“Ho provato due volte a chiedere il visto per la Francia”, racconta Hafez, un percussionista di 27 anni sopravvissuto al naufragio dell’8 ottobre di quest’anno, quando una fregata della Marina militare tunisina ha urtato un peschereccio tunisino che aveva a bordo 96 persone. Di queste, 53 sono morte e 4 risultano disperse. “Ho pagato 300 dinari entrambe le volte [che ho presentato domanda], ma il mio visto è stato sempre rifiutato”, dice, “quindi ho deciso di imbarcarmi come harraga”: il termine che si usa per definire “chi brucia la frontiera” – cioè tenta di attraversare in modo irregolare.
A settembre 2017 si è registrata un’impennata nel numero di partenze dalla Tunisia rispetto allo stesso mese dell’anno precedente: 3.200 partenze nel 2017, di cui 1.400 solo nel mese di settembre, contro le 1.200 totali del 2016. Secondo il Forum Tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), “già nel nostro studio del 2016, su un campione di 1.200 tunisini intervistati oltre 500 erano pronti a partire, di cui 30 anche illegalmente”, riferisce Reem Bouarrouj del comitato migrazioni del Ftdes, quindi “ci aspettavamo già una nuova ondata”. Dopo l’esodo del 2011/2012, quando 25 mila tunisini erano partiti per l’Europa, tra il 2012 e il 2014 le partenze erano molto diminuite, “e questo perché c’era una speranza per il futuro della Tunisia dopo la rivoluzione”, spiega Bouarrouj, e “perché la Ue aveva investito in radar e mezzi di controllo delle frontiere”.
I dati raccolti da Ftdes nel suo rapporto del 2017 rilevano quanto sia fuorviante la lettura delle partenze dalla Tunisia nell’ottica di una “nuova rotta migratoria post-Libia”, e questo per due motivi principali.
Da un lato la percentuale di stranieri partiti dalla Tunisia è rimasta invariata per tutto il 2017 (16 per cento, gli stessi valori medi del periodo 2011-2016), a significare che sono i tunisini a partire dalla Tunisia, e non stranieri che attraversano la frontiera dalla Libia. Dall’altro, “i tunisini non sono mai partiti dalla Libia, hanno sempre preferito pagare di più ma fare un viaggio più ‘sicuro’ dalla Tunisia”, dice Bouarrouj.
Lo conferma Lorena Lando, capo missione della sezione Tunisia dell’International Organization for Migration (Iom): “dalla Libia sono davvero pochi quelli che arrivano, per lo più recuperati in mare in missioni di salvataggio”, dalla guardia costiera tunisina o da pescatori: “a partire dalla Tunisia sono tutti tunisini”.
Per entrare più nello specifico, dice Lando, “fino al 20 ottobre sono 4.200 i tunisini arrivati in Italia, e di questi 1.400 solo a settembre, mentre sono 1.700 quelli fermati sulle coste o in mare dalle autorità tunisine”. Quindi si tratta di 6 mila persone in totale fra chi è riuscito ad arrivare e chi è stato arrestato prima di riuscirci, mentre tra il 2014 e il 2016 si parlava di poco più di mille persone che tentavano ogni anno.
“Significa che qualcos’altro c’è”, si interroga Lando. “Dalla fine del 2012, i ritorni in patria dei tunisini sono stati [di dimensioni] importanti”, e si spiegano anche con l’influsso del periodo post-rivoluzionario e di nuove speranze per il paese. “Mentre nel 2017, con le elezioni locali continuamente posticipate, i numerosi cambiamenti di governo e la consapevolezza che il periodo di transizione è difficile e sensibile in ogni paese, è diventato chiaro che non esistono né cambiamenti a tutto tondo né facili soluzioni”.
Un altro fattore importante secondo Lando è che “il 12 per cento della popolazione tunisina vive all’estero, cioè 1 milione e 200 mila persone”, e questo crea una vera storia di migrazione, che in tanti cercano di emulare.
“Considerando che gli accessi legali sono quasi impossibili – a meno che uno non sia un uomo d’affari – una persona che arriva a pensare di scegliere ‘tra morire qui e morire tentando qualcosa di meglio’ è determinata a correre rischi altissimi”, e secondo Lando questi rischi si aggravano una volta arrivati, “perché non è facile regolarizzarsi, e quindi sono esposti a finire sfruttati o nel circuito della tratta”.
Le ragioni economiche e sociali
Per il Ftdes, le ragioni di questo esodo sono molteplici. “Ci sono ragioni economiche e sociali” spiega Bouarraj, “le proteste nelle regioni più marginalizzate sono raddoppiate [da 4.960 del 2015, a 9.532 nel 2016], il dinaro ha perso valore [2,2 dinari valevano 1 euro a settembre 2016, mentre ora l’euro si cambia a 2,9 dinari], il tasso di abbandono scolastico è altissimo [100 mila abbandoni l’anno] e politicamente fino all’anno scorso i giovani avevano ancora speranze, mentre ora non più”, dice riferendosi al dilagare della corruzione e alla recente legge sulla riconciliazione nazionale, che comporta l’amnistia per i funzionari corrotti dell’era di Ben Ali. Nonostante questo, puntualizza Bouarrouj, “non si può in alcun modo parlare di nuova rotta migratoria”.
In effetti, in Tunisia non si sono creati network di trafficanti di esseri umani presenti in Libia, ma solo reti di passatori, contrabbandieri, cioè persone che non fanno parte di una vera e propria rete mafiosa, ma si occupano del passaggio illegale delle frontiere. “Alcuni si organizzano addirittura da soli”, spiega l’avvocato Mohamed Wajdi Aydi della città di Sfax, che collabora con l’associazione Terre d’Asile e fino a giugno 2017 faceva parte del consiglio municipale, prima che questo si sciogliesse in attesa di elezioni municipali poi rimandate per la terza volta a marzo 2018. “Creano un gruppo e si comprano da soli una barca”, racconta Aydi. Secondo il Ftdes, si tratta di reti abbastanza professionali, “si occupano dell’alloggio, del cibo, e aspettano a partire fino a quando il mare non è calmo. Nessuno finora ha lamentato maltrattamenti”, spiega Bouarrouj.
Come funzionano le partenze?
“Un tizio arriva al villaggio, al bar chiede se qualcuno vuole partire”, spiega Khaled, 27 anni e anch’egli sopravvissuto al naufragio dell’8 ottobre. “Poi lascia i contatti Facebook, e tramite Messenger ti dice come fare”.
“Devi arrivare per conto tuo fino a Kerkennah”, un’isola a 20 chilometri da Sfax e punto privilegiato per le partenze verso Lampedusa, e superare i controlli di polizia sul traghetto. “Dato che sono attore di teatro, ho detto alla polizia che andavo a fare un workshop con i ragazzi, e alla fine mi hanno lasciato passare”. Una volta a Kerkennah, incontra gli organizzatori che li alloggiano in una casa finché non arrivano tutti i passeggeri e il tempo non diventa favorevole per la traversata.
“Ero fidanzato da tre anni”, racconta Khaled, “ma non riuscivo a trovare un lavoro per mettere da parte i soldi per il matrimonio, e per questo ci siamo lasciati. Ero distrutto, avevo capito che non avrei avuto un futuro qui, e quindi mi sono deciso a partire”. Hafez, invece si è deciso dopo due dinieghi alla sua richiesta di visto per la Francia. Ma per Hafez, musicista, e Khaled, attore di teatro di Marhes, piccola cittadina costiera, senza contratto e con lavoro a giornata per 15 dinari, le possibilità di un visto legale sono nulle. “Quelli che riescono a ottenere un visto legale, passano per un intermediario che chiede fino a 15 mila dinari”, spiega riferendosi al sistema di corruzione per l’ottenimento dei visti, “ma se hai quella somma di denaro, puoi aprire un negozio o un commercio quindi che senso ha?”.
I pescatori
Per i pescatori di Kerkennah si aggiunge un altro fattore: “abbiamo perso il 60 per cento dei banchi di pesca”, spiega Lazhar, pescatore da oltre 40 anni, “a causa dell’infestazione di un granchio sud americano che distrugge le reti e mangia i pesci”. Qualcun altro dice che il granchio proviene invece dalla Cambogia. In ogni caso, i pescatori lo hanno soprannominato, con un paragone raggelante, il granchio “Daech”. Mongi, anche lui marinaio, spiega che ormai sono due anni che il granchio ha fatto è comparso sulle coste tunisine. Non riuscendo a riparare le reti – perché troppo costose (ogni rocchetto costa 120 dinari e per una barca media ne servono 150) – molti pescatori svendono fino a metà prezzo le loro barche, facendo quindi abbassare i prezzi dei viaggi. Se nel 2016 il viaggio costava tra 2.800 e 3 mila dinari, nel 2017 è intorno ai 2 mila dinari. “Data la scarsità dei pesci e l’illegalità del kis” – una tecnica di pesca indifferenziata che è illegale per la Tunisia – “molti pescatori sono tentati di vendere la barca o di fare affari con gli harragas”, dice Lazhar.
L’entroterra
Nell’entroterra la situazione è ancora peggio. “Il problema maggiore è la mancanza di lavoro”, spiega Habib El Tayef, presidente della sezione locale di Bir Ali Ben Khalifa del colosso sindacale Ugtt. Bir Ali Ben Khalifa è una delle tante cittadine marginalizzate dell’interno della Tunisia, completamente tagliate fuori dalle politiche di sviluppo. Un piccolo centro, circondato da vasti uliveti. Da qui, solo negli ultimi tre mesi, 500 persone (su una popolazione di 60 mila persone) si sono imbarcate verso l’Italia, e 14 sono morte nel naufragio dell’8 ottobre. A fine ottobre qui è stato indetto uno sciopero generale a cui tutti hanno partecipato “per chiedere verità e giustizia”.
“Non ci sono industrie, né infrastrutture e metà delle abitazioni non hanno acqua corrente”, dice El Tayef, “è stato costruito un ospedale, ma per mancanza di macchinari e di personale non ha mai aperto”. La maggioranza dei posti di lavoro sono legati all’agricoltura e alla raccolta stagionale delle olive. Si tratta di contratti stipulati a voce, alla giornata e pagati 15 dinari al giorno (5 euro) per le donne e 25 (12 euro) per gli uomini.
“Quando mio figlio di 17 anni ha detto che voleva imbarcarsi”, racconta Mabrouk Lahmar, lavoratore giornaliero, padre di una delle vittime e zio di altre tre vittime, “subito gliel’ho proibito, ma poi, pensando all’economia del paese e alle possibilità che avrebbe avuto nel suo futuro qui, gli ho dato ragione”. Rassegnato, ha pagato il biglietto di 2 mila dinari (640 euro).
Stiamo parlando tutti insieme al caffè del paese quando si avvicina Kamel, che ha perso tre cugini nello stesso incidente. Kamel è ammutolito, ascolta con attenzione in attesa di fare lui le domande: “ci sono novità dall’Italia?” chiede speranzoso.
L’“incidente”
Il naufragio dell’8 ottobre è stato prontamente definito incidente dal Ministero della difesa tunisino, anche se per i testimoni oculari si tratta di speronamento volontario. E’ stata aperta un’inchiesta militare per determinare i responsabili e le indagini sono ancora in corso.
Due motovedette italiane, una della Guardia di finanza e una della Guardia costiera, hanno partecipato ai soccorsi. Se in Italia l’incidente è stato velocemente classificato come una tragedia della “crisi migratoria”, in Tunisia il dibattito è molto acceso. Le testimonianze contraddicono la versione ufficiale di Tunisi, che ha accusato il capitano della barca, morto nell’incidente, di essere il responsabile della collusione.
La versione di Khaled e Hafez è molto diversa. “Non è stato un incidente” ribadisce Khaled, “la fregata militare ci ha inseguito per più di due ore, con i fari accesi, e ha usato i cannoni ad acqua per far fermare la barca”, racconta nei dettagli. “Intorno alle 23, ci ha raggiunto e ci ha speronato dal lato destro facendo capovolgere la barca. Io ero sotto la barca e a tentoni sono riuscito ad arrivare in superficie. C’erano cadaveri ovunque, e la gente in panico si aggrappava a chi sapeva nuotare facendolo affogare”. In quel momento, la fregata “ha spento le luci e ha indietreggiato, io avevo bevuto molta acqua e pensavo di morire, dopo mezz’ora è arrivato un gommone con due agenti [un Rib della fregata militare tunisina con due agenti di polizia] che ci hanno presi a bordo”. Da lontano, ricorda, “vedevamo le navi militari straniere, con le luci intermittenti accese, e abbiamo sentito anche il rumore di un elicottero, ma non si sono avvicinati”.
“Dopo l’incidente non riuscivo più a mangiare, volevo solo dormire e fumare, è stata l’esperienza più dura della mia vita”, racconta Hafez. Grazie a Zied, fratello di Khaled e segretario di produzione in un teatro di Sfax, i due ragazzi stanno elaborando il trauma con l’aiuto del teatro. “Vogliamo mettere in scena il naufragio”, spiega Zied, “usando le tecniche trasfigurative con l’argilla ispirate al lavoro di Olivier Sagazan”. Un lavoro di trasfigurazione corporale per riprendersi da quello che hanno vissuto. “Il teatro è di grande aiuto”, raccontano Hafez e Khaled, che per ora non ne vogliono più sapere di partire, mentre si preparano a montare sui trampoli per un riscaldamento circense.
Verità e giustizia
Già dopo le prime testimonianze, a Kebili, nel centro della Tunisia, dove quattro persone sono morte nello stesso naufragio, il 13 ottobre una sommossa popolare aveva dato fuoco per protesta a un edificio del governatorato.E le manifestazioni di dissenso non si sono fermate.
L’avvocato Noamen Mvid, presidente della Lega tunisina per i diritti umani (Ltdh) di Sfax, fa parte del comitato di difesa per i superstiti e le famiglie delle vittime fondato il 17 ottobre e composto da cinque organizzazioni militanti.
“Non vogliamo che questo caso cada nell’oblio come quello analogo del 2011”, dice Mvid, riferendosi a quello in cui una nave della Marina militare tunisina aveva speronato una barca causando la morte di cinque persone, anche in quel caso sotto gli occhi delle navi italiane. Per questo motivo il comitato partecipa all’istruttoria in cui si sentiranno “le vittime ascoltate dal giudice militare”. Secondo Mvid, le testimonianze raccolte finora coincidono tutte nel dire “che lo speronamento è stato volontario e che la fregata della Marina militare tunisina ha aspettato almeno venti minuti prima di iniziare a mettere in salvo le persone in acqua”.
Piani del governo e poliziotti corrotti
Lorena Lando di Iom ci ricorda che in tutto il mondo “ci sono 250 milioni di persone emigrate fuori dal loro paese. La migrazione c’è ed esiste, quindi pensare a politiche migratorie adeguate e di lungo termine è nell’interesse di tutti”.
In mancanza di questa visione politica d’insieme, e con il continuo approccio emergenziale a una dinamica che ben poco ha di crisi, crescono i dubbi che dietro quest’ondata migratoria ci sia un tentativo del governo tunisino di ottenere un migliore accordo con la controparte europea sul controllo delle frontiere.
A Sfax, d’altronde, la collaborazione di una parte delle forze dell’ordine nell’organizzazione delle partenze irregolari in cambio di “mazzette” dai contrabbandieri è cosa risaputa: “dei 150 indagati per migrazione clandestina”, spiega una fonte della Corte di Giustizia di Sfax che preferisce non essere nominata per via della confidenzialità dell’istruttoria, “diversi sono poliziotti corrotti”.
Nella foto di copertina: Avvocato Noamen Mvid, presidente LTDH Sfax e del comitato di difesa per le vittime del naufragio 8 ottobre (foto: Giulia Bertoluzzi, come tutte le foto nell’articolo)