1. Un referendum per cambiare la legge sulla cittadinanza
Si avvicina il referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno. E nonostante gli “inviti a non votare” da parte di diversi membri della maggioranza e delle istituzioni, tra cui il presidente del Senato Ignazio La Russa, attivisti e attiviste di varie origini continuano a mobilitarsi per informare su cosa significa non avere quel riconoscimento.
“La questione della cittadinanza è molto più complessa di quello che ci raccontano, molto meno ideologica, molto più pratica. E ha un impatto su tutti noi. Gen Soli – Italiani senza cittadinanza è il podcast che racconta la quotidianità di chi italiano lo è di fatto, ma non per lo Stato”, si legge su Melting Pot Europa. “Gen Soli – Italiani senza cittadinanza è un podcast scritto e condotto da Maria Russo e Fatima El Mouh”.
Le voci di Selam Tesfai, Ronke Oluwadere, Khadim Loume, e altre persone italiane di varie origini che descrivono le difficoltà e il razzismo strutturale nell’essere ritenuti e ritenute “mai italiani/e abbastanza”, tra le difficoltà nel trovare una casa per via del proprio aspetto “da straniero” e il dover ricominciare l’iter per l’ottenimento della cittadinanza per via di cavilli burocratici che non dipendono da chi fa richiesta
2. Morire in detenzione negli Usa
Una donna haitiana è deceduta mentre era sotto custodia dell’Immigration and Customs Enforcement statunitense (Ice) in Florida.
“Secondo l’ICE, Blaise, entrato negli Stati Uniti in data e luogo sconosciuti, si è scontrato con la US Customs and Border Protection mentre tentava di imbarcarsi su un volo per la Carolina del Nord dalle Isole Vergini americane a febbraio. La CBP ha successivamente emesso un avviso di espulsione accelerata per Blaise, ha dichiarato l’ICE. Ha aggiunto che la ragazza è stata trasferita in custodia dalla CBP in un centro di detenzione a Porto Rico”, riporta Reuters. E ancora: “secondo la testimonianza di un’altra detenuta, Marie Blaise avrebbe iniziato a lamentare dolori al petto a partire dal primo pomeriggio di venerdì 25 aprile, chiedendo più volte di essere visitata da un medico. A quanto emerge dalle prime ricostruzioni, le sarebbe stata misurata soltanto la pressione, e sarebbero stati riscontrati alti livelli di ipertensione. Gli agenti di custodia avrebbero dunque somministrato un medicinale alla donna e le avrebbero intimato di andare a dormire: dopo alcune ore Marie Blaise si sarebbe svegliata gridando aiuto e lamentando forti dolori al petto, come testimoniato dalle sue compagne di cella, venendo infine dichiarata morta dai paramedici alle 8:35 di sera”, scrive il giornalista Davide Longo su Il Manifesto, riportando da Tallahasse, in Florida.
Infine: “quello di Marie Blaise non è peraltro un caso isolato. A partire dallo scorso gennaio le persone morte in un centro di detenzione dell’Ice in Florida sono state almeno tre. Il 20 febbraio Maksym Chernyak, ucraino di 44 anni, ha avuto un infarto in un centro di Miami-Dade, ed è morto dopo che gli agenti di custodia avevano aspettato quasi un’ora prima di chiamare i soccorsi”.
3. Ancora respingimenti sistematici alle frontiere
Il nuovo rapporto Illegal pushbacks and border violence reports del Border Violence Monitoring Network raccoglie testimonianze di prima mano provenienti da diversi paesi per analizzare il modo in cui gli stati dell’Unione Europea (Ue) e altri attori fanno utilizzo della violenza sistemica nei confronti delle persone che attraversano le frontiere.
“Nonostante le sempre più numerose sentenze che condannano il trattamento riservato dalla Grecia ai richiedenti asilo e alle persone in movimento – una in più questo mese, quando l’UE ha dichiarato la Grecia colpevole dell’uccisione di un minore durante una sparatoria contro un’imbarcazione in mare -, il governo sembra completamente disinteressato ad affrontare le disumane condizioni di detenzione che non cessano di portare violenza e sofferenza alle persone in movimento nel Paese. Anche la grave mancanza di accesso all’assistenza sanitaria e alla salute mentale continua a essere un problema per le persone che vivono nei centri [di detenzione] di Kos e Samos, con persone che trovano ostacoli a ricevere questo tipo di assistenza anche al di fuori delle strutture, a causa della discriminazione e delle barriere linguistiche, tra le altre ragioni”.
Erano quasi 90.000 gli afghani legalmente registrati nella provincia del Punjab tra il 2017 e il 2018. Rilasciate solo in quell’anno, le carte non davano loro diritto a servizi, ma permettevano loro di rimanere legalmente nel Paese. Il 29 gennaio di quest’anno la situazione è cambiata improvvisamente, quando il governo pakistano ha annunciato che tutti i titolari della Carta della Cittadinanza Afghana (Cca) sarebbero stati immediatamente espulsi, insieme a tutti gli altri afghani non registrati.
Infine: “Le Nazioni Unite hanno affermato che le espulsioni affrettate non tengono conto degli anni, se non addirittura dei decenni, che i titolari dell’ACC hanno trascorso in Pakistan. Avrebbero dovuto avere più tempo, ha dichiarato […] Qaisar Afridi, portavoce dell’Unhcr in Pakistan. È un preavviso troppo breve per chi ha un’attività qui e i cui figli studiano qui”.
5. Un’altra tragedia in mare a Lampedusa
I corpi di due bambini di appena due anni sono stati ritrovati sulla costa di Lampedusa. Con loro anche un adulto di 30 anni.
“Sarebbero morti di fame e di sete mentre erano a bordo di un gommone di 8 metri, salpato mercoledì scorso da Zawia in Libia, assieme ad altre 57 persone, rimasto alla deriva fino a quando ieri pomeriggio sono stati soccorsi dalla nave della ong Nadir su segnalazione di Frontex”, si legge sull’Ansa. E ancora: “tra i superstiti ci sono 13 donne e due minori di Gambia, Ghana, Niger, Sierra Leone, Nigeria e Togo; sei di loro sono stati portati al poliambulatorio dell’isola per ustioni sul corpo. Ai soccorritori hanno riferito che durante la traversata, in acque Sar maltesi, un uomo si sarebbe gettato in acqua per cercare refrigerio, forse aveva delle ustioni procurate dal contatto con il carburante, e a causa del mare agitato non sarebbe riuscito più a risalire sul gommone”.
6. Rapido aumento del numero di rifugiati sudanesi in Ciad
In una dichiarazione, l’Unhcr ha affermato che circa 20.000 persone, per lo più donne e bambini esausti e traumatizzati, sono arrivate nel Ciad orientale. L’aumento più significativo è stato registrato al valico di frontiera di Tiné, nella provincia di Wadi Fira, dove sono arrivate quasi 6.000 persone in soli due giorni, ha affermato l’Unhcr.
“Dal 21 aprile, sono state contate oltre 14.000 persone a Wadi Fira, di cui 12.000 la scorsa settimana, ma anche 5.300 persone a Ennedi Est nelle ultime due settimane, di cui 1.000 solo domenica, ha dichiarato Magatte Guisse, rappresentante dell’Unhcr in Ciad […]. Questo afflusso improvviso riflette l’escalation di violenza nella regione del Darfur settentrionale in Sudan, in particolare a El Fasher e nei suoi dintorni, che sta innescando sfollamenti di massa a un ritmo allarmante” si legge su Info Migrants.
E ancora: “l’organizzazione ha affermato che gli sfollati giunti in Ciad riferiscono che oltre 10.000 persone sono ancora in viaggio, nel tentativo disperato di raggiungere il confine per sfuggire alla violenza. Molti dei rifugiati appena arrivati riferiscono di aver subito gravi violenze e violazioni dei diritti umani che li hanno costretti a fuggire. Si parla di uomini uccisi, donne e ragazze vittime di violenza sessuale e case rase al suolo. Il loro viaggio verso la salvezza è stato pericoloso, con i rifugiati che hanno dovuto affrontare rapine ed estorsioni ai posti di blocco e ripetute minacce lungo il percorso […]”.
7. I nostri nuovi articoli su Open Migration
Secondo i dati raccolti dall’ong svizzera Impact, i rientri nelle aree entro i 30 km dal fronte costituiscono circa un terzo dei ritorni complessivi di sfollati interni dal febbraio 2022 ad oggi (circa 1.6 milioni di persone). In particolare, nei primi sei mesi del 2024, nonostante il peggioramento delle condizioni di sicurezza, i ritorni nei pressi della “front line” sono stati l’11% del totale. Le motivazioni sono diverse, e includono l’erosione delle risorse disponibili per sostenersi altrove, ma anche il bisogno emotivo di tornare da persone e luoghi familiari indipendentemente dal rischio che si corre. Le famiglie di sfollati interni e quelle rientrate dall’estero sono state classificate come aventi bisogni umanitari superiori del 25% rispetto a quelle non sfollate. Ce ne parla Ilaria Romano.