L’ultimo “travel ban” (l’ordine esecutivo di divieto di ingresso negli Stati Uniti selettivo dell’amministrazione Trump, NdR) – è tornato alla corte federale degli Stati Uniti. Il Quarto Circuito, con sede in Virginia, e il Nono Circuito, con sede a San Francisco, stanno esaminando alcune cause intentate contro la versione più recente dell’ordine esecutivo, che vieta l’ingresso negli Stati Uniti agli immigrati e rifugiati provenienti da sei paesi a maggioranza musulmana (pochi giorni dopo l’uscita di questo articolo, il Quarto Circuito ha emesso il suo verdetto, considerato una vittoria dalle associazioni per i diritti civili; potete leggerne il testo integrale qui, e il 12 giugno 2017 si è aggiunto il parere, dello stesso segno, del Nono Circuito, testo integrale qui, NdR). Alla mischia si sono unite 162 aziende tecnologiche, che hanno fatto depositare ai loro avvocati un amicus curiae collettivo presso entrambe le corti (offrendo così volontariamente informazioni su parti del caso per aiutare la corte a decidere, NdT). Amazon, eBay, Google, Facebook, Netflix, e Uber sono tra le aziende che stanno facendo pressione sui giudici federali perché si pronuncino contro l’ordine esecutivo, spiegando i motivi che lo rendono iniquo, oltre che deleterio per le loro aziende.
Sebbene le 40 pagine dell’amicus curiae siano piene di argomentazioni a sostegno dell’immigrazione, a malapena vi si fa riferimento ai profughi, se non a grandi linee dove si dice che che bisognerebbe accogliere coloro che cercano protezione internazionale. Qualsiasi multinazionale che ha una manodopera di origini miste sarebbe preoccupata per l’imposizione di limiti alle assunzioni di personale internazionale e alla libertà di movimento dei propri impiegati. Ma le aziende tecnologiche dovrebbero anche preoccuparsi per le popolazioni di profughi che dipendono dai loro servizi digitali per la sicurezza e la sopravvivenza.
Nel fare ricerca su migrazioni e crisi dei rifugiati in Europa, io e il mio team abbiamo intervistato oltre 140 profughi provenienti dalla Siria, e abbiamo scoperto che la tecnologia è stata cruciale per coloro che fuggono da guerra, violenze e persecuzioni in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa. Servizi come Google Maps, Facebook, WhatsApp, Skype, e Western Union hanno aiutato i profughi a trovare i propri cari scomparsi o a individuare posti sicuri per dormire. I telefoni cellulari sono stati essenziali – i profughi li hanno anche utilizzati sulle barche che affondavano, per chiamare le autorità di soccorso che pattugliano il Mediterraneo.
Il ricorso dei profughi a queste piattaforme è una dimostrazione di ciò che le aziende di tecnologia tanto professano: l’innovazione mette le persone nelle condizioni di migliorare la loro vita e la società. Con i loro strumenti, le aziende tecnologiche non intendevano facilitare uno dei più grandi flussi migratori della storia, ma hanno la responsabilità di prestare attenzione alla sicurezza degli utenti più vulnerabili che utilizzano i loro prodotti.
Alcune aziende tecnologiche sono intervenute direttamente nella crisi dei rifugiati. Google ha creato applicazioni per aiutarli a trovare strutture mediche e altri servizi in Grecia; Facebook ha promesso di fornire la connessione Wi-Fi gratuita nei campi profughi dell’Onu. Il giorno dopo l’annuncio del primo “travel ban” emesso dal Presidente Trump, che all’inizio comportava la sospensione del programma di ammissione dei rifugiati negli Stati Uniti, Airbnb ha annunciato che avrebbe fornito alloggi gratuiti ai rifugiati rimasti bloccati.
Alcuni famosi leader del settore tecnologico si sono schierati contro le politiche che respingono i profughi. Subito dopo l’ordine esecutivo, il Ceo di Facebook Mark Zuckerberg ha scritto sulla sua pagina personale: “dovremmo anche tenere le porte aperte ai rifugiati e a coloro che hanno bisogno di aiuto”, e ha ribadito che i membri della famiglia di sua moglie arrivarono negli Stati Uniti come rifugiati. Brian Chesky, Ceo di Airbnb, ha twittato, “negare a certe nazionalità o ai rifugiati l’ingresso in America non è giusto, e dobbiamo stare dalla parte di coloro che vengono colpiti dal divieto”. Il cofondatore di Google, Sergey Brin, si è unito alla manifestazione di protesta contro l’ordine esecutivo all’aeroporto internazionale di San Francisco, dicendo “sono qui perché sono un rifugiato” (ha poi spiegato che lui e la sua famiglia sono fuggiti dall’ex Unione Sovietica).
Questi sforzi a sostegno dei rifugiati sono degni d’ammirazione. Ma l’azione del settore tecnologico sarebbe più efficace se influenzasse collettivamente le opinioni dei tribunali e del pubblico. L’amicus curiae era un’opportunità per rilasciare una dichiarazione da parte di tutta l’industria tecnologica a favore dell’accoglienza dei rifugiati, in particolare di quelli che hanno già superato rigidi controlli di sicurezza e selezione per entrare negli Stati Uniti.
Una presa di posizione più incisiva sarebbe nell’interesse delle società stesse. Le aziende stanno infatti affrontando pressioni sempre maggiori da parte dei loro dipendenti e clienti perché prendano posizioni politiche e sostengano certi valori. Come mi ha detto Ken Shott, professore alla Stanford Graduate School of Business, “molti dipendenti (sia quelli nati in America che quelli immigrati) si aspettano che le aziende tecnologiche siano all’altezza delle loro roboanti rivendicazioni sui loro valori e sulla volontà di fare del bene nel mondo. A differenza dei dipendenti della maggior parte delle aziende, hanno il potere di fare pressione grazie al fatto che il mercato del lavoro nella Silicon Valley è molto compatto”.
Basta considerare come, pochi giorni dopo il primo travel ban voluto da Trump, migliaia di dipendenti di Google abbiano lasciato il lavoro per una giornata di protesta. O come Uber abbia sofferto di una crisi di immagine perché subito dopo il divieto ha dato l’impressione di fare orecchie da mercante. Nonostante le dichiarazioni del Ceo Travis Kalanick a sostegno di immigrati e rifugiati, molti dipendenti e utenti Uber erano furiosi perché questi aveva ancora intenzione di partecipare alla riunione di Trump per i consiglieri economici pochi giorni dopo. Sulla scia della campagna che ne è seguita, #DeleteUber, Kalanick è uscito dal consiglio consultivo.
Negli ultimi anni le aziende tecnologiche hanno cercato di trasmettere al pubblico il messaggio che proteggeranno i loro consumatori contro l’invadenza del governo. Per esempio, Apple si è rifiutata di dare alle autorità una chiave segreta per gli iPhone criptati, e di recente Microsoft ha vinto un caso federale per aver rifiutato le richieste del governo degli Stati Uniti di consegnare dati sugli utenti memorizzati all’estero.
Il settore dovrebbe estendere questi sforzi per assicurarsi che le sue tecnologie non vengano utilizzate per prendere di mira gruppi di persone sulla base della loro nazionalità o religione. Già la Dogana e Polizia di Frontiera degli Stati Uniti (il Cbp) sta chiedendo di vedere gli account sui social media – password comprese – di visitatori provenienti da altri paesi. Il Consiglio per le Relazioni Americano-Islamiche ha presentato alcune denunce contro il Cpb, affermando che cittadini musulmani americani sono stati sottoposti a controlli forzati, inclusi i loro account sui social media e i loro telefoni cellulari.
Trump ha parlato di creare un database per identificare e registrare i musulmani in America, compresi i rifugiati. Un certo numero di aziende, tra cui IBM, Microsoft e Salesforce, hanno dichiarato che non contribuiranno a costruire un registro musulmano se il governo dovesse chiederglielo. In più, un gruppo di quasi 3 mila impiegati tecnologici americani ha firmato un impegno online nel quale promette di non sviluppare sistemi di elaborazione dei dati che aiuterebbe il governo degli Stati Uniti a prendere di mira individui sulla base dell’etnia, religione o nazionalità.
Le aziende tecnologiche, ora più che mai, hanno bisogno della fiducia dei consumatori. A ragion veduta o meno, la tecnologia viene accusata di una serie di mali sociali, dai social media che diffondono notizie false all’intelligenza artificiale che riduce i posti di lavoro. Il decreto di Trump probabilmente sarà messo in discussione in altre cause di alto profilo che danno alle aziende un’occasione per evidenziare come le loro innovazioni aiutino i rifugiati in fuga da un conflitto. L’industria può usare futuri amici curiae per fornire ai tribunali e al pubblico argomentazioni collettive più robuste. Schierandosi a favore dei membri più vulnerabili della nostra comunità globale, l’industria tecnologica manderebbe il messaggio che le sta a cuore qualcosa di più del solo saldo finale.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sulla Harvard Business Review ed è qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.
Traduzione di Vittoria Zanellati.
Foto di copertina: lo spazio internet nell’hub per transitanti di Milano (foto di Marina Petrillo).