Un processo penale si compone di due parti: la prima è diretta alla verificazione fattuale; la seconda è un’operazione di verificazione giuridica. In primo luogo i giudici dovranno accertare se un determinato fatto è stato commesso. In secondo luogo se quel fatto corrisponde a un’ipotesi di reato. Secondo l’accusa, nel processo che ha visto come imputato Matteo Salvini, i fatti sarebbero rientrati in almeno due fattispecie incriminatrici (sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio). Secondo i giudici, invece, a quei fatti non era sovrapponibile alcuna norma penale. Questo è il processo, un’operazione che non necessariamente ha a che fare con la verità storica ma che, giustamente, molto ha a che fare con la verità processuale. Quest’ultima è sempre revisionabile, mai definita fino in fondo, non necessariamente corrispondente al dato di realtà. È l’esito di accertamenti giudiziari con lo sguardo rivolto al passato e l’attenzione legittima alle garanzie giurisdizionali delle persone imputate. Il giudice non è fino in fondo uno storico. Il suo sarà pure un accertamento storiografico, ma è evidentemente e giustamente condizionato da vincoli giuridiche e garanzie.
Se queste sono le dovute premesse teoriche e normative, ne conseguono almeno due considerazioni in relazione al processo Open Arms. La prima è la seguente: un fatto può essere storicamente accaduto anche se non giudiziariamente rilevato come delittuoso. Si leggerà nei libri di storia dei figli dei nostri figli che tutta l’Europa, agli albori del terzo millennio, è sprofondata, insieme al tradizionale alleato americano, nel baratro morale, nell’indifferenza colpevole rispetto alla vita di esseri umani, nella negazione dell’umanità. Si studierà tra qualche decennio che un nugolo di governanti di paesi ricchi, spinti da ondate nazionaliste, identitarie, lasciavano morire in mare decine di migliaia di persone provenienti da paesi poveri nel nome di un egoismo dal sapore tragico. Di tutto ciò potrebbe non restare traccia nella microstoria processuale italiana. Ma sarà una macchia che sporcherà per sempre la fedina morale delle nostre autorità al potere. La seconda considerazione ha a che fare con il nostro sistema della giustizia penale, fortemente selettivo sulla base del ceto, della classe sociale, delle disponibilità economiche delle persone che incontra. Le galere sono piene di persone buttate in carcere per fatti irrilevanti, malamente accertati, senza offrire all’imputato uno straccio di garanzie. Nelle prigioni troviamo immigrati che non sanno neanche perché sono stati imprigionati. Papa Francesco ha parlato di una giustizia penale che a volte ha il sapore rancido del razzismo, come ai tempi funesti della storia nella prima metà del ‘900. Le garanzie assicurate giustamente agli imputati nel processo palermitano non valgono, sfortunatamente, per tutti. Per alcuni significano l’assoluzione, per altri sono una speranza irraggiungibile, in quanto hanno il prezzo di un’insostenibile difesa tecnica.
Dunque, c’è poco da essere amareggiati o da festeggiare. I fatti storici sono quelli che tutti noi vediamo nei mari o lungo le rotte dell’immigrazione. Possiamo definirli reati o mandare assolti chi li ha commessi. Questo è l’esito giudiziario, fatto di tecnicismi, equilibri, meccanismi probatori complessi. Resta, però, il dato storico che si mischia alla valutazione morale. E questo non si nega con una sentenza di primo grado in un processo a Palermo. La sentenza non trasforma i cattivi in buoni. La sentenza si limita a fare un’operazione di verificazione giuridica.