Uno “scatolone di sabbia”
Gaetano Salvemini, nel 1911, era una delle poche voci che si levavano contrarie alla deriva imperialista dell’Italia: “Sia il quando, sia il perché, sia il come della impresa libica non si spiegano”, scriveva, “se non tenendo presenti la incultura, la leggerezza, la facile suggestionabilità, il fatuo pappagallismo delle classi dirigenti italiane”. Dalle colonne de “La Voce”, definì la Libia uno “scatolone di sabbia” – mentre gli altri inneggiavano alla rinascita dell’imperialismo di Roma, agli antichi fasti ritrovati, alla patria capace di imporsi sul proscenio delle potenze coloniali. ll “fatuo pappagallismo” di cui parlava prevalse sulla ragione.
La fragorosa caduta di Gheddafi, soprattutto per mano francese, ha aperto un vuoto di potere in Libia che a tutt’oggi appare incolmabile. Il vero “pull factor” che ha spinto negli ultimi due anni quasi 400 mila persone a prendere un barcone per raggiungere l’Italia è proprio l’anarchia che regna in Libia. Il potere sancito dall’Onu del Governo d’accordo nazionale di Fayez al-Serraj (Gna) è messo in discussione su vari fronti: la presenza in Cirenaica del generale Khalifa Haftar, le milizie dell’Isis che vogliono un Califfato anche in Nord Africa, le spinte autonomiste nel Sud ridotto a terra di nessuno. E l’Unione europea, l’Italia in testa, pretende di avere la forza per rimettere ordine in questo caos, al fine di disinnescare il “pull factor” libico e costringere i migranti a fermarsi in Nord Africa. Un’impresa.
“La Libia non è la Turchia”, diceva il 5 luglio il ministro dell’Interno Marco Minniti nella sua informativa al Parlamento. Il sottotesto è che a Tripoli non è possibile siglare un accordo fra lo Stato e l’Unione europea sul modello di quello che Bruxelles ha siglato con la Turchia per chiudere la rotta balcanica. Semplicemente perché a Tripoli lo Stato non esiste. Però l’Europa in Libia ha già messo oltre 300 milioni di euro.
Ad agosto si è celebrata con grande fanfara la drastica diminuzione delle partenze verso l’Italia. Se ad agosto 2016 gli sbarchi erano stati 21.294, ad agosto 2017 sono stati meno di 4 mila (dati del Viminale). Il presidente francese Emmanuel Macron ha già parlato dell’accordo Italia-Libia come di un “modello”, ma la realtà è che in Libia si continua a morire: soprattutto nei centri di detenzione e nel deserto. E di dati precisi, in questo caso, non ce ne sono. L’impressione è che dietro l’interventismo del XXI° secolo ci sia la stessa miopia del vecchio Novecento: nell’immediato, per l’Italia ci sono anche benefici. Ma a lungo termine? Chi ne approfitta davvero sono i padroni dei traffici della Libia.
“Facile suggestionabilità” – l’Operazione Sophia
“Quello che mi stupisce è la poca preparazione dell’Europa sulla Libia. La missione Eunavfor Med si basa proprio su questa carenza di informazioni”: lo sostiene Mark Micallef, giornalista e ricercatore che da anni lavora sui trafficanti di esseri umani in Libia. “Nonostante i viaggi, ho sempre l’impressione di grattare solo la superficie”.
Eunavfor Med, nota come Operazione Sophia, è la missione militare che l’Alto commissario agli Affari esteri della Commissione europea Federica Mogherini ha lanciato per fermare i trafficanti di esseri umani che dalla Libia portano i migranti sulle coste italiane. Nata nel 2015, la missione è suddivisa in quattro fasi, come si legge nel sito del Ministero della Difesa. Al momento è in corso la fase 2, che prevede, dopo la raccolta di informazioni, il fermo, l’ispezione e il sequestro delle navi dei migranti. La fase 3, che per avviarsi avrà bisogno di una nuova risoluzione dell’Onu, prevede di “neutralizzare le imbarcazioni e le strutture logistiche usate dai contrabbandieri e trafficanti sia in mare che a terra e quindi contribuire agli sforzi internazionali per scoraggiare gli stessi contrabbandieri nell’impegnarsi in ulteriori attività criminali”. Finora Sophia, che il 31 agosto è passata dalla guida italiana a quella spagnola, ha prodotto il rinvio a giudizio di 117 sospetti “trafficanti” e la distruzione di 477 barconi per impedirne il riutilizzo.
La missione è stata prorogata fino alla fine del 2018. In questi due anni, però, non è riuscita a interrompere la filiera del traffico di uomini. Le operazioni di intelligence non hanno svelato nessuna “cupola della tratta”, perché le reti del traffico di uomini, per quanto sempre più strutturate, sono a gerarchie variabili. Secondo la Gran Bretagna, Eunavfor Med è un indiscutibile fallimento, come si legge nel report della Commissione sull’Unione europea della Camera dei Lord. Un primo report giungeva alla stessa conclusione già nel maggio 2016. La Camera alta inglese spinge perché la missione raggiunga la fase 3 e quindi l’intervento anche a terra; secondo i Lord, solo questo potrebbe finalmente avere un effetto concreto sulle reti di trafficanti.
I signori del traffico di esseri umani
Secondo gli inglesi, coloro che sono stati arrestati finora appartengono agli ultimi anelli della catena delle organizzazioni criminali. Ed è vero che i risultati dell’Operazione Sophia non hanno scalfito il gotha dei trafficanti, cioè il gruppo che ha trasformato in vero business quella che prima era una fonte di sostentamento. Colpire questa rete solo in mare, poi, è inutile, visto che parte dal Sud della Libia, il vero centro nevralgico del traffico. Da quelli che erano semplici gruppi isolati, ora le cellule del traffico di esseri umani si sono organizzate: hanno assetti che possono rimanere “a conduzione familiare” (come spesso accade nel Sud), oppure assumere strutture gerarchiche che ricordano quelle delle organizzazioni criminali.
Esmail Aburazak, eritreo, è il trafficante più longevo. Da più di un decennio ha una rete di collaboratori tra Libia e Sudan. Oltre che sul traffico di migranti, come tutti i veri boss guadagna anche sui riscatti dei sequestri di persona. Ha agganci in tutto l’apparato di sicurezza libico. Durante un interrogatorio, il pentito Nuredin Weharabi Atta lo ha definito “il re” dei trafficanti.
A testimonianza di quanto sia difficile colpire i pezzi grossi del traffico di uomini, c’è la vicenda che riguarda l’arresto di Medhanie Yerego Mered. La maxi operazione condotta dalla procura di Palermo con l’aiuto della National crime agency (Nca) britannica doveva essere la prima di una lunga serie destinata a colpire gli uomini più importanti dello smuggling. Invece, come appurato da numerose inchieste giornalistiche (italiane e non solo), in cella dal giugno 2016 c’è la persona sbagliata: invece che un trafficante di 36 anni, c’è un falegname di 25, colpevole solo di essere omonimo di quello che in Libia è soprannominato il Generale.
Un altro pezzo grosso del traffico di esseri umani è Ahmed al Dabbashi, aka Alamu, leader delle brigate Anas al Dabbashi (intitolate a un jihadista appartenente alla sua stessa famiglia), trafficante di greggio e armi, nonché addetto alla sicurezza della Mellitah Oil & Gas, una joint venture di Eni. Sabratha è cosa sua. Secondo il Consiglio di sicurezza dell’Onu, fino al 2016 la sua brigata ha combattuto a fianco dell’Isis, ma ora è rivale dello Stato Islamico. In questa fase di anarchia, la famiglia Dabbashi è tra le più in vista del paese: Ibrahim è stato dal 2013 al 2016 ambasciatore libico all’Onu; Abdullah, suo cugino, nome di battaglia Abu Maria, è il leader dei jihadisti (forse ucciso in aprile dagli americani, oppure da rivali libici, tesi sostenuta con un video di Facebook); Mostafa, invece, fino al 2015 è stato ministro dell’Interno sotto il governo di Abdullah al Thinni.
Altro personaggio del gotha dei trafficanti, sul quale circolano pochissime informazioni, è Mussab Abu Ghrein, alias Doctor Mussab. Si tratta di un ricco uomo d’affari libico che si è dato al traffico di esseri umani, in particolare di chi viene dal Sudan, mentre la rotta dal Niger è appannaggio del suo “collega” al Dabbashi. Tutti questi personaggi sono liberi di lasciare il paese per viaggiare soprattutto nei paesi del Golfo (in particolare Dubai), dove nascondono i loro tesori.
Il capo della Guardia Costiera di Zawyia è un trafficante di uomini
Il vuoto di potere è un ossimoro. Non può esistere a lungo. Dove si crea, il potere si moltiplica, si frammenta e spesso si contende. Questo dato di fatto elementare sembra non esistere nei ragionamenti delle cancellerie europee, che pensano di rimettere ordine in Libia con la semplice elargizioni di soldi, autorità e supporto – cioè pagando qualcuno per diventare potente. E quale effetto provocherà l’arrivo di tanti soldi in un contesto così povero, sotto ogni punto di vista? A chi finiranno davvero i soldi della cooperazione?
Già ciò che chiamiamo “Guardia Costiera libica” è un’entità frammentaria. Come sappiamo, ne esistono diverse. Le principali si trovano a Zawiya, Sabratha e Tripoli. Nessuna ha una “giurisdizione nazionale” e soprattutto ognuna di queste è legata a una preesistente milizia. Se Sabratha è la terra dei Dabbashi, a Zawiya c’è Abd al-Rahman Milad (alias Al Bija), ufficialmente riconosciuto come capo della Guardia costiera cittadina, e per questo meritevole della formazione Ue. Eppure, lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo indica come trafficante di esseri umani (a farlo per prima, sei mesi fa, era stata la collega Nancy Porsia, per anni corrispondente dalla Libia).
Lo stesso Consiglio di sicurezza dell’Onu ha riconosciuto che due uomini di Al Bija, il 17 agosto 2016, hanno sparato contro una nave dell’Ong Msf. Al Bija si è difeso ai microfoni della Rai (intervistato da Amedeo Ricucci per “L’imbroglio”, uno reportage dello Speciale Tg1) sostenendo di essere l’unico che in realtà sta sequestrando navi e motori, mentre da Tripoli nessuno della Guardia Costiera interviene. Al Bija insiste anche sulle perdite tra i suoi uomini provocate dagli scontri con i trafficanti. Ormai, però, il suo nome crea imbarazzi, in qualunque ufficio del governo libico.
“L’incoltura, la leggerezza” – cosa succede nel Sud
L’accordo che l’Italia ha siglato ad aprile con il governo di Fayez Serraj è un Memorandum d’Intenti per il contrasto dell’immigrazione irregolare. In sostanza, formazione e denaro in cambio di un maggiore filtro. Secondo Mark Micallef, in Libia i trafficanti fanno poche distinzioni tra il lavoro “da freelance” e quello pagato con i soldi dell’Europa: in fondo, l’unica differenza è che nel primo casi i migranti vengono imbarcati, nel secondo vengono portati indietro e rinchiusi nei centri di detenzione.
Minniti ha detto al Parlamento che il compito dell’Italia è far funzionare gli accordi, ma la verità è che fino ad oggi non ci è mai riuscita, almeno dal 2008: all’epoca era il Trattato di amicizia Italia-Libia, con Silvio Berlusconi. Da allora gli equilibri sono cambiati, così come i poteri in campo. Tre mesi dopo la firma del memorandum, è cominciata la formazione della Guardia costiera libica, e una nuova cooperazione nel Sud di cui Minniti va molto fiero. È il terzo punto della sua strategia per contenere l’emergenza migranti: costruire dei confini nella terra di nessuno dove il deserto del Niger si mescola con quello libico. Minniti ricorda l’incontro organizzato a Roma con le tribù di Tebu, Tuareg e Suleiman per “portare la pace”. Sempre a suon di denaro: i fondi sono contenuti nel Piano per l’Africa dell’Italia (200 milioni di euro per tutto il continente) e la Commissione stanzierà in Libia 364 milioni di euro per i progetti legati ai migranti (per ora ne sono stati effettivamente spesi meno di un decimo). “A Sud si combatte incessamente dalla caduta di Gheddafi. Non so quale effetto possa provocare l’arrivo improvviso di grossi fondi europei in un contesto del genere”, commenta Micallef.
Nel Sud non ci sono padroni: per ricercatori e giornalisti stranieri anche raccogliere informazioni è impossibile. Ci sono piccoli autogoverni basati sui clan, che fanno del traffico di esseri umani uno dei loro rami d’affari, ma non necessariamente il principale. Si spacciano anche armi e petrolio, nel Sud. Ci sono centri abitati dove si stanno riorganizzando forze fedeli allo Stato Islamico, che sembrava rintanato a Derna dopo la caduta di Sirte, la vecchia capitale dell’Isis in Libia.
Nella regione del Fezzan, nel cuore del Sahara a sud della Tripolitania, hanno trovato riparo anche pericolosi gruppi armati dei paesi confinanti. Come il ciadiano Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (FACT), nel distretto di Jufra. In Libia, dal dicembre 2016, è considerato vicino alle milizie di Misurata. Secondo il portavoce dell’esercito sudanese, in Libia ci sarebbero anche truppe ribelli del Darfur, le quali parteggerebbero per il generale Haftar. A quanto sostiene il portavoce dell’esercito sudanese, queste guadagnerebbero con i sequestri di persona. In certi casi, alcuni prigionieri sono stati liberati con riscatti pagati dagli uomini di Haftar, in cambio della promessa di combattere per il generale ribelle. Ed è qui che dal 2008, come previsto dall’articolo 19 del Trattato di amicizia Italia-Libia dell’epoca Berlusconi, l’Italia ha messo sul piatto un progetto da 300 milioni di euro per realizzare – con Selex, oggi società assorbita nel Gruppo Leonardo, ex Finmeccanica – un confine fatto di sensori, droni, e radar che oggi si vorrebbe come barriera ai migranti. E del quale, in dieci anni, non è ancora stato realizzato nulla.
Nota: una precedente versione dell’articolo riportava erroneamente che l’accordo dell’Italia era stato stipulato con il Libyan National Army controllato dal Gna di Al Serraj e non direttamente col Gna, la versione ora corretta è quella esatta.
In copertina: un’operazione di Eunavfor Med in mare aperto contro presunti scafisti (foto: Eunavfor Med)