I dati sui minori stranieri arrivati in Italia via mare nel 2016, diffusi a inizio gennaio dal Ministero dell’Interno, e poi ripresi da ong e associazioni, hanno fatto levare più di una voce. Per Massimiliano Fedriga, capogruppo di Lega Nord alla Camera, una gran parte dei “quasi 26 mila finti minori stranieri arrivati in Italia nel 2016 non sono in realtà bambini, ma adulti che si spacciano per minori”. Una posizione già espressa in altre occasioni dai vertici della Lega, e che Fedriga e colleghi giustificano con la statistica: “solo il 7,5% ha meno di 14 anni, mentre l’81% ha tra i 16 e i 18 anni”. Sarebbe insomma facile, per un diciottenne, dichiarare un’età inferiore, per “godere delle protezioni riservate ai minori”. Gli stessi dati disponibili, e i molti (forse troppi) ancora non raccolti, raccontano però altro.
Cifre sottostimate e incertezza sull’età
Sono 25.846, secondo il Viminale, i minori stranieri non accompagnati sbarcati in Italia lo scorso anno. Una cifra “record”, che raddoppia quella dell’anno precedente. 17.245 erano invece i minori registrati in strutture d’accoglienza o presso privati affidatari al 30 novembre 2106 secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Anche in questo caso siamo di fronte al dato più alto di sempre: erano oltre 11 mila i minori stranieri soli ospitati a fine 2015, già in crescita rispetto ai 5.942 del gennaio 2014.
Fin da qui i conti però non tornano, o meglio non bastano. Per Erminia Rizzi, socia di Asgi – Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione, “non spiegano assolutamente il fenomeno, perché sono sottostimati e nascondono la complessità di una situazione esplosiva”. A non essere conteggiati, sottolinea Rizzi, sono in primo luogo “quei minori che entrano via terra da Austria e Slovenia, che si nascondono nelle navi per passare l’Adriatico o che arrivano per via aerea”.
Numeri che non sono effettivamente disponibili, come ha dichiarato Maria Caprara, responsabile della Struttura di missione per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati del Ministero dell’Interno, ascoltata a inizio gennaio dalla Commissione parlamentare d’inchiesta su Cie, Cara e centri d’accoglienza. Ma non trascurabili: la terza nazionalità fra i minori accolti, dopo egiziani (2.801) e gambiani (2.252) è infatti quella albanese, con 1.573 presenze.
Albanesi, e con loro afghani, bengalesi, pakistani e kosovari, che contano insieme per il 20 per cento degli accolti e entrano in Italia soprattutto via terra, non sono insomma inclusi nei “quasi 26mila” minori del 2016. Mancano poi, evidenzia l’avvocata Rizzi, “tutti quei ragazzi dichiarati erroneamente maggiorenni allo sbarco”. L’attribuzione dell’età è infatti uno degli aspetti più critici del sistema di tutela italiano. Tanto che una proposta di legge, elaborata nel 2014 con la consulenza di Save The Children, ed oggi bloccata al Senato, partirebbe proprio da qui.
“Con la nuova legge”, spiega Fosca Nomis, responsabile advocacy di Save The Children Italia, “si renderà più chiaro un sistema oggi frammentato, che porta a prassi difformi per l’accertamento dell’età, l’accoglienza e l’affidamento familiare”. In casi incerti, “l’età andrà infatti valutata nei centri di prima accoglienza, in un contesto più raccolto, con mediatori culturali”. Nonostante leggi e sentenze “per cui, se ci sono dubbi, va assegnata la minore età”, aggiunge Erminia Rizzi, prevale infatti ancora “la cosiddetta misura del polso, tramite radiografia, ormai ritenuta scientificamente inadeguata, e da sostituire con esami multidisciplinari”.
“Non è raro”, racconta Carla Trommino, garante dei diritti dell’infanzia per la provincia di Siracusa, che “ragazzini che, pur avendo documenti d’identità con fotografia che riferiscono la minore età, siano dichiarati maggiorenni dopo lo sbarco”. Il paradosso, per Rizzi, “è che le forze di polizia diffidano di chi si dichiara minorenne, predisponendo accertamenti o attribuendo di default la maggiore età, ma non fanno lo stesso per i molti minori che, pur mostrandosi più giovani, dichiarano 18 anni perché così gli hanno indicato trafficanti o sfruttatori”. Non, quindi, “finti minorenni”, per riprendere la definizione della Lega Nord, ma piuttosto finti maggiorenni, più ricattabili perché meno tutelati, almeno sulla carta.
In fuga dalle strutture, troppi i “minori scomparsi”
Se stabilire quanti minori stranieri non accompagnati entrano in Italia è insomma estremamente complicato, di più facile lettura – e preoccupanti – appaiono i dati sui “minori scomparsi”. Sono 6.508 (dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) i ragazzini allontanatisi dalle strutture e segnalati alle prefetture nei primi 11 mesi del 2016. Fra le prime nazionalità si contano egiziani, eritrei e somali. I primi, spiega Fosca Nomis, “sono spesso molto giovani e subiscono pressioni fortissime dalle famiglie per inviare soldi a casa, finendo nelle mani di reti criminali che li sfruttano a livello lavorativo, sessuale o in attività illecite”.
Eritrei e somali sono invece in contatto con passeurs e, prosegue la referente di Save The Children, “devono pagarli per raggiungere altri paesi, dove hanno reti familiari o amicali”. Per gli eritrei in particolare, che sono la prima nazionalità fra i minori sbarcati, con 3.714 presenze (dato Fondazione ISMU), “le fughe dalle strutture si potrebbero ridurre realizzando veramente la relocation verso altri paesi UE”. Circa 4000 ragazzini, eritrei e in misura minore siriani, potrebbero essere inseriti in un programma che, se per gli adulti ha avuto esiti minimi, per i minori non è mai partito.
“Dal Viminale dicono che si sbloccherà presto”, sostiene l’avvocata Anna Brambilla, membro di Asgi, “ma è evidente che, dopo mesi di attesa senza notizie, molti si rimettono nelle mani dei trafficanti, per raggiungere i confini nord del paese”. È solo a Roma, nella struttura A28, gestita dalla ong Intersos, che possono trovare un’ospitalità temporanea dedicata. “Lavoriamo al limite della legalità”, dichiara con ironia Valentina Murino, responsabile del centro, “ma veniamo incontro a un bisogno, e dal 2011 abbiamo accolto 3500 minori, prima afghani e oggi soprattutto eritrei, ragazzini di 15-16 anni che stanno in media 4-5 giorni, prima di continuare verso nord”.
Ed è lì, a ridosso del confine delle Alpi, in un gioco a nascondino snervante e troppe volte letale, che molti si arenano. Sempre Intersos, con la partnership di Unicef, avvierà a breve a Ventimiglia uno sportello informativo mobile, perché – nelle parole del referente Alessandro Verona – “i minori che arrivano qui non hanno informazioni legali sui loro diritti, e questo espone a maggiori rischi, come ci dice la storia di Milet Tesfamariam, uccisa da un tir lo scorso ottobre lungo il tunnel dell’autostrada, a 17 anni”. E se oggi i numeri sono bassi, “fra 2-3 mesi la situazione sarà molto più difficile”.
Anche lui eritreo, Abel Temesgen è un altro ragazzino vittima dei confini. “La sua storia”, racconta Anna Brambilla, “illustra bene la filiera di omissioni a cui vanno spesso incontro i minori soli: invitato ad allontanarsi dalla tendopoli per adulti di Messina, dichiaratosi 16enne e poi 21enne, transitato da Roma, dall’hub di Milano, fermato a Bolzano dalla polizia e poi ucciso da un treno in corsa appena fuori dal capoluogo altoatesino e accertato infine come minorenne, da morto”. L’asse del Brennero, come la provincia di Como, il Tarvisio e Bardonecchia sono punti sempre più caldi per i minori in fuga.
Accoglienza, un sistema inceppato
Le fughe chiamano in causa anche il secondo tassello debole del “sistema minori”, dopo l’accertamento dell’età, ovvero l’accoglienza. Per Carla Trommino, Garante per l’infanzia nella provincia con il più alto numero di sbarchi del 2016, grazie al porto di Augusta, “l’attuale compresenza di centri gestiti tramite le prefetture in via straordinaria, centri di prima accoglienza, centri per adulti usati per minori o in modo promiscuo con maggiorenni, crea profonde incertezze nei percorsi dei ragazzi accolti”.
L’iter immaginato dalla Conferenza Stato-Regioni nel 2014 prevederebbe, dopo l’identificazione, il passaggio in un centro di prima accoglienza, in cui avviare la tutela e la nomina del tutore legale e – dopo 60 giorni al massimo – l’approdo in centri gestiti dallo Sprar, in cui i minori siano inseriti in percorsi formativi e sostenuti nell’integrazione, e in un eventuale affidamento familiare. I posti dello Sprar sono però appena 2039, e l’obiettivo di raggiungere i 4.000 sembra lontano, vista la scarsa adesione degli enti locali agli ultimi bandi di gara.
Un imbuto che si scarica sui centri di prima accoglienza, e su centri di primissima accoglienza, aperti dalla scorsa estate nelle regioni di sbarco, spesso in deroga alle norme regionali. Centri in cui si finisce per restare fino ai 18 anni. Mentre è ormai abituale il “trattenimento negli hotspot dove – denuncia Erminia Rizzi – i minori appena sbarcati rimangono isolati per mesi”. Fino a tre in quello di Taranto, secondo l’avvocata, 40 giorni in quello di Pozzallo e sette al massimo nella tendopoli del porto di Augusta.
“È una prima accoglienza spesso ostile, in strutture isolate e con operatori impreparati”, sostiene Gandolfa Cascio, psicologa e coordinatrice degli interventi di Terres Des Hommes per le province di Catania e Siracusa, “che rischia di ri-traumatizzare il minore”. L’attesa indefinita e una burocrazia incomprensibile, “creano un limbo, che replica e amplifica l’eco dei traumi vissuti in Libia: in Sicilia, come nelle carceri libiche, si rimane sospesi da un maybe tomorrow – forse domani – lì la promessa di libertà del trafficante e qui l’appuntamento in questura o per il trasferimento in centri più adatti; in mezzo un tempo vuoto”.Si fugge insomma per proseguire il viaggio, ma anche per disperazione. In una Sicilia che da sola ospita, allo scorso agosto, oltre il 40 per cento dei minori non accompagnati della penisola (dato Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), c’è però chi cerca di creare filiere virtuose. Fra loro la “Casa delle culture” di Mediterranean Hope, progetto della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, che ospita fino a 50 minori nel centro storico di Scicli, nel distretto ragusano del Barocco.
“Facciamo una cosa in apparenza banale”, dice Valeria Ponente, coordinatrice delle attività educative: “condividiamo con i minori tutti i passaggi burocratici, e lavoriamo con istituzioni e associazioni per creare una filiera di strutture con standard adeguati, anche oltre i 18 anni”. Dall’apertura, a fine 2014, la Casa delle Culture ha ospitato 606 persone, 179 solo nel 2016. Tutti minori inviati dall’hotspot di Pozzallo, poco lontano, “e aiutati, quando possibile, a ricongiungersi legalmente con parenti in altri paesi d’Europa, in percorsi lunghi ed estenuanti”. Anche così si evitano fughe, dagli esiti drammatici. “La grande macchina dell’accoglienza”, sottolinea Ponente, “è però inceppata”. Senza risorse, posti di accoglienza e controlli, rischia di ingolfarsi del tutto.
FOTO DI COPERTINA: European Commission DG ECHO (CC BY-SA 2.0).