Un nemico invisibile si aggira nelle nostre città. Ma non è lo smog. Né gli immigrati. Trattasi del coronavirus, che in qualche modo ha a che fare sia con lo smog che con gli immigrati. Fosse anche solo perché si è maggiormente diffuso in pianura padana (tra le aree più inquinate d’Europa e dove risiedono più immigrati). O per il fatto che ci ha costretto a ridisegnare i confini delle nostre possibili traiettorie. E non solo quelle fisiche. Dacché anche dal punto di vista psicologico, emotivo, economico e sociale gli effetti si vedono già. O ancora per quel legame che coronavirus, smog e migrazione condividono con la morte prematura di tanti esseri umani. Una morte che (nel caso dello smog e dell’immigrazione) spesso non trova eco nei nostri media o nel dibattito politico, mentre a volte viene spettacolarizzata e strumentalizzata per fini elettorali o impellenze di coscienza.
Di smog si muore
Se è vero che tanto lo smog quanto gli immigrati sono spesso stati definiti un ‘nemico invisibile’, è altrettanto vero che l’espressione non ha mai riscosso tanta eco come in questi tristi distopici mesi.
La denuncia del superamento dei limiti di Pm10 e la relativa emergenza che puntualmente scattava nei grandi centri italiani non ci ha mai impressionato troppo. Né l’idea che a produrlo e immetterlo nell’aria siamo tutti noi quando usiamo la macchina o lo scooter ci ha mai fatto cambiare abitudini. Anzi, quelle poche misure che alcune Regioni e Comuni hanno provato a mettere in atto (poco più di semplici palliativi come le domeniche senza auto, i centri storici chiusi, gli incentivi economici di vario tipo) hanno sempre provocato un certo fastidio e reiterate lamentele.
Eppure (anche) di smog si muore. E con perdite maggiori rispetto al coronavirus: la mortalità mondiale viene stimata sugli 8,8 milioni di decessi in più all’anno dovuti all’inquinamento atmosferico. In Europa, venivano calcolate 400mila morti premature in Europa ogni anno, ma le ultime stime raddoppiano la cifra (790.000 morti all’anno). E l’Italia – come denuncia il Rapporto Aea sulla qualità dell’aria 2019 – è prima in Europa per morti da smog: tra i 45mila e gli 80mila morti ogni anno. Triste primato, a cui si deve aggiungere la perdita di PIL e di biodiversità.
Ma ora che un (altro) nemico invisibile cammina sulle nostre gambe, costringendoci ad un corpo a corpo con lo spettacolo della morte che giorno per giorno ci minaccia attraverso i dati della sua diffusione (numero di contagi, decessi, guariti, etc.), l’espressione linguistica non solo prende piede ma addirittura monopolizza l’immaginario collettivo.
Quali sarebbero state le misure contro lo smog se le istituzioni ne avessero comunicato quotidianamente le vittime? E le nostre reazioni? Avremmo forse indossato la mascherina come accessorio quotidiano? E se il tema avesse raggiunto il centro del dibattito, saremmo forse riusciti ad elaborare politiche energetiche diverse e di mobilità sostenibile e ad accettare l’impatto delle stesse sulle nostre vite?
Perché questo è ciò che è avvenuto con l’arrivo del coronavirus. Il nemico invisibile che nel giro di poche settimane ci ha costretto a indossare la mascherina, facendoci docilmente accettare severe misure di confinamento e immobilizzazione. Che ci ha costretto a fermarci e ripensare alla ripartenza, spingendo tanti (dagli scienziati agli attivisti) a dire che ‘la normalità era il problema’. Provvedimenti (castighi e cure) che l’emergenza smog o il cambiamento climatico non sono mai riusciti a farci nemmeno immaginare di mettere in atto. Eppure non è difficile vedere in questa pandemia le conseguenze di scelte ecologiche ed economiche miopi e devastanti.
Le parole sono importanti
Restiamo sulla popolarità dell’espressione ‘nemico invisibile’, a cui inevitabilmente oggi associamo il covid-19. A render cele(b)re questa associazione mentale avranno di certo contribuito le dichiarazioni di diversi capi di stato e di governo.
Il 16 marzo è il presidente francese Macron a dire senza mezzi termini ‘Siamo in guerra contro un nemico invisibile’. Gli fa eco, il giorno dopo, il premier italiano Conte che, in occasione del 159° anniversario dell’Unità d’Italia, twitta ‘Mai come adesso l’Italia ha bisogno di essere unita. Sventoliamo orgogliosi il nostro Tricolore. Intoniamo fieri il nostro Inno nazionale. Uniti, responsabili, coraggiosi. Tutti insieme per sconfiggere il nemico invisibile’.
Mai come adesso l’Italia ha bisogno di essere unita. Sventoliamo orgogliosi il nostro Tricolore. Intoniamo fieri il nostro Inno nazionale. Uniti, responsabili, coraggiosi. #17Marzo pic.twitter.com/f87CoXGoxa
— Giuseppe Conte (@GiuseppeConteIT) March 17, 2020
Ma lo slancio più energico arriva dal presidente Donald Trump che – autoproclamatosi ‘presidente di guerra’ – annuncia un ordine esecutivo per bloccare qualsiasi tipo di immigrazione negli Stati Uniti. Come è ormai prassi, lo fa con un tweet, definendo il coronavirus “nemico invisibile“.
Ed ecco che il legame tra virus, inquinamento e immigrati inizia a delinearsi. Con la motivazione del contrasto alla pandemia si dichiara l’emergenza e si assumono poteri speciali per combattere i nemici. Che non sono le polveri sottili o l’innalzamento della temperatura globale, appunto, ma i migranti al confine col Messico (o con l’Europa). Né l’obiettivo è proteggere la salute collettiva, bensì ‘i posti di lavoro degli americani’.
‘Le parole sono importanti’, urlava Nanni Moretti in una celebre scena di Palombella Rossa. La scelta di un elemento linguistico non è mai neutra, ma veicola differenze nella rappresentazione del mondo. Sceglierne alcune e non altre per indicare e descrivere i fenomeni può aiutarci a comprenderli e gestirli meglio. Usando parole imprecise o distorte, fuorviamo non solo la comprensione degli eventi, ma anche le emozioni, le decisioni e le azioni che ne conseguono. Lo sa bene lo stesso Donald Trump quando sceglie di chiamare “virus cinese” il coronavirus, incorniciandolo (attraverso una chiara operazione di framing) in una definizione che ne attribuisce e denuncia la provenienza, e dunque la responsabilità.
“Nominare per dominare’, sostiene il neurobiologo Daniel Siegel, ovvero usare termini appropriati per governare stati emotivi disregolati. Quelli, ad esempio, a cui può indurci l’incertezza, l’ansia o la paura. Emozioni tipiche di questo periodo di emergenza, troppo spesso alimentate dalla propaganda politica o dai mezzi di (dis)informazione contemporanea, che contribuiscono a modellare le realtà di cui parlano.
Per quanto, infatti, da più parti sia stato sottolineato il ruolo cruciale del giornalismo e l’importanza di una corretta informazione in casi di pandemie o comunque di crisi, i toni con cui è stata raccontata questa emergenza sanitaria hanno spesso contribuito ad amplificare l’incertezza e alimentare la paura.
Dai discorsi dei politici al lessico dei giornali a quello dei social network, l’immagine del pericolo invisibile che ci minaccia è sempre presente nel racconto della pandemia. Come riporta Stefania Spina analizzando le diverse scelte linguistiche della stampa italiana nel riportare l’emergenza covid-19, il pericolo e lo stato di allarme sono le costanti delle diverse cronache del virus. Seppur con tonalità diverse, nei 6.685 articoli pubblicati online da Repubblica, La Stampa, Il Giornale, Libero, Il Foglio e Huffington Post, la paura – che si trasforma in panico e in psicosi sulle pagine di alcuni giornali – è utilizzata in modo abbastanza uniforme dai sei quotidiani esaminati.
Con la conseguenza che un fenomeno già di per sé inquietante cresce di intensità ad ogni notizia riportata, in ogni scelta linguistica effettuata. Assumendo le sembianze della paura più temibile che – come scrive Bauman – è ‘la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente’.
Bauman tratteggiava questa paura generalizzata come Liquida. Oggi dovremmo forse definirla Paura Eterea, dato che lo stesso respirare è ormai fonte di sospetto. D’altra parte Sloterdijk scrisse quasi 20 anni or sono che ci si ricorderà del XX secolo come di ‘quell’epoca la cui idea principale non consisteva più nel prendere di mira i corpi dei nemici bensì il loro ambiente’. Lo definiva “Terrore nell’aria”, denunciando la possibilità che l’abitudine di respirare venisse ‘rivolta contro coloro che respirano in modo tale che la prosecuzione del loro habitus elementare li rende involontariamente complici della loro stessa [e io aggiungerei dell’altrui] distruzione’.
Se questa è la nuova forma del terrore, neanche le vecchie abitudini sembrano tornar utili per calcolare i pericoli intorno a noi e sentirci così più sicuri. Al punto da ritrovarci a vivere in uno scenario di insicurezza totale, dove l’emergenza sanitaria provoca l’emergenza psicologica, a cui segue poi quella economica, sociale, politica. Protagonisti involontari di un episodio della storia che ha il sapore dell’atmosfera amara, macabra e asfissiante di Black Mirror. Ignari del filo sottile e pericoloso che lega pandemia, infodemia (sovrabbondanza di informazioni, non sempre accurate) e fobocrazia (il potere esercitato attraverso l’allarme prolungato).
Un’occasione mancata
Il nemico invisibile – che Donatella Di Cesare ha efficacemente definito ‘virus sovrano’ – è un organismo minuscolo e inodore, che attraversa le frontiere e costringe individui e stati-nazione a tracciare nuovi confini dentro cui trincerarsi (nazionali, regionali, casalinghi, epidermici), per ritrovarsi comunque sempre più indifesi. Un essere infimo che agisce come un attore superiore, capace di imporre la sua volontà su quanti credevano di possedere poteri enormi e dispositivi all’avanguardia.
Fossimo religiosi o solo di altri tempi lo avremmo definito un segno di Dio o una divinità esso stesso. Ma la nostra iper-moderna arroganza antropocentrica lo riduce a nemico da combattere in quella che da più parti viene definita come una guerra: la prima vera guerra mondiale. E come fossimo davvero in guerra attendiamo ogni sera il bollettino dei morti e dei sopravvissuti, descriviamo il fronte del virus e la trincea negli ospedali, in attesa che arrivino presto nuove armi per abbattere il nemico, o almeno limitarne i danni.
Come ha evidenziato Federico Faloppa analizzando il campo semantico di questa narrazione, raccontare il virus attraverso la metafora della guerra e i cittadini come soldati semplici, armati di gel disinfettanti e di buon senso, ci fa sentire minacciati da un nemico invisibile che vediamo ovunque, al punto da guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore. Che può assumere le sembianze di chi fa jogging o del bambino, untore da aggredire perché non indossa la mascherina. Un accessorio che diventa uniforme di una ‘nuova normalità’, da indossare o meno a seconda dell’ideologia da sbandierare.
Il linguaggio bellico e la retorica militaresca, che riducono la sicurezza a controllo e incorniciano la realtà perpetuando la dicotomia amico/nemico, non solo non ci aiutano ad affrontare l’emergenza da un punto di vista psicologico e cognitivo, ma rinforzano l’idea muscolare di odio invece che privilegiare la protezione, la condivisione e la cura. Riducendo ad una dimensione la doppia accezione di sicurezza – controllo e protezione.
E soprattutto ci fanno perdere l’occasione di ascoltare i segnali (di allarme, senza dubbio) che da più parti giungono, di osservare un fenomeno nuovo e sforzarsi di trovare parole diverse per descriverlo. Un’occasione per riflettere sulla fragilità di questo sistema capitalistico globale e sulla necessità di agire verso un cambiamento sistemico del nostro stile di vita, a partire dalle relazioni tra esseri umani e tra noi e il pianeta. Quel pianeta che distruggiamo con la tecnoeconomia, depredandolo delle sue risorse e trasformandolo in un ammasso di rifiuti e rovine. Una biosfera che abbiamo tristemente rinominato Antropocene, all’interno di cui lottiamo per sopravvivere e immaginare un futuro diverso che non sia peggiore del presente che viviamo.
Trattare il nemico invisibile con metafore di guerra ci fa perdere l’occasione per re-immaginare tutto, compreso il grande lavoro che ci toccherà fare una volta passata l’emergenza. Perché passerà. E allora bisognerà tornare a ciò che ora abbiamo lasciato sullo sfondo, l’ordinaria amministrazione a lungo sospesa, con tutti le questioni sociali, politiche ed economiche oscurate dal monopolio che la diffusione del coronavirus esercita sulla politica e nei media. Un monopolio che ha indotto molti a denunciare il lockdown (e pensare che anche quando il primato del provvedimento spetta all’Italia, se non alla Cina, finiamo per assoggettarci agli inglesisimi!) come un esperimento sociale, un attentato alla democrazia, uno stato di eccezione. Critiche che da un lato hanno il sapore del complotto o quanto meno dell’esagerazione, ma dall’altro mostrano come non si fosse mai vista una simile mobilitazione universale, con il blocco dell’economia mondiale (oltre che delle scuole, tra le altre cose), per così pochi morti, statisticamente.
Oltre i confini del nemico invisibile
Veniamo dunque alla relazione tra nemico invisibile e immigrati. Nei mesi di confinamento forzato nella propria sovranità casalinga è scomparsa dal dibattito pubblico, tra le altre notizie, la pressione sui confini di quanti tentano di entrare irregolarmente in Europa. Non che siano mancate le persone costrette a rischiare la morte nel Mediterraneo per cercare asilo sull’altra sponda: la media dei 50 sbarchi al giorno nel periodo pre-coronavirus si è ridotta ma non si è mai fermata. Così come lungo il confine tra Turchia e Grecia si contano ancora circa 20.000 persone che hanno seguito la dichiarazione del presidente turco Erdogan di ‘apertura’ delle frontiere verso l’Europa.
Per quanto la cosiddetta ‘emergenza migranti’ – come è stata a lungo raccontata da buona parte della stampa italiana, diffondendo e strumentalizzando l’immagine di un fenomeno sproporzionato e fuori controllo – fosse stata sulle prime pagine dei giornali per (troppi) anni e fino a pochi giorni prima, lo sbarco in Europa del nemico invisibile l’ha oscurata.
L’emergenza virus ha chiuso la frontiera su di noi. I confini, e la relativa paura di chi li attraversa, sono diventati l’aria che respiriamo, la mascherina, la nostra pelle.
L’ipervisibilità dell’emergenza covid-19 ha reso invisibile quella dei migranti che premono ai confini dell’Europa. Chi, durante i lunghi mesi di confinamento, ha mai ricordato le parole dei tre ‘presidenti europei’ – von der Leyen (Commissione), David Sassoli (Parlamento) e Charles Michel (Consiglio europeo) – che solo pochi giorni prima erano volati in Grecia per portare la loro solidarietà al governo di Atene? Governo che aveva appena deciso di sospendere per un mese il diritto di presentare domanda d’asilo. ‘La nostra priorità in Grecia è preservare l’ordine ai confini esterni dell’Ue’, aveva detto la presidente della Commissione europea. La stessa von der Leyen che era ministro della Difesa nel governo Merkel quando nei mesi caldi del grande esodo del 2015 – con un milione di migranti e richiedenti asilo in viaggio verso l’Europa – aveva pronunciato quel famoso ‘possiamo farcela’.
Chi ricorda le immagini raccapriccianti degli abitanti dell’isola di Lesbo che nei giorni precedenti impedivano l’attracco dei gommoni carichi di persone (molti bambini) in fuga dalla guerra? E quelle dell’incendio nel campo profughi più grande d’Europa, a Moria, sempre a Lesbo, dove vivono 21mila persone in una struttura che è stata costruita per ospitarne meno di tremila? Dall’arrivo del virus erano trascorse due settimane appena, ma già sembravano secoli addietro o l’eco di un altro pianeta.
Eppure lungo le rive del fiume Evros – in piena emergenza coronavirus – si sono consumate alcune delle più feroci violazioni dei diritti dei migranti dei nostri giorni: respingimenti alla frontiera, violenze fisiche, detenzioni illegali.
Sconvolto dall’emergenza coronavirus, il Vecchio continente ha deciso di blindare (ancora con più forza) i confini, dimostrando ancora una volta la propria inflessibilità e indifferenza con i potenziali rifugiati al di là della frontiera. Una risposta in linea con il collasso della solidarietà intraeuropea e le politiche securitarie che da decenni caratterizzano il fronte migratorio.
Le stesse politiche alla base dello sconvolgimento semantico, oltre che etico, a cui abbiamo assistito negli ultimi anni: dall’iper-visibilità dei salvataggi in mare durante la missione militare-umanitaria Mare Nostrum del 2014 sino ai porti chiusi con i decreti sicurezza e la criminalizzazione delle ONG del 2018. Ben 18 le inchieste a carico delle ONG che operavano nel Mediterraneo, di cui quattro sono state archiviate prima di giungere a un processo e una ha condotto a un’assoluzione. Tutte le altre sono ancora aperte, ma nessuna di queste è ancora sfociata in un processo. Inchieste che hanno fatto eco alla chiusura identitaria e alla retorica sovranista, facendo annegare l’afflato solidale del cosmopolitismo e cancellando una storia di comuni contaminazioni (!). Al punto che la solidarietà con chi cerca rifugio viene oggi guardata con sospetto, perseguita come reato. E il male riconfigurato come normalità. Banalità.
Mentre l’Italia chiudeva i porti – dichiarando per decreto che non sono “luogo sicuro” per accogliere i migranti a causa dell’emergenza sanitaria – lo sbarco del nemico invisibile ha fatto si che oggi a cercare rifugio siamo noi, italiani ‘untori’ e indebitati, così vulnerabili e bisognosi di aiuto da accogliere con le fanfare i medici cinesi, cubani e albanesi giunti per supportare i tanti connazionali in prima linea. Noi che siamo stati abbandonati dal turismo internazionale, con danni altissimi per un settore che vale il 12% del nostro PIL. Noi mal graditi turisti in Grecia, ospiti indesiderati a cui negare l’ingresso.
Il virus sovrano ha oscurato quel minimo dibattito sui corridoi umanitari per accendere i riflettori sui corridoi turistici. Evidenziando, in modo subdolo, la rilevanza del diritto alla mobilità, al cui interno turismo e migrazione si rivelano due facce della stessa medaglia. Incubo e sogno al contempo, in uno scambio simbolico governato dalla stratificazione sociale.
Dalla mobilità negata alla presenza sul territorio, durante l’emergenza l’invisibilità di certe categorie (migranti irregolari in primis) ha acuito le disuguaglianze formali e sostanziali sia dal punto di vista economico sia da quello dei rapporti di lavoro.
Nel momento in cui l’Europa diventava l’epicentro della pandemia, Michael Ryan – direttore esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – lanciava un appello in favore delle popolazioni invisibili: ‘Non possiamo dimenticare i migranti, non possiamo dimenticare i lavoratori senza documenti, non possiamo dimenticare i detenuti’. Invitandoci a riflettere sul fatto che per quanto da molti il virus sia stato descritto come democratico, in verità colpisce in modo particolare le fasce più deboli e invisibili della popolazione. Il tasso di mortalità degli afroamericani negli Stati Uniti fa ben comprendere come essere invisibili si traduca nell’impossibilità di accedere a servizi fondamentali, e in particolare alla sanità.
Senza dimenticare che, nel caso dei migranti, l’invisibilità (compresa quella delle statistiche) ha anche conseguenze sociali, perché contribuisce ad alimentare il razzismo e la xenofobia, spesso sostenuti da leggende pseudoscientifiche che diventano virali sui social network.
Nel considerare il dilemma tra visibilità e invisibilità per le popolazioni in movimento, Pelizza, Lausberg e Milan hanno mostrato i vari scenari che possono aprirsi a seconda di come viene inteso il termine sicurezza: dalla possibilità che governi repressivi approfittino della provvisoria uscita allo scoperto per identificare e tracciare gli irregolari (accezione del controllo) sino al possibile allargamento e riconoscimento dei diritti civili garantiti dalla cittadinanza (sicurezza come protezione e inclusione).
Regolarizzare braccia e non persone
All’interno di questa antinomia è da leggere anche la faticosa approvazione del Decreto Legge del 19 maggio 2020 n. 34, la cosiddetta sanatoria per far emergere dal nero i migranti considerati ‘lavoratori essenziali’, migliaia di braccianti agricoli, spesso invisibili e sfruttati, che lavorano nelle campagne italiane per garantire l’approvvigionamento di frutta e verdura. Uno tra i provvedimenti del Decreto Rilancio adottati per reagire agli effetti devastanti della pandemia che ha permesso alla ministra per le Politiche Agricole, Teresa Bellanova (che pure ha lavorato come bracciante, lottando poi come sindacalista contro la piaga del caporalato), di annunciare commossa ‘Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili’.
Per quanto nasca con i migliori intenti (in primis, per tutelare la salute personale e pubblica), si tratta di una ‘regolarizzazione’ che è frutto di un difficile compromesso politico, evidente nelle diffuse aporie del testo normativo e nei numerosi ostacoli presenti sia nei presupposti sia nelle procedure. Come hanno denunciato diverse associazioni ed esperti del settore, il testo è complicatissimo e pieno di criteri che rischiano di lasciare indietro moltissime persone che rimarranno nell’ombra. Eppure, quando si tratta di migliorare condizioni di marginalità, esclusione e sfruttamento, qualcuno è sempre meglio di nessuno. Pertanto lo sforzo del Governo è meritevole.
Si tratta però, al contempo, di un’ (altra) opportunità mancata – come ha denunciato anche Andrea Oleandri: perché lascia molte perplessità rispetto alla concreta applicabilità, perché non considera coloro che già lavorano in ambiti professionali diversi da quelli previsti, perché non comprende anche i richiedenti asilo. E soprattutto perché non rappresenta la soluzione dei problemi che da anni la politica dovrebbe affrontare. Un testo che palesa la funzione specchio che il fenomeno migratorio esercita, la sua capacità di rivelare ‘le più profonde contraddizioni di una società, della sua organizzazione politica e delle sue relazioni con le altre società’, come scriveva Sayad. L’iter del decreto non fa che esplicitare (se mai ce ne fosse bisogno) le dinamiche sociali dell’Italia come paese di accoglienza, svelando le caratteristiche di una comunità ricevente che altrimenti rimarrebbero latenti. Una comunità il cui istinto identitario e sovrano viene fomentato da una percezione distorta dell’immigrazione, più propenso a vedere gli ‘altri’ come ‘non persone’, braccia da sfruttare, corpi da respingere, dati da esporre, rifiuti da smaltire. Una comunità che, ancor più a causa della pandemia, rischia di distanziare il prossimo nell’ossessione della sicurezza, di abolire l’altro per il rischio di essere contagiati, di perdere il dono dell’apertura e dell’ospitalità inseguendo l’iper-protezione di una psicopolitica immunitaria.
Un invito a ripensarci oltre la chiusura immunitaria
Ma se il virus globale insegna qualcosa è che oggi la comunità chiusa e sovrana è ormai un miraggio, e che i muri eretti dagli Stati nazionali contro il nemico invisibile sono ridicoli e inefficaci. Sia questo nemico il covid-19, il cambiamento climatico o il migrante.
Che sia l’occasione buona per vedere in questa ‘nostra’ emergenza un segnale non solo negativo? Un invito a ripensare la nostra comune appartenenza ad un pianeta finito, per rimettere al centro l’ospitalità come prima regola di condotta etica dell’umanità (come scriveva Kant già nel 1795 nel suo Progetto di Pace perpetua). Ripensando in primis il diritto alla mobilità proprio oggi che ne sperimentiamo i limiti sulla nostra pelle. Ripartendo da casa nostra, dai diritti da garantire a tutti, in primis a quanti soffrono maggiormente le conseguenze della crescente disuguaglianza sociale, senza distinzione di nazionalità. Rimettendo in discussione la stessa dittatura della sicurezza che trasforma la politica in management del terrore, diventando così una macchina di morte. Viviamo nelle società più sicure mai esistite nella storia eppure ci sentiamo sempre più insicuri, scriveva Robert Castel due decenni or sono. Come rendere conto di questo paradosso? L’insicurezza è un ottimo terreno per l’esercizio del potere e la nostra società individualistica tende a venerarla come una divinità a cui sottomettersi attraverso un’ascesi collettiva che ognuno vive nella propria dimora, sul proprio corpo. E idolatrare la sicurezza significa affidarsi a quelle istituzioni che possano garantirla, e al contempo minare la fiducia nell’altro, il quale non è visto più come un’occasione di confronto ma come un potenziale nemico. Ma non c’è società senza fiducia, nessuna esistenza sociale è data senza un minimo di affidamento al prossimo.
Dovremmo forse avere meno ossessione per la sicurezza, agire con la consapevolezza che la vera Sicurezza si può avere solo con la morte. E riflettere dunque sul senso di respingere (rinviare?) la possibilità di morire sacrificando a ciò tutta la bellezza delle nostre vite, al punto di imprigionare i nostri sogni e le nostre aspirazioni in gabbie fatte di solitudine e paura.
Perché, come scrive Preciado, la guarigione e il recupero non possono essere un puro gesto immunologico di ritiro dal sociale, di chiusura della comunità. La guarigione e la cura non possono che essere un processo di trasformazione politica che passa in primis per la partecipazione collettiva e la fiducia verso il prossimo. Come una comunità politica non può essere creata dai confini che producono sovranità e biosorveglianza, così una coesistenza pacifica e solidale richiede di andare oltre i confini nazionali e mettere in atto nuove forme di cooperazione planetaria.
Se dunque, da un lato, la diffusione del nuovo nemico invisibile ha reso inconsistenti quei muri edificati dalla paura con la promessa di difendere i cittadini dai pericoli esterni, svelandone la natura effimera, tipica di ogni spettacolo mediatico che fa del migrante il perfetto capro espiatorio in una società dove chi ha perso reddito e futuro rischia di diventare la maggioranza. Dall’altro, dovremmo leggere le informazioni della situazione ‘irrespirabile’ negli ospedali e sulla mancanza di ossigeno dei pazienti in correlazione con i dati sull’aria delle città meno inquinata e le immagini degli animali selvatici che tornano ad abitare gli spazi urbani. Non si tratta di un rapporto di causa effetto, ma di certo può aiutarci a riflettere sulla necessità di rimedi contro l’asfissia capitalistica che toglie ossigeno con l’avanzata della crescita e del profitto.
L’emergenza in atto dovrebbe ricordarci che esistere non significa essere radicati nella terra, possedere, bensì respirare nell’aria. Come scrive Donatella Di Cesare, ‘esistere è respirare. È l’esistenza che viene fuori, che si decentra, migra, inspira l’alito del mondo e lo espira, lo proietta fuori di sé, s’immerge e riemerge, partecipando così alla migrazione e alla trasformazione della vita’ (p. 25). Perché l’emergenza sanitaria passerà, e probabilmente non sarà l’ultima. Lascerà molte vittime sul campo, per le quali occorre nutrire profondo rispetto. Ma starà a chi resta il compito di rimboccarsi le maniche e re-immaginare il lavoro da fare. In primis inventando narrative diverse per definire quel che è accaduto, sperimentando schemi e discorsi capaci di aprire nuove possibilità di solidarietà e giustizia sociale, senza più ignorare un comune destino di vulnerabilità. Un destino, volenti o nolenti, senza frontiere.
Foto di copertina: NoPlanetB COP24 Alexander Gerst/Flickr (CC BY-NC-ND 2.0)