedimento di primo grado.
Lo Sprar è stato abolito dal decreto 113/2018 (comunemente noto come Decreto Salvini) convertito in L. 132/2018 e sostituito dal Siproimi, mutando i destinatari del sistema di accoglienza da richiedenti asilo a titolari di protezione internazionale.
Ai sensi della Convenzione di Ginevra è rifugiato colui che essendo perseguitato o temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad uno specifico gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche ha abbandonato il proprio paese non potendo o non volendo avvalersi della protezione di tale paese.
La persona alla quale viene riconosciuto lo status ha diritto ad un permesso di soggiorno della durata di 5 anni, rinnovabile.
L’Unità di Dublino opera nel Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno e nell’ambito della Direzione Centrale dei Servizi Civili per l’Immigrazione e l’Asilo.
La struttura è preposta a determinare lo Stato membro UE competente all’esame della domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo (o apolide), nonché a svolgere tutte le relative attività strumentali di supporto (interrogazioni parlamentari, modifiche normative, partecipazioni a riunioni, anche in sede UE) e quelle relative al contenzioso.
I cittadini di Paesi terzi devono essere in possesso di un visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne dell’Unione. Per visto turistico si intende un’autorizzazione rilasciata o decisione adottata da uno Stato membro che permette l’ingresso, per breve durata, nei Paesi dell’area Schengen al cittadino straniero che intenda soggiornare per motivi turistici e per un massimo di tre mesi su un arco temporale di 6 mesi.
Il Regolamento (CE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 20093, istituisce un codice comunitario dei visti (codice dei visti), stabilendo le procedure e le condizioni per il rilascio del visto di transito o per soggiorni di breve durata, non più di tre mesi, nel territorio degli Stati membri e degli Stati associati che applicano interamente l’acquis di Schengen.
Il visto UE diventa unico venendo meno quindi la precedente distinzione tra visto di transito e visto di soggiorno.
Lo Stato membro competente ad esaminare una domanda di visto è lo Stato membro meta unica o principale del soggiorno, ovvero lo Stato membro di ingresso nell’Unione, nel caso in cui non sia possibile stabilire la destinazione principale.