Nell’ultimo mese, Medici Senza Frontiere (MSF) ha lanciato consecutivamente tre diversi appelli pubblici per chiedere misure di evacuazione umanitaria. Il primo il 7 settembre scorso, quando abbiamo esortato UNHCR e IOM ad accelerare i programmi di evacuazione di migranti, richiedenti asilo e rifugiati dalla Libia. Dieci giorni dopo l’abbiamo fatto in Grecia, per chiedere l’immediata evacuazione dei minori e delle altre persone vulnerabili bloccate nel campo di Moria, sull’isola di Lesbo. Pochi giorni fa, in Australia, abbiamo chiesto l’evacuazione immediata di tutti i richiedenti asilo e rifugiati sottoposti a detenzione extraterritoriale sull’isola di Nauru.
In MSF cerchiamo di usare le parole, soprattutto quelle importanti, in modo coerente e ragionato. E nonostante 47 anni di lavoro tutti concentrati nelle aree più difficili del pianeta, sappiamo bene che le evacuazioni umanitarie sono, e devono rimanere, misure straordinarie ed eccezionali. Sono l’ultima spiaggia, la mossa estrema a cui fare ricorso solo quando tutte le altre opzioni per fornire assistenza e protezione hanno fallito o non sono più percorribili. Nella storia dell’azione umanitaria gli esempi non mancano e spesso sono accompagnati da dilemmi importanti. Basta pensare alle diverse, controverse evacuazioni di civili che si sono avvicendate durante il conflitto in Bosnia Erzegovina dal 1993 al 1995, o all’imponente programma di evacuazione dei rifugiati kosovari dalla Repubblica Federale di Macedonia avviato dalle Nazioni Unite nel 1999. Tra i casi più recenti, le evacuazioni delle comunità a rischio attacco in Repubblica Centrafricana a metà 2014 e i corridoi umanitari aperti in varie fasi del conflitto in Siria per permettere la fuga delle popolazioni civili intrappolate in città sotto assedio.
I motivi per cui abbiamo sollecitato le evacuazioni umanitarie da Libia, Lesbo e Nauru sono diversi, ma tutti stringenti. In Libia, da fine agosto, l’inasprimento dei combattimenti a Tripoli ha ulteriormente messo a rischio la sorte di migranti, richiedenti asilo e rifugiati trattenuti arbitrariamente in spaventosi centri di detenzione o sequestrati dalle reti di trafficanti. L’accesso delle nostre équipe mediche, già fortemente inibito dalle condizioni di sicurezza nel paese, è diventato praticamente impossibile durante i combattimenti, e anche se continuano le attività mediche nelle aree di Khoms, Misurata, Zliten, e in modo più limitato a Tripoli, la nostra capacità di intervento resta del tutto sproporzionata. Soprattutto di fronte a un contesto che pone migranti e rifugiati davanti a un bivio drammatico: rischiare la vita nella traversata in mare, o affrontare una detenzione arbitraria inumana e indefinita, rischiando di finire vittime dei trafficanti. Una circostanza che riguarda anche le 14.500 persone che quest’anno sono state intercettate in mare e riportate nei centri di detenzione dalla Guardia Costiera Libica, sostenuta dall’Europa e dai suoi stati membri, secondo una prassi ormai abituale che ha portato il numero di persone respinte indietro dalle autorità libiche a superare il numero di persone soccorse in mare e condotte in un porto sicuro.
In Grecia, nell’isola di Lesbo, abbiamo toccato con mano le conseguenze di una politica folle che ha bloccato indefinitamente oltre 9.000 persone, un terzo delle quali bambini, nel campo di Moria, pensato per accoglierne non più di 3.100. Per ricevere cibo ci sono code di 2-3 ore e spesso i genitori rinunciano per non lasciare soli i propri figli, con il rischio che subiscano violenze. La salute fisica e mentale delle persone nel campo è in costante deterioramento, a causa delle pessime condizioni di vita, delle difficoltà di accesso alle cure e della mancanza di qualunque prospettiva. Più di un quarto dei minori assistiti da MSF ha compiuto atti di autolesionismo, ha pensato di suicidarsi o ha concretamente cercato di farlo. E i nostri medici hanno curato pazienti che non avevano ricevuto alcuna assistenza medica o erano stati vittime di violenze e abusi sessuali.
Non è migliore la situazione delle persone confinate a Nauru, dove le autorità locali hanno recentemente ordinato a MSF di lasciare l’isola e interrompere l’intervento di salute mentale avviato nel novembre del 2017. Quasi tutti i 900 richiedenti asilo e rifugiati a Nauru, inclusi 115 bambini, sono trattenuti sull’isola da più di cinque anni, senza alcuna speranza di un futuro diverso. Le loro condizioni psicologiche sono descritte come “al di là della disperazione”. Molti hanno perso la voglia di vivere, almeno 78 nostri pazienti hanno avuto istinti suicidi o episodi di autolesionismo e molti bambini soffrono da sindrome di astinenza traumatica che impedisce loro di mangiare, bere o parlare.
In questi contesti, le politiche adottate dai governi hanno determinato quelle stesse circostanze che, in una situazione di conflitto, inducono le agenzie umanitarie a richiedere programmi di evacuazione urgenti: la presenza di una popolazione o di un gruppo di persone sottoposte al rischio di subire violenze o a condizioni di vita del tutto inaccettabili. L’impossibilità di portare soccorso e garantire adeguata protezione, a causa delle condizioni di sicurezza del paese, per divieti imposti dalle stesse autorità o per il dilemma di fornire assistenza in queste situazioni e forse diventarne complici. E infine il fallimento di tutte le alternative possibili per offrire un livello minimo di protezione e migliorare in modo significativo l’accesso alle cure e ai soccorsi.
In Libia, a Lesbo e a Nauru, le politiche di deterrenza promosse da Europa e Australia nei confronti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo hanno avuto esattamente questo effetto: creare condizioni talmente dure ed estreme che l’unica possibilità per continuare a garantire protezione a queste persone è richiederne l’evacuazione urgente. Serve altro per denunciare la gravità e il cinismo di queste politiche?
In copertina foto di Sara Creta