Dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni americane del novembre scorso, la preoccupazione per il futuro del pianeta è più diffusa che mai. Come evidenziano i sondaggi alla vigilia del suo insediamento, un numero crescente di americani è convinto che la propria famiglia, insieme a molte altre nei paesi in via di sviluppo, subirà le conseguenze negative dei cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, numerosi scienziati da ogni parte del mondo hanno espresso il proprio sdegno contro la posizione negazionista del presidente sul riscaldamento globale e contro la sua nuova e pesante stretta sulle agenzie scientifiche governative.
Quest’ondata di sensibilizzazione e attivismo è senz’altro incoraggiante, ma il rischio è di perdere di vista la posizione sempre più precaria dei rifugiati ambientali presenti nel mondo. Le previsioni che vedono New York e Londra finire sommerse nel giro di pochi decenni occupano da tempo i titoli dei giornali. Al contrario, le conseguenze dei cambiamenti climatici che hanno già provocato la scomparsa di case e mezzi di sussistenza in Bangladesh o nelle isole Kiribati, Tuvalu e Salomone trovano poco spazio nella recente levata di scudi. Concentrandosi solo sugli effetti a lungo termine dell’inquinamento atmosferico e dell’acidificazione degli oceani, sia politici che contestatori rischiano di escludere dal dibattito le voci e le scelte dei rifugiati ambientali di oggi.
Le conseguenze delle politiche di Trump per i rifugiati ambientali
È difficile ignorare l’impatto negativo che avranno su di loro le politiche di Trump, non ultima l’imminente uscita degli Stati Uniti dall’Accordo sul clima di Parigi. Myron Ebell, il negazionista climatico a capo della squadra di transizione dell’Environmental Protection Agency (ente governativo americano per l’ambiente), ha dichiarato che il presidente ha intenzione di annullare l’impegno per la riduzione dei gas serra assunto da Barack Obama nel 2015, con un ordine esecutivo che potrebbe essere presentato a giorni. Questo è preoccupante per vari motivi.
In primo luogo, potrebbe portare altri firmatari dell’Accordo di Parigi a venir meno ai propri impegni. Sebbene sia improbabile che gli altri stati si ritirino formalmente, la mancanza della pressione politica degli Stati Uniti potrebbe indurli a superare di gran lunga le proprie quote di emissioni, con effetti generalizzati sull’ambiente che andrebbero ben oltre le singole scelte dell’America. In secondo luogo, anche se il successore di Trump dovesse realizzare una riforma ambientale su vasta scala, l’impronta di carbonio generata durante questa amministrazione potrebbe spingere il riscaldamento globale oltre il punto di non ritorno. Il comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici dell’Onu sottolinea che se la temperatura media terrestre dovesse superare i 2°C, le conseguenze per l’atmosfera sarebbero istantanee e irreversibili, costringendo le politiche successive a cercare di adattarsi alla catastrofe climatica, anziché prevenirla.
L’azione congiunta di questi fattori ha enormi ripercussioni sull’innalzamento del livello del mare. Sei delle Isole Salomone già parzialmente erose sono finite sott’acqua nell’ultimo anno, e secondo le previsioni dell’Onu il 15% delle isole del Pacifico spariranno con un ulteriore innalzamento di un solo metro. Purtroppo, senza la guida degli Stati Uniti, è improbabile che i programmi per il reinsediamento degli abitanti di queste terre vadano a buon fine.
La tendenza radicata a concentrarsi sulle persone in fuga dalle zone di conflitto o sui profughi alle proprie porte
Ma le recenti politiche di Trump non sono l’unica minaccia che incombe sui paesi a rischio. I pericoli a cui devono far fronte sono aggravati dalla tendenza ben più radicata negli stati ricchi e nelle comunità di sviluppo a concentrarsi sulle persone in fuga dalle zone di conflitto o sui profughi alle proprie porte. Già nel 2008, i commentatori definivano i rifugiati ambientali “un popolo dimenticato”, perennemente estromesso dai tavoli di discussione sul problema dei migranti, penalizzato soprattutto dall’assenza di un riconoscimento legale o di un piano di reinsediamento a lungo termine dell’UNHCR. Malgrado i richiami all’urgenza dell’amministrazione Obama durante lo scorso anno, le vite colpite dai cambiamenti climatici restano in sostanza nel dimenticatoio. Persino gli studiosi del problema tendono a mettere in risalto i rischi futuri per i paesi più grandi rispetto alle perdite che i più piccoli stanno già subendo, mentre le campagne politiche su entrambe le sponde dell’Atlantico, con la loro coda di aspre polemiche, hanno come unico oggetto i popoli in fuga dalle guerre e dalla povertà, ma non dai mutamenti del clima.
Le istanze più pressanti della migrazione forzata mettono in secondo piano i rifugiati ambientali, ignorando le sfide eccezionali (e a tutt’oggi insuperabili) che sono costretti ad affrontare. In questo modo si perde anche un’occasione preziosa per riconoscere che il clima è, almeno in parte, responsabile delle crisi che noi occidentali conosciamo meglio. O per lo meno, come sostengono i ricercatori e riconosce l’UNCHR, i cambiamenti climatici contribuiscono ad aggravare una situazione già negativa. In molti hanno cercato di individuare le possibili ragioni di questa disparità di trattamento, tra cui: la mancanza di uno status ufficiale per i rifugiati climatici, gli interessi divergenti tra nord e sud del mondo, i dibattiti sulla definizione stessa di “rifugiato ambientale”, l’attenzione sempre più scarsa che l’informazione riserva al clima e il fatto che le vittime più colpite in questo momento siano persone di colore. Qualunque sia la causa, la nostra riluttanza a confrontarci con i bisogni e le storie dei migranti ambientali rende le risorse politiche, finanziarie e tecnologiche della comunità internazionale sempre più irraggiungibili.
La mancanza di supporto internazionale ha costretto molti stati insulari a gestire il reinsediamento in autonomia, il più delle volte a spese dell’autodeterminazione e del patrimonio culturale. Le isole Kiribati hanno da poco acquistato un piccolo terreno nelle Fiji per ospitare i loro 100.000 e più cittadini, quando la loro terra diverrà inabitabile. Le Maldive hanno un piano simile, che prevede la creazione di un fondo sovrano per acquistare appezzamenti in Sri Lanka o in India; dal canto suo, l’Indonesia si è offerta di “affittare” alcune delle sue 17.000 isole alle comunità costrette a lasciare il proprio paese. Sono state valutate anche altre possibilità, più anticonvenzionali: la Polinesia Francese ha firmato questa settimana un accordo con il Seasteading Institute per lo sviluppo di vere e proprie isole o comunità galleggianti. Queste soluzioni potrebbero risolvere il problema nell’immediato, ma impallidiscono a confronto con le sistemazioni decisamente più stabili che siamo soliti offrire ai profughi “tradizionali”. Aspettandoci che i rifugiati ambientali organizzino il proprio futuro da soli, non solo veniamo meno ai nostri doveri umanitari, ma rifiutiamo anche di assumerci la responsabilità degli effetti più gravi e tangibili dei cambiamenti climatici.
Soluzioni diverse e più eque saranno possibili solo con il supporto e la collaborazione della comunità internazionale. Per questo motivo, quando protestiamo contro le politiche ambientali di Trump, dobbiamo sforzarci di dar voce a chi ne subisce davvero le conseguenze. I rifugiati ambientali stanno già lottando per farsi sentire. È nostro dovere ascoltarli.
Traduzione di Lucrezia De Carolis