È una domenica sera di inizio settembre e le luci fioche delle “fada”, negozi e punti di ritrovo per i giovani, punteggiano le vie accidentate dei quartieri nord di Agadez. Voci sparse si rincorrono nel buio, interrotte dal passaggio dei tuk-tuk gialli, principale mezzo di trasporto pubblico della città nel centro del Niger. Joseph Moussa, che tutti conoscono come Idris, siede su una stuoia in strada, all’ingresso della casa di un cugino. Protetto dal buio e rinfrescato da una brezza delicata, torna su ricordi lontani migliaia di chilometri, eppure vicinissimi, in una regione che non conosce confini, se non quelli – impercettibili e rischiosi – tra comunità, famiglie, commerci.
Il passo di Toummo
Quarantatre anni, fisico asciutto, Moussa mostra quel connubio di tranquillità e vigilanza di molti militari del Sahara, abituati a un clima ostile, ad attese prolungate. Per oltre quattro anni, ha presidiato il passo di Tummo, principale punto di confine tra Niger e Libia, il cui nome circola sempre di più nelle cancellerie europee come luogo chiave per il controllo delle migrazioni. Ora, tornato ad Agadez, dov’è nato, scorre sul cellulare foto dei pattugliamenti nel sud libico e dei quattro figli, che vivono con la moglie a Murzuk, seconda città del Fezzan libico, 1.500 chilometri a nord.
“Hai sentito della presa di Gatrun? Io ero lì, ero uno dei 14”, racconta Moussa, incalzato da un amico. L’azione, nel giugno del 2011, è passata di bocca in bocca, assumendo una dimensione epica fra i giovani di etnia tebu, signori delle piste del Sahara centrale, divise con i tuareg. “Quando sono scoppiate le proteste, il vecchio Barka ci ha detto che Gheddafi andava cacciato, che era un nemico dei tebu e della Libia e così l’ho seguito”. Con pochissimi uomini, Moussa partecipa alla liberazione dalle truppe del raìs della cittadina di Gatrun e dei due centri principali del sud libico, Murzuk e Sebha.
È uno dei fedelissimi di Barka Wardougou, signore della guerra e storico leader delle Fars, le Forze Armate Rivoluzionarie del Sahara, milizia tebu attiva nella ribellione degli anni Novanta nel nord del Niger. “Con Barka, abbiamo fatto la rivoluzione del sud, abbiamo liberato una città dopo l’altra con le nostre mani”, sottolinea Moussa con orgoglio, ricordando la nascita della Katiba Dra Sahara, la brigata degli scudi del Sahara, confluita poi nel Consiglio militare di Murzuk. Nel 2013, quando il Fezzan è già diventato terreno di scontro fra decine di milizie, in una guerra sporca che sembra non finire più, Barka gli chiede “di presidiare il passo di Tummo, al confine fra Libia e Niger, con poche decine di uomini”.
Il confine in mano alle milizie
Fino all’estate del 2017, le giornate di Moussa sono scandite dal passaggio di veicoli carichi di merci e soprattutto di persone, obbligate a pagare una tassa per entrare e uscire dalla Libia. Pochi i pattugliamenti, in un territorio vastissimo. Dei 350 chilometri di confine tra Niger e Libia, i suoi uomini riescono a controllare meno di un quinto. Nel 2015, accompagnano i francesi, che hanno da poco inaugurato una base militare a Madama, nel nord del Niger, in un’operazione lungo la frontiera libica, fra Tummo e il passo di Salvador, 200 chilometri più a ovest. Un passaggio noto per i traffici di droga, alcol e sigarette.
“Appena ci siamo insediati a Tummo, il governo di transizione di Tripoli ci ha dato 15 pickup e poi si sono dimenticati di noi; ma siamo rimasti, senza salario, vivendo delle tasse prelevate ai migranti: la Libia deve ringraziarci, perché abbiamo sequestrato e bruciato carichi di Tramadol e arginato l’ingresso di miliziani jihadisti”. Moussa si sente libico, forse più che nigerino, anche se solo nel 2008, dopo 16 anni di lavoro in Libia, “dove ero andato con il sogno dell’Europa”, ha ottenuto la cittadinanza, dalla quale Gheddafi aveva escluso gran parte dei tebu.
Disilluso dalla mancanza di sostegno, preoccupato dalle divisioni interne fra gli stessi tebu e impoverito dal ridursi del transito di migranti dalla frontiera di Tummo, si è però ritirato a Agadez, lontano dalle tensioni del Fezzan. “Da un anno il numero di migranti è calato, ma il vero cambiamento è recentissimo, da luglio 2017 siamo passati da 20-30 vetture al giorno dirette in Libia, cariche di persone, a cinque, massimo dieci”.
Una diminuzione che deriva, molto probabilmente, dall’aumento del personale nigerino della base di Madama, ultima postazione prima della frontiera, 100 chilometri a sud di Tummo. Da 200 soldati ai 450 attuali, affiancati da circa 200 militari francesi. Ultimo tassello di una progressiva crescita dei controlli anti-immigrazione da parte delle forze di sicurezza del Niger, avviati a settembre 2016 attorno ad Agadez e fra Dirkou, Sèguédine e Dao Timmi, verso la frontiera con la Libia.
Gli ingressi in Libia sono calati?
Eppure, in Libia si è continuato a entrare. I dati citati da Angelino Alfano, uscente ministro degli Esteri italiano, che all’inizio del febbraio 2018 ha parlato di un “calo degli ingressi in Libia, da 290 mila a 35 mila” grazie “all’impegno politico italiano”, raccontano infatti solo una parte della storia. La stessa Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), alle cui statistiche si riferisce Alfano, descrive infatti una situazione completamente diversa: se i passaggi verso nord registrati al posto di blocco di Séguédine, oasi lungo la pista principale fra Agadez e Tummo, sono scesi da 290 mila nel 2016 a 33 mila nel 2017, è anche vero che nell’arco di un mese, da fine dicembre 2017 a fine gennaio 2018, il numero di migranti entrati in Libia e contati attraverso il database Displacement Tracking Matrix, è passato da 621 mila a 704 mila, confermando un picco all’inizio dell’anno, e una crescita continua dalla primavera 2017 a oggi. Sempre nel gennaio del 2018, secondo i rilievi dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nella città-oasi di Murzuk, 300 chilometri a nord di Tummo, sulla strada verso Sebha e il nord, si sono registrati picchi di 536 ingressi al giorno, il numero dei passeggeri di 20 pickup Toyota – cosa che conferma l’uso di percorsi alternativi o vecchie piste non monitorate.
Le rotte, insomma, sono tutt’altro che chiuse, e se non si passa da Tummo, non significa che non si entri in Libia. Secondo un documento interno della delegazione europea che abbiamo visionato, “sia Oim che Eucap Sahel Niger [la missione di sicurezza e politica estera della Ue] hanno confermato, in più occasioni, l’emergere di imprevedibili e crescenti nuove rotte”, tanto che i dati considerati più attendibili sono quelli relativi agli arrivi in Italia via mare, diffusi dal ministero dell’Interno italiano. E che una delle prime raccomandazioni di Frontex, l’agenzia Ue per il controllo dei confini che nell’agosto 2017 ha dispiegato in Niger il suo terzo ufficiale di collegamento extra-Ue dopo Turchia e Serbia, è stata – come ci ha spiegato proprio Frontex – di “condurre interviste negli hotspot italiani, al fine di monitorare i flussi migratori attraverso la Libia”.
Se l’aumento del numero di migranti registrati da Oim in Libia è in parte dovuto all’inclusione di nazionalità in precedenza non contate (Iraq, Siria, Palestina, Somalia, Eritrea, Etiopia), e all’affinamento delle procedure di indagine, la consistenza degli ingressi a Murzuk e ad Al Kufra, oasi lungo la rotta di ingresso dal Sudan, sembra comunque mettere in discussione le affermazioni del titolare della Farnesina.
Per Frontex, che sta negoziando un accordo specifico con il Niger, la priorità è controllare i 350 chilometri di confine fra il paese sahariano e la Libia. Un programma in cui si è inserito l’intervento diplomatico del ministro dell’Interno italiano Marco Minniti, promotore di un accordo fra tre tribù del Fezzan – tebu, tuareg e awlad suleiman – siglato nel marzo 2017 a Roma. Idea di fondo: mettere d’accordo le tre comunità principali del Fezzan, in conflitto da anni, per creare, nelle parole di Minniti, “una guardia di frontiera libica per controllare i confini sud”. L’accordo però, ha traballato fin da subito, da quando il delegato tebu, rientrato in patria, è stato sconfessato da parte di una comunità frammentata e ben armata.
La riconciliazione abbozzata nel Fezzan
Per Maria Nicoletta Gaida – fondatrice della Ara Pacis Initiative, a cui si è appoggiato il governo italiano per condurre i negoziati – “la riconciliazione fra queste tribù è un primo passo per la pacificazione del Fezzan, ma l’accordo di fatto è rimasto fermo”. Questo perché “le condizioni poste dalle tre comunità non sono state ancora raggiunte”.
In primis, la riapertura dell’aeroporto di Sebha, capitale del sud, “consegnato dalle milizie al governo di Tripoli lo scorso luglio, per cui sarebbero bastati 900 mila euro di lavori di ristrutturazione, che nessuno ha voluto mettere sul tavolo”. Anche “la proposta, da parte di milizie e unità di polizia del bacino di Murzuk, riunitesi a novembre 2017, di creare una forza unica di controllo dei confini, non è stata supportata”, ci spiega Gaida. I leader del Fezzan, conclude, “dubitano sempre di più del reale intento, da parte di Italia e Unione Europea, di fermare le migrazioni”.
Fra una frase e l’altra, mentre siamo seduti in un caffè di Trastevere, a Roma, Gaida controlla il telefono. Sono i primi di febbraio 2018 e Sebha è tornata a combattere, in un’escalation che continuerà per tutto il mese. Le notizie corrono. Milizie awlad suleiman contro milizie tebu, ma anche – e sempre più – scontri fra diversi gruppi tebu, infiltrati da combattenti di movimenti ribelli di Sudan e Ciad.
Il Fezzan sembra essere un vortice che attira tutte le tensioni della regione, in cui, insieme ai governi di Tripoli e Tobruk, combattono gli espulsi delle ribellioni sahariane. Nel frattempo, secondo alcune fonti, Italia e Francia si ostacolano a vicenda anche qui, ricordando antichi confronti coloniali, ravvivati da simboli concreti: la fortezza di Sebha, dedicata alla regina d’Italia Elena e conquistata dai francesi nel 1943, è oggi il cuore dei combattimenti nella città.
Una nuova milizia, mentre continuano le migrazioni
In questa complessa partita per il controllo del confine, si è fatta viva una vecchia conoscenza italiana: Barka Sidi, o Shidimi, già luogotenente di Barka Wardougou nelle Fars, sostenuto e poi ripudiato da Gheddafi, che gli fece amputare una mano e un piede. E noto, ai servizi segreti italiani, per il rapimento nell’agosto 2006 di due turisti veneti, tenuti in ostaggio per quasi due mesi e rilasciati dopo la mediazione di Tripoli.
A settembre 2017, Shidimi torna in scena con una nuova formazione, Suqur al-Sahara, i Falchi del deserto. Foto e video di uomini in divisa e jeep armate circolano rapidamente nei gruppi whatsapp, usati dai tebu per scambiarsi informazioni in un territorio immenso. La milizia proclama tre mesi di chiusura del confine libico e divide la comunità tebu di Agadez, dove la famiglia di Shidimi vive da anni. Se alcuni plaudono all’iniziativa, ritenuta importante per garantire la sicurezza delle comunità di quella zona di deserto, per altri l’ex-ribelle non è che un trafficante di stupefacenti con velleità politiche, che rischia di creare ulteriori problemi.
“Controllare la frontiera sud è fondamentale per la sicurezza dei libici”, spiega Joseph Moussa, la cui postazione a Tummo era poco a sud di quella occupata dai Falchi del Sahara nei primi pattugliamenti, sulla strada per Gatrun. “Ma Shidimi si troverà di fronte agli stessi problemi che abbiamo noi: a chi consegnare migranti, autisti, trafficanti intercettati, e con quale legittimità arrestarli?”.
I tentativi della nuova milizia mostrano quindi un vuoto, politico e giuridico. Finora inutili, secondo diverse fonti, gli approcci di Shidimi con il governo del Niger e con la Commissione Ue, a cui l’ex-ribelle avrebbe scritto una lettera nell’ottobre 2017, chiedendo – secondo fonti locali – tre milioni di euro all’anno, per mantenere una forza di centinaia di uomini e mezzi. E contraddittori, e finora inconcludenti, i rapporti con i due governi del nord libico.
Un consenso maggiore sarebbe arrivato dalla stessa comunità tebu del nord del Niger. Nel luglio 2017, secondo il vicesindaco di Dirkou, Dogo Tari, Shidimi avrebbe visitato le comunità del Kawar, una successione di oasi lungo la pista principale fra Agadez e Tummo, promettendo di integrare nelle file della milizia 500 giovani della zona se il progetto dei Falchi del Sahara avesse funzionato. Ottenendo un certo consenso, anche perché proprio i giovani tebu, protagonisti del trasporto di migranti dal Niger alla Libia, continuano a cercare fortuna lungo nuove rotte. Fra le più battute, una pista che aggira a est il passo di Tummo, toccando poi Tajhari, feudo libico della famiglia di Barka Wardougou, morto nel 2016, e base della Katiba Dra Sahara.
Se controllare la parte orientale del confine, al centro della quale c’è Tummo, sembra dunque per il momento irrealizzabile, l’attenzione del governo italiano si è spostata sull’occidente: quella zona, verso l’Algeria, attraversata dalla seconda pista più importante tra Niger e Libia, che solca il passo di Salvador. Più impervia, nota per i traffici di armi e droga e controllata dai tuareg, che secondo diverse fonti, la starebbero utilizzando in modo crescente per trasportare anche migranti.
Si collocherebbe qui la proposta, lanciata a dicembre 2017 dal ministro Minniti e riportata dal sito Africa Intelligence, di una base logistica italiana da aprire a Ghat, città controllata da milizie tuareg, accessibile per via aerea, a circa 250 chilometri dal passo di Salvador. Obiettivo: formare una guardia di frontiera libica. Un finanziamento ad hoc – che Africa Confidential indica a 35 milioni di euro, cifra che comprenderebbe però altri interventi – sarebbe stato già messo a disposizione dell’Italia da Bruxelles.
La partita per il controllo di quella che Marco Minniti ha definito la “frontiera sud dell’Europa”, da “sigillare”, rimane quindi aperta. L’esperienza dell’ultimo anno insegna però che focalizzarsi solo sul controllo, senza guardare alla sicurezza e al benessere delle comunità del nord del Niger, e soprattutto del Fezzan, può rivelarsi controproducente. Per gli stessi abitanti del Fezzan, schiacciati dal conflitto, per i migranti, esposti a rischi sempre maggiori e – forse – per lo stesso obiettivo europeo di arginare i flussi.
“Abbiamo fatto la rivoluzione contro Gheddafi ma non abbiamo visto nulla”. Decine di sigarette più tardi, in una Agadez sempre più silenziosa, Joseph Moussa conclude così. Ricordando che “i migranti sono diventati la nostra moneta: solo trovandone un’altra, smetteremo di trasportarli”.
In copertina: pattuglia militare alle porte di Agadez (fotografia di Giacomo Zandonini)