Dall’invasione degli albanesi a quella dei rumeni
C’era una volta l’invasione degli albanesi. Era il 1991. A Bari arrivarono almeno ventimila uomini, donne e bambini della vicinissima Albania. La nave che li trasportò in massa era la Vlora. A Bari, la spontaneità popolare organizzò una catena di solidarietà umana. C’era ancora la Democrazia Cristiana che esprimeva l’allora sindaco Enrico Dalfino, professore di diritto amministrativo all’Università della città. Dalfino esprimeva il volto buono e solidale della città. Voleva che la protezione civile si occupasse di quelle vite sospese e provvisoriamente recluse presso lo Stadio delle Vittorie. Il Governo invece li voleva ricacciare tutti indietro mettendo in atto la prima deportazione collettiva illegittima della storia dell’immigrazione in Italia. Il volto truce era rappresentato dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che testualmente affermò pubblicamente a proposito del sindaco Enrico Dalfino: «È un cretino, il ministro dell’Interno lo rimuova». Per anni si è parlato dell’emergenza criminale albanese che avrebbe messo a rischio la sicurezza di un Paese altrimenti lindo, pulito, immacolato, onesto. Eppure negli anni ottanta in media ogni donna era scippata almeno una dozzina di volta l’anno da ragazzi inequivocabilmente baresi. Mentre sulle coste pugliesi approdava la Vlora c’erano le stragi di mafia e scoppiava lo scandalo Tangentopoli. C’erano ben altre questioni criminali da risolvere.
Caduta la prima Repubblica, cambiarono i flussi di movimento dei migranti. Negli anni successivi divenne significativa la presenza dei rumeni nel nostro territorio. Ladri, rapinatori, assassini, stupratori: così erano stigmatizzati. Quasi tutti in parlamento si affannarono a chiedere misure anti-rumeni all’indomani del brutale assassinio di Giovanna Reggiani nel 2007. Fu addirittura varato un decreto legge contenente misure per l’espulsione dei cittadini comunitari, contro ogni ragionevolezza e anche contro le stesse norme Ue. Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei Valori, partito allora dell’area di Governo, affermò che l’Italia «non doveva diventare il vespasiano d’Europa». Da allora sono trascorsi meno di dieci anni e a destra e a sinistra non viene più evocata la questione criminale rumena. Altre sono diventate le priorità etniche e criminali per i cultori e i diffusori della paura.
Ogni ondata migratoria inevitabilmente, a maggior ragione se non governata con razionalità, porta con sé il rischio di ingrossare le fila di chi vive di espedienti, di reati, di illegalità varie. Tanto più se le persone sono costrette a essere illegali. Nei primi anni di ogni ondata di migrazione nazionale, in assenza di strategie di integrazione, cresce la componente di quella nazione nelle galere. Una sovra-rappresentazione che, grazie al circolo vizioso prodotto dall’impatto mediatico, favorisce una cultura dell’etichettamento criminale. Non era chiaro sul finire del decennio scorso se la cittadinanza rumena fosse una nazionalità o una circostanza aggravante, come scrisse Ellekappa in una bellissima vignetta di quegli anni. Solo con il passare del tempo, ovvero quando una comunità straniera diventa stanziale, si consolida, si integra, allora saranno meglio interpretabili i dati statistici criminali e penitenziari. Come tutti gli studiosi di politica criminale possono confermare, le presenze carcerarie sono esito sì dei delitti commessi, sì delle norme in vigore ma anche della cultura empirica degli operatori della giustizia a loro volta fortemente condizionata dal messaggio politico e mediatico di massa.
Per vari anni, a partire dal 2009, i rumeni sono stati tra gli stranieri i più rappresentati numericamente nelle carceri italiane. Oggi non è più così. Oggi c’è il calo delle loro presenze negli istituti penitenziari.
Alla data del 30 giugno 2016 i detenuti stranieri erano 18.166 rappresentativi del 33,5% della popolazione reclusa che era complessivamente pari a 54.072 unità. L’anno precedente gli stranieri ristretti erano 17.207 ovvero il 32,6% del totale dei detenuti che a sua volta era di 52.754 unità. I detenuti in totale sono cresciuti in un anno di 1.318 unità. I detenuti stranieri in più rispetto al 30 giugno del 2015 sono pari a 959 unità così rappresentando il 72,7% della crescita totale dei detenuti avvenuta nell’ultimo anno. Gli stranieri sono cresciuti circa del triplo rispetto agli autoctoni. La percentuale massima di detenuti stranieri è stata del 37% negli anni 2009 e 2010.
Non è facile capire a cosa è attribuibile la crescita della popolazione detenuta straniera, posto che non ci sono state modifiche normative né sono mutati i tassi di criminalità autoctona o forestiera nel territorio italiano. Sicuramente un peso è dato dal clima generale di diffidenza, anche istituzionale, nei confronti degli stranieri che si riflette nell’azione di polizia e nelle procedure di fermo e arresto.
Per politiche di prevenzione criminale basate sui dati e non sui pregiudizi
Uno sguardo in seno alla componente straniera aiuta a comprendere come vi sia un nesso tra la percezione pubblica di insicurezza e la repressione penale e di Polizia, ovvero quanto la prima condizioni la seconda anche aldilà della concretezza dei fatti di cronaca e dei reati effettivamente connessi.
Dunque risulta esemplare la situazione dei rumeni. I detenuti di nazionalità rumena sono in forte calo percentuale rispetto ad alcuni anni fa. Oggi lo sguardo preoccupato dell’opinione pubblica è rivolto altrove. Accade dunque che mentre crescono in numero percentuale e assoluto i detenuti italiani e di altre nazionalità, i rumeni in controtendenza diminuiscono. Si respira un minore pregiudizio nei confronti dei rumeni e conseguentemente i loro detenuti perdono il primato della rappresentatività straniera in carcere a favore della componente marocchina.
I detenuti rumeni erano 4.125 alla fine del 2013 ma quello è un dato che poco rileva in quanto c’è stato da allora un calo generale della popolazione detenuta a seguito delle riforme volute dal governo italiano per replicare efficacemente alla condanna della Corte europea nel caso Torreggiani dell’8 gennaio 2013. Va ricordato che la sentenza fu determinata dalle condizioni degradanti di vita presenti nelle galere italiane. La comparazione con il 2009 è invece rilevantissima. Si era nel 2009 all’apice della cosiddetta emergenza criminale rumena. I detenuti rumeni erano 2.966. In sette anni sono diminuiti, nonostante sia aumentata la popolazione libera rumena. Dunque l’allarme era ingiustificato, oltre che produttore di reazioni xenofobe.
Uno sguardo dentro la composizione penale della popolazione detenuta rumena ci spiega, alla luce dei reati per i quali sono incarcerati, quale è il tasso di pericolosità criminale.
Sono in tutto 35 i detenuti rumeni dentro per associazione a delinquere di stampo mafioso. In tutto i detenuti in Italia per questo reato sono ben 7.015. i detenuti rumeni sono il 5,2% del totale della popolazione detenuta ristretta nelle 193 prigioni italiane ma sono solo lo 0,49% di quelli accusati o condannati per appartenenza a criminalità organizzata. Uguale è la percentuale dei rumeni rispetto al totale delle persone dentro per avere violato la legge sulle droghe. Infatti 91 – su un totale di 18.491 – sono i rumeni in carcere per avere violato la legge sulle droghe. Si può sostenere dunque che i rumeni non trafficano in stupefacenti.
Nonostante i tanti stereotipi giornalistici e politici sui rumeni che rapinano e stuprano non è poi così ampia la rappresentazione rumena per i reati contro il patrimonio (i rumeni per questi reati costituiscono il 6,2% del totale dei detenuti ovvero poco più della loro rappresentatività globale che è del 5,2%) e per i reati contro la persona (sono il 6,5% del totale). Invece i rumeni sono tra i massimi responsabili delle presenze in carcere per sfruttamento della prostituzione (costituiscono infatti il 31% del totale della popolazione detenuta per questo tipo di reato). Ogni azione di prevenzione criminale dovrebbe partire dai dati e non dai pregiudizi.