In Algeria, Marocco e Tunisia un migrante che prende il mare per raggiungere l’Europa si chiama “harrag”. Gli “harraga” sono coloro che bruciano i propri documenti (la radice araba da cui deriva il nome significa proprio “bruciare”) e fuggono dalla miseria ma anche – soprattutto in Algeria – persone disperate, soprattutto giovani, che decidono di darsi un’ultima chance provando una traversata durante la quale si trova spesso la morte.
Dire “harrag” equivale, in questo senso, a dire “suicida”. La morte ritorna nell’idea del viaggio per mare verso l’Europa compiuto dai profughi siriani. Chiamano quella partenza un “rihlat al-mawt”, viaggio della morte, per due ragioni. La prima, simile a quella suddetta, perché il viaggio è pericoloso, si sa che si parte ma non si sa se si arriva. La seconda è perché, contemporaneamente, i siriani “fuggono dalla morte”, cioè da un paese in cui restare potrebbe rivelarsi un suicidio. In questo secondo senso compiono lo stesso viaggio quei siriani che, essendosi parzialmente chiuse le tratte via mare, tentano di arrivare in Europa per la via balcanica.
La vittima principale della guerra in Siria è la popolazione civile. Escludendo le aree controllate dal regime di Damasco, che non vengono toccate dai bombardamenti non avendo gli oppositori un’aviazione, tutta la Siria viene quotidianamente bombardata. Ai bombardamenti del regime, effettuati quasi invariabilmente con i famigerati “barili bomba” su aree densamente popolate da civili, si sono aggiunti a partire dalla fine 2014 quelli degli americani e della coalizione di cui sono capofila. Questi, che non mancano di provocare vittime fra la popolazione, avvengono in aree controllate oggi dal gruppo Stato Islamico.
Recentemente alla schiera degli attori che sganciano bombe sul paese si sono aggiunti i turchi (specialmente in aree frequentate dal PKK turco e dal suo “cugino” siriano, PYD, ma anche contro lo stato Islamico), i francesi (contro lo Stato Islamico) e russi (contro i ribelli anti-Asad e, in proporzione molto minore, contro lo Stato Islamico). Il fatto ha determinato la distruzione quasi completa di diverse città – la “città martire” in questo senso è Homs – lo sfollamento di almeno una metà dell’intera popolazione, e un’ondata di profughi.
L’ondata ha investito per prima cosa i paesi limitrofi – Libano, Turchia, Giordania – e in secondo luogo diversi paesi arabi: l’Egitto soprattutto ma anche, in misura minore, i paesi del Maghreb. Questi ultimi sono stati considerati da molti fuggiaschi come un trampolino di lancio verso l’Europa anche in ragione delle condizioni di marginalità in cui si trovano a vivere in quei paesi. Tutta la Siria, eccettuate in buona misura le aree non bombardate, è in fuga. Ma c’è da capire dove questa fuga termina e perché.
I più sfortunati, intrappolati nei teatri di scontro o impossibilitati a uscire dal paese per mancanza di vie di uscita, lasciano le loro case distrutte ma rimangono nel paese, in condizioni di estremo pericolo e difficoltà: non possono far altro che sperare in una conclusione del conflitto. Nei paesi confinanti arrivano e rimangono persone che ne attendono la fine per tornare e ricostruire. Sono la grande maggioranza, spesso si tratta di individui e famiglie dalle scarse risorse economiche e culturali che non immaginano un futuro in Europa o in qualche altro paese occidentale, quindi si fermano.
Ci sono poi le persone che riescono a raccogliere il denaro necessario per affrontare il viaggio verso l’Europa, affidandosi a organizzazioni criminali che gestiscono le tratte di mare e di terra. Il viaggio, seppure pericoloso, ha costi altissimi e chi non ha appoggi nei paesi di arrivo o comunque in Europa, spesso preferisce non affrontarlo. L’ampiezza, la provenienza e la direzione del flusso di profughi siriani in Europa, va da sé, è determinata dal perverso “volano” che si crea alla congiuntura di due fattori: la struttura e l’organizzazione delle reti del traffico e la politica di stati ospitanti (ad esempio la Turchia o l’Egitto) o d’arrivo (ad esempio la Svezia o la Germania).
Il recente intervento russo in Siria probabilmente non sposterà di molto la portata dei flussi di profughi. Parallelamente, gli sviluppi complessivi della situazione in Siria, non lasciano prevedere una soluzione a breve termine, dunque non fanno ben sperare per un futuro vicino in profughi ammassati alle frontiere provano a tornare nel paese. Più determinante per il destino di chi fugge è la politica di quei paesi confinanti che ora li ospitano.
In questo senso l’accordo raggiunto dall’Ue con la Turchia, che prevede la costruzione di sei nuovi campi con una ricettività di due milioni di persone, avrà certamente un impatto sebbene non sia chiaro quali politiche la Turchia metterà in atto per limitare il volume di accessi in Europa (recentemente Human Rights Watch ha denunciato respingimenti di siriani da parte delle forze di sicurezza turche). L’organizzazione delle reti dei trafficanti in risposta a queste politiche di certo non si farà attendere. L’andamento del flusso dipenderà anche dalla maggiore/minore apertura dei diversi paesi europei. Ma se le condizioni in Siria e nei paesi limitrofi continueranno a generare e favorire questa diaspora, non sarà la chiusura delle frontiere a fermarli.
A questo quadro va ad aggiungersi il clima di allarme e paura determinatosi in Europa all’indomani degli attentati terroristici del 13 novembre a Parigi. Il clamore mediatico, largamente ingiustificato, attorno al rischio che proprio fra i profughi si nascondessero gli attentatori, ha fatto passare in secondo piano un’emergenza umanitaria che non cessa di esser tale.