Diventata già nel 2015 pilastro dell’agenda europea e italiana sull’immigrazione, l’esternalizzazione – ovvero la collaborazione con i paesi di origine e transito con l’obbiettivo di espellere facilmente i migranti dal territorio europeo o di bloccarli prima di raggiungere le nostre coste – si articola oggi, nel continente africano, nella logica strumentale di un legame tra migrazione, sviluppo e sicurezza. La sua combinazione con pratica costante di criminalizzazione della solidarietà porta ad un aumento, inaccettabile, dei morti per mare e per terra. L’azione del Governo Italiano s’iscrive perfettamente nella logica europea, sia nei proclami politici che nella creazione e gestione di fondi sull’esternalizzazione. Gli obiettivi sono chiari: bloccare gli arrivi via mare collaborando con i vicini Niger, Libia e Tunisia, oltre che facilitare le espulsioni strizzando l’occhio a Tunisi e a Il Cairo senza preoccuparsi del carico umano di vite che questa politica porta con sé.
Arci, impegnata sul territorio italiano nell’accoglienza e in campagne di denuncia e sensibilizzazione, porta negli ultimi anni un’attenzione particolare alle conseguenze della dimensione esterna dell’asilo e la migrazione attraverso il progetto #externalisationpolicieswatch.
Nel suo terzo rapporto, appena pubblicato, si concentra sulla moltiplicazione degli strumenti finanziari adottati a questo fine con un interesse particolare sull’impatto in Libia, Niger ed Egitto. Il capitolo italiano ed europeo dei fondi sulla sicurezza aumenta vorticosamente ed interessa sempre più la gestione delle frontiere all’interno e all’esterno dello spazio europeo: sistemi biometrici, moltiplicazione di missioni civili e militari impegnate nel controllo delle frontiere dalla Libia al Niger, rafforzamento del ruolo dell’Agenzia Frontex nelle operazioni di rimpatrio, meccanismi di interoperabilità dei sistemi di identificazione, elaborazioni di strumenti di sorveglianza sempre più elaborati. La gestione delle frontiere diventa un business, spingendo sempre più la politica europea e nazionale sulla migrazione verso una logica repressiva del fenomeno migratorio.
Esternalizzare il controllo delle frontiere in Libia significa concretamente rafforzare il ruolo della Guardia Costiera Libica perché intervenga per rinviare i migranti intercettati in mare nell’inferno da cui, disperatamente, scappano. Per fare questo l’Italia ha ricevuto due tranche di contributi provenienti dal Fondo Fiduciario per l’Africa – la prima, di 46 milioni di euro, nel luglio 2017, la seconda di 45 milioni di euro nel 2018 – a cui si aggiunge il contributo annuale di 50 milioni di euro che finanziano annualmente la presenza dei nostri militari sul territorio. In Egitto la logica è simile, attraverso il supporto di competenza del Ministero dell’Interno per l’istituzione di un centro internazionale di formazione (progetto I.T.E.P.A) che prevede la “formazione della Polizia di frontiera di 22 Paesi africani per contrastare l’immigrazione clandestina e il traffico di esseri umani” in un Egitto che sta, ogni giorno di più, rafforzando il suo regime autoritario. Con il Cairo l’interesse è molteplice e riguarda anche il fronte espulsione. In flagrante violazione dell’articolo 16 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata che prevede, ratificandolo come ha fatto l’Italia, di non “espellere, respingere, consegnare o estradare una persona verso uno Stato qualora esistano fondate ragioni per credere che, in tale Stato, correrebbe il pericolo di essere vittima di una sparizione forzata”. Impegno che è stato violato dall’Italia per le 294 espulsioni di cittadini egiziani nel 2018, rimandati in un paese dove le sparizioni forzate sono all’ordine del giorno.
A farne le spese sono i migranti – obbligati a rotte sempre più pericolose e lunghe – a beneficio di imprese nazionali, che del mercato della sicurezza hanno fatto un vero e proprio business, e di politici che sull’immaginario dell’invasione basano i loro successi elettorali. L’esempio di come la politica risponda sempre di più alle esigenze delle lobby dell’industria della sicurezza risulta evidente nei corridoi e nei saloni espositivi dei congressi che da Madrid a Bruxelles, da Roma a Casablanca, sono dedicati alla sicurezza e alle frontiere come nuovo settore d’investimenti. Dal “Security Research Event” al “World Border Security Congress”, rappresentanti della Commissione Europea e delle principali industrie del settore della sicurezza si incontrano e si confrontano con l’obiettivo prioritario di “ingrandire il mercato europeo della sicurezza”, come gli stessi partecipanti al SRE di Bruxelles hanno annunciato dal palco.
Gravissime sono le conseguenze di questa deriva delle politiche italiane ed europee: dalla normalizzazione e banalizzazione della violazione sistematica delle Convenzioni Internazionali fino ad un rischio democratico per una sempre più diffusa opacità dell’uso dei fondi. La politica sembra più interessata a rispondere agli interessi dell’industria della sicurezza, per la quale la frontiera altro non è che l’ennesimo mercato su cui investire e fare profitto -cosi come lo è da tempo la guerra- dimenticandosi del costo in termine di vite umane che ne consegue.
Scarica e leggi il rapporto ARCI in versione integrale (disponibile in italiano, inglese e francese).