La migrazione è tornata in prima pagina. Proprio quando pensavamo di aver già visto tutto, le scene di bambini trattenuti in gabbia al confine tra Stati Uniti e Messico hanno fatto irruzione sui nostri schermi, mentre le parole incendiarie di Matteo Salvini dall’Italia hanno scatenato violente reazioni in tutta Europa.
Sarebbe facile disperarsi. Invece è arrivato il momento di darsi da fare, non solo per evidenziare i limiti degli approcci attuali, ma per identificare alternative politicamente praticabili per meglio gestire il fenomena migratorio.
Queste alternative non possono dipendere da soluzioni “ideali” oppure da aspettative di un’azione congiunta e di valori condivisi; bisogna riconoscere che negli ultimi anni questi valori sono stati erosi, e trovare strumenti pratici per gestire la migrazione in modo diverso.
Credo che la chiave stia nell’imparare alcune dure lezioni su che cosa ha funzionato – e cosa no – nel tentativo di offrire approcci alternativi rispetto alla retorica e all’azione nazionalista e anti-immigrazione ormai dominante in Europa. Per farlo, basta guardare agli eventi delle ultime due settimane in Europa e negli Stati Uniti.
Bisogna abbandonare l’idea di un accordo pan-europeo e concentrarsi su coalizioni più limitate o su accordi fra stati – e fra città e imprese.
La prima lezione riguarda la cooperazione tra stati (e non solo), e ci arriva dall’Europa continentale, dove il neo Ministro degli interni Matteo Salvini ha annunciato che i porti italiani non avrebbero più autorizzato l’attracco alle navi dei migranti.
È evidente che abbandonare le persone in mare è disumano; tuttavia le azioni di Salvini rispecchiano quelle di quasi ogni altro leader dell’Unione europea a partire dalla cosiddetta crisi del 2015: difendere il proprio confine, piuttosto che agire in maniera collettiva.
È importante riconoscere che tale operato dei leader europei è per lo più condiviso dagli elettori in diversi paesi, che giustamente credono che la migrazione verso l’Europa sia in uno stato di caos. Ad oggi, solo i politici nazionalisti di estrema destra sembrano avere proposte concrete per rassicurare gli elettori di avere un piano per meglio gestire le migrazioni.
La saga dell’Aquarius ha dimostrato due cose: che nessun paese può affrontare la migrazione da solo, un porto alla volta, e che ad oggi non si intravede la possibilità di un approccio collettivo a livello europeo.
Qual è l’alternativa?
Con il numero di sbarchi al minimo storico, ma allo stesso tempo con il più alto tasso di mortalità degli ultimi anni, la realtà della migrazione dall’Africa è più gestibile – e più urgente – che mai. Da luglio 2017 a giugno 2018, circa 40 mila persone sono arrivate in Italia, a fronte di oltre 100 mila nello stesso periodo nel 2016-2017 e di oltre 150 mila l’anno precedente.
Per quanto auspicabile, la realtà è che questi numeri non richiedono un accordo su un approccio comune fra tutti i 28 Stati membri dell’Unione europea. Come ha fatto notare Angela Merkel dopo il mini vertice di Bruxelles, è arrivato il momento di creare nuovi e diversi accordi bilaterali o trilaterali o coalizioni sulle questioni migratorie tra paesi cha hanno reali interessi politici e economici in comune.
Per esempio, abbiamo visto farsi avanti la Spagna per gestire gli sbarchi – un compito che fino a poco tempo fa era lasciato esclusivamente all’Italia e alla Grecia. Macron e Merkel dovranno trovare il modo di lavorare insieme – e velocemente – per evitare una potenziale rapida crisi politica interna con una reazione a catena attraverso l’Unione. I due leader dovranno prestare attenzione alle richieste di stati-chiave come l’Italia, poiché la tattica di chiudere i loro confini meridionali nella speranza che il problema svanisca come hanno fatto negli ultimi anni ha solo contribuito ad alimentare sentimenti anti-europei e nazionalisti.
L’obiettivo principale di queste coalizioni dovrebbe essere quello di trovare un accordo per collaborare su misure pragmatiche per meglio prevedere e gestire i flussi con modalità che possano finalmente rassicurare gli elettori che un piano alternativo esiste.
La creazione di centri di asilo in Africa e gli aiuti finanziari ai paesi di origine e transito possono funzionare solo se fondati sulla collaborazione con questi paesi – realizzabile attraverso iniziative concrete per facilitare tipologie di migrazione legale di reciproco beneficio, per esempio visti per lavoro a termine o stagionale, e i visti d’affari e facilitazioni per l’impresa o per motivi di studio.
Con questi strumenti in alcuni paesi è possibile far fronte alle reali esigenze del mercato del lavoro, al deficit di competenze e alla diminuzione della popolazione in età lavorativa: tutti problemi che possono essere mitigate da lavoratori migranti che pagano le tasse e contribuiscono all’economia.
Per cominciare è necessario superare l’attuale stallo e identificare delle piattaforme politiche serie per la cooperazione, al di là dei limiti o della mancata applicazione della legislazione e delle norme europee.
Questi nuovi accordi e coalizioni non devono essere la prerogativa esclusiva degli Stati-nazione. Esistono, per esempio, coalizioni influenti fra grandi città nel contesto del discorso sui cambiamenti climatici, dove alcuni sindaci hanno unito le forze a sostegno della riforma. Abbiamo visto alcuni sindaci intraprendere azioni decisive in materia di migrazione sia in Europa sia negli Stati Uniti, e allora perché non pensare a una analoga alleanza per affrontare la migrazione globale fra città come New York, Parigi, Palermo, Londra, Città del Messico, Rio de Janeiro e Nairobi?
Il settore privato è sorprendentemente assente nel dibattito sulla migrazione, anche se politiche migratorie restrittive possono colpire le imprese molto negativamente. Invece di aspettare che siano i singoli leader di impresa a esprimersi su una questione politica così delicata, è possibile immaginare coalizioni di settore come alternativa. Iniziative di questo genere esistono per esempio nell’industria tecnologica negli Stati Uniti; non c’è motivo per cui il settore edile oppure quello sanitario non potrebbero fare lo stesso.
Quando i paesi si rendono conto di aver bisogno di (alcuni) migranti, una riforma graduale è possibile.
La seconda lezione riguarda la possibilità di riforme graduali, e arriva dalla Gran Bretagna della Brexit: a causa della grave carenza di personale sanitario, il ministro dell’Interno Sajid Javid ha eliminato il tetto massimo all’immigrazione qualificata per permettere a medici e infermieri stranieri di essere impiegati dal servizio sanitario nazionale (NHS). Questa decisione permetterà un numero di migranti qualificati in altri settori, come informatica e ingegneria.
È evidente che questa riforma non indica affatto la fine della politica dell’ambiente ostile, oppure un cambiamento radicale nell’approccio del Regno Unito all’immigrazione – entrambe cose improbabili finché Theresa May resta al potere.
Tuttavia, questi cambiamenti segnalano un importante cambio di direzione basato su un semplice principio pragmatico: che il Regno Unito ha bisogno di alcuni lavoratori migranti in alcuni settori, e che è essenziale che le regole sull’immigrazione rimangano flessibili e si adattino a queste esigenze – nell’interesse nazionale.
Si tratta di un approccio sicuramente parziale e applicabile soltanto a una piccola minoranza di lavoratori qualificati. Tuttavia,sarebbe facile estenderlo ad altre categorie di cui il Regno Unito ha realmente bisogno, come gli studenti universitari. Col tempo, la conseguenza logica di questo approccio sarebbe quella di eliminare o modificare l’insensata quota immigrati, sulla quale nessun politico è in grado di mantenere l’impegno.
È facile indignarsi, ma lo sdegno dura poco – le soluzioni pratiche per gestire la migrazione richiedono un impegno a lungo termine.
L’ultima lezione riguarda l’esigenza di un approccio costante e a lungo termine per gestire la realtà della mobilità umana, e ci arriva dal confine tra gli Stati Uniti e il Messico, dove Donald Trump è stato costretto a fare un raro dietrofront sulla riunificazione familiare.
Certo, lo sdegno e le proteste hanno fatto la loro parte; è stato tuttavia l’opportunismo politico a portare il presidente statunitense a cambiare strategia su questo aspetto delle sue politiche migratorie, che rimangono sostanzialmente invariate, concentrate sul rafforzamento dei controlli alle frontiere e sulla deterrenza a qualunque prezzo, anche quello del diritto internazionale e della decenza umana.
E vale la pena ricordare che quella di Trump è la versione estrema della politica di separazione familiare, che affonda le sue radici nella politica elaborata durante l’amministrazione Obama, e che i governi europei – non ultimo il Regno Unito – adottano approcci sempre più duri sulla protezione dei minori.
Qui la lezione principale è quella di evitare che lo sdegno e le emozioni ci distraggano dalla necessità di affrontare le conseguenze della deterrenza nel lungo termine. Un approccio diverso necessita di due passi.
Il primo è quello di diffondere fatti e analisi sui limiti e i costi delle politiche di deterrenza. Avvalendosi di decenni di dati, Michael Clemens e i suoi colleghi hanno dimostrato che anni di politiche restrittive lungo il confine tra gli Stati Uniti e Messico sono servite a ridurre la migrazione irregolare soltanto nella compresenza di un aumento di vie e alternative per la migrazione legale. Questo significa che la politica statunitense della “tolleranza zero” non è un deterrente efficace alla migrazione irregolare. La ricerca di ODI ha dimostrato che le informazioni sulle misure di deterrenza e i messaggi anti-immigrazione pesano poco sulle decisioni dei migranti, che sono dettate da preoccupazioni più urgenti – come la sicurezza, l’accesso al lavoro e le aspirazioni a un futuro migliore.
Il secondo passo è quello di giocare a lungo termine. Gli ambiziosi politici di domani dovranno riconoscere che la scelta politicamente intelligente è quella di trovare modi pratici per gestire la realtà della migrazione piuttosto che sperare di ridurla o eliminarla, per il semplice fatto che difficilmente questo riuscirà. Lo scandalo Windrush nel Regno Unito ci ha insegnato che l’opinione pubblica non ha percezioni solo negative dei migranti e ha a cuore l’equità, il buon senso e un approccio umano.
È finito il tempo del solo autocompiacimento o sdegno. Proposte parziali ma efficaci nella gestione della mobilità umana esistono e possono aiutarci a superare lo stallo politico in cui ci troviamo, e cominciare finalmente a cambiare le cose.
*L’articolo originale è stato pubblicato sul sito dell’Overseas Development Institute e su Refugees Deeply