A giugno di quest’anno ho partecipato all’ID2020, il primo vertice delle Nazioni Unite sulla legalizzazione dell’identità digitale che si è tenuto a New York. Esponenti di governo, ONG e aziende di tecnologia hanno discusso di come realizzare una parte dell’obiettivo di sviluppo sostenibile (SDG, Sustainable Development Goal) 16.9 delle Nazioni Unite, cioè quello di fornire un’identità legale (comprensiva di registrazione alla nascita) a tutta la popolazione mondiale entro il 2030. Il tema era per me particolarmente affascinante, e sarà di grandissima importanza per i migranti e per gli altri soggetti la cui identità può essere contestata.
L’SDG 16.9 intende promuovere “società pacifiche e più inclusive per uno sviluppo sostenibile [e] offrire accesso alla giustizia per tutti”. Non è però scontato che possedere un’identità digitale sia nell’interesse di tutti, specialmente dei settori più vulnerabili. Molti migranti irregolari sono costretti a varcare frontiere al di fuori della legalità, compiendo sforzi enormi a livello fisico e digitale per sfuggire alla sorveglianza e alle persecuzioni da parte di forze governative così come di attori non statali. Di sicuro molti rifugiati si mostrerebbero cauti e diffidenti nei confronti dell’identificazione digitale, e restii ad accettarla.
Potenzialmente, però, l’identità legale digitale è più utile ai rifugiati e ai migranti di quanto si potrebbe pensare.
L’identità legale è una cosa che noi cittadini del cosiddetto primo mondo diamo per scontata; la consideriamo un diritto. È però un diritto umano di cui non gode un miliardo e mezzo di persone, cioè un quinto della popolazione mondiale. Senza di esso si è esposti al rischio di sfruttamenti e abusi, traffico di persone, matrimonio coatto e schiavitù. Si è emarginati, trattati come rifiuti e praticamente invisibili.
L’identità legale digitale potrebbe rivelarsi uno strumento di sviluppo incredibilmente prezioso. Nell’era della migrazione, i dati di identificazione digitale potrebbero rivestire un ruolo cruciale nel seguire l’andamento delle malattie e individuare delle cure. Per i governi i registri di nascita e di stato civile sono uno strumento chiave per la pianificazione demografica e il controllo delle migrazioni di massa a livello globale. Anche il settore finanziario ne trarrebbe vantaggio: la proliferazione di identità legali attirerebbe nuovi soggetti economici e ridurrebbe il giro d’affari del mercato nero. Fornire alle donne un’identità ufficiale le metterebbe in condizioni di ottenere l’indipendenza economica. Più in generale, permetterebbe ai rifugiati di costruirsi una reputazione e diventare “una risorsa”. Più del 60 per cento dei rifugiati è costituito da giovani adulti, per i quali è essenziale una documentazione dei titoli di studio. L’identità digitale aiuterebbe molti di loro a dimostrare le proprie credenziali d’istruzione e verificarle presso le istituzioni.
Attualmente l’identità legale è resa evidente da una documentazione cartacea emessa dal governo: passaporti, carte d’identità, certificazioni di cittadinanza o altro status legale (per esempio quello di richiedente asilo). In tutto il mondo ci si affida a fragili documenti materiali, cosa che mette a rischio moltissimi individui. Se i documenti vengono smarriti, non si può dimostrare di essere chi si dice. Distruggere i documenti dei loro clienti (o meglio, vittime) è una prassi comune dell’industria multimilionaria del traffico di persone. Molti sfruttano anche la possibilità di contraffare o distruggere la propria identità. I migranti che intendono regolarizzare il proprio status incontrano enormi difficoltà per via della burocrazia, di infrastrutture inadeguate, di costi elevati e della corruzione.
Per tutte queste ragioni l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha già iniziato a raccogliere dati biometrici. I programmi dell’UNHCR hanno introdotto la scansione dell’iride nei campi profughi, specialmente per i soggetti privi d’identità più a rischio di sfruttamento, come i minori non accompagnati. Ciò permette di inserire un individuo nel mondo, dargli un’identità biologica di base, una prova della sua esistenza della quale non può essere privato. Si possono condividere l’anamnesi e altri dati utili, per facilitare il ricongiungimento dei rifugiati con amici e parenti.
Sembra che il futuro sia la digitalizzazione dell’identità. Eppure nel corso della storia l’identità è sempre stata trasformata in un’arma. Come si può scongiurare un futuro distopico, orwelliano, alla Minority Report? Come possiamo evitare di mettere nei guai chi si sposta?
Come si può (e si deve) implementare l’identità digitale nell’era della migrazione globale.
La preoccupazione etica principale rispetto all’identità digitale è quella relativa alla sicurezza dei dati personali. Questa va protetta senza possibilità di equivoco anche per il futuro: la portata dei potenziali abusi delle informazioni personali è smisurata. Per affrontare questo problema, all’ID2020, esperti di tecnologia quali il pioniere della crittografia Christopher Allen e Jeff Garzik, principale sviluppatore di Bitcoin, hanno proposto l’idea dell’identità sovrana. Tale concetto è governato dal principio secondo cui l’identità dovrebbe essere nelle mani delle persone. Ciascuno deve avere un’identità nel senso di possederla, e nessuno altro deve potergliela sottrarre. I governi possono riconoscere, ma non possedere, l’identità sovrana che l’individuo ha già. Si può dimostrare chi si è e cosa si possiede grazie ai dati biometrici. Le informazioni di carattere medico, economico, sociale e di altra natura possono essere immagazzinate privatamente, condivise in tutta sicurezza e autonomamente dall’individuo, ma non utilizzate fuori dal loro contesto senza il consenso di chi le possiede, come purtroppo oggi è la norma.
Un elemento importante dell’identità sovrana digitale è il principio della “riduzione al minimo”. Ciò significa evitare la raccolta eccessiva di dati stabilendo dei livelli di garanzia, cioè partendo dalla forma più essenziale di identificazione (il DNA) per poi procedere nel modo meno invasivo possibile. È notoriamente difficile guadagnarsi la fiducia di comunità vulnerabili come quella dei migranti per dare avvio a questo processo. L’idea è che la fiducia si ottiene quando l’identità viene costruita da loro e con loro, non per conto loro. La sicurezza può venire dall’uso del blockchain, la tecnologia alla base di Bitcoin, che permette di avere sistemi inviolabili e interoperabili. La privacy, invece, richiede un dialogo con gli individui e la loro fiducia in un soggetto terzo neutrale. Come potrà essere gestito tutto questo, se non dai governi? Chi stabilirà i criteri e amministrerà i sistemi? L’unica cosa certa è che il sistema in sé dovrà essere privo d’identità: niente brand come Microsoft o Facebook. Ciò però implica la creazione di un tipo di sistema che non ha alcun precedente al mondo.
È necessario che questa tecnologia sia sostenibile e che arrivi a tutti, compresa l’anziana donna di campagna analfabeta che fugge dalla guerra in Siria. Affinché l’identità digitale funzioni su scala globale, dev’essere confezionata in maniera coinvolgente, semplice e comprensibile per tutti, compreso chi non ha le conoscenze tecniche. Tutti devono essere messi in condizione di partecipare al programma di identità sovrana digitale, che va concepito e implementato mettendo al centro l’utente. I sistemi globali dovrebbero operare in maniera standardizzata, andrebbero gestiti in maniera unificata e semplificata e dovrebbero essere portatili per consentirne l’utilizzo a chi si sposta. Vanno anche progettati in modo tale da adattarsi a eventuali cambiamenti tecnologici.
Al momento tutto questo sembra un’impresa ardua, difficilmente attuabile e ancor meno desiderabile. Come ha sottolineato all’ID2020 Jaz di Wide Tribe, i rifugiati hanno paura: la maggior parte di loro preferisce accamparsi nel fango anziché sottoporsi a un riconoscimento biometrico, tanto meno affidarsi a un’infrastruttura digitale, globale e interoperabile, che permetterebbe alle autorità di seguire e analizzare i loro spostamenti. Un altro aspetto preoccupante di questi sistemi è che potrebbero essere usati per propugnare una sorta di colonialismo tecnologico. È necessario adottare un approccio antropologico, e ciò significa avviare in tutto il mondo una serie di discussioni estremamente difficili.
Ciononostante i vantaggi dell’identità digitalizzata potrebbero costituire un enorme passo avanti verso uno sviluppo globale positivo e sostenibile. Un sistema unificato, sicuro e correttamente gestito potrebbe accelerare le pratiche di asilo che in tanti paesi lasciano i richiedenti troppo a lungo nell’incertezza. Un tale sistema faciliterebbe il ricongiungimento delle famiglie separate. Potrebbe contribuire a rendere Internet più umana e incoraggiare la modalità fluida della cittadinanza globale. Seguire le migrazioni aiuterebbe le Nazioni Unite a sviluppare una gestione più sofisticata delle popolazioni e dei servizi, cosa di cui il mondo ha un disperato bisogno. Le situazioni di crisi a livello locale si potrebbero mappare e monitorare tramite l’analisi dei dati biometrici. Dunque, per quanto l’idea possa sembrare allarmante a molti, è forse promettente il fatto che una coalizione vasta, intersettoriale e globale come l’ID2020 abbia iniziato a considerare con attenzione i rischi e le possibilità di un’implementazione dell’identità sovrana digitale.
TRADUZIONE: Francesco Graziosi.
IMMAGINE DI COPERTINA: Baigal Byamba / Flickr Creative Commons.