Erano circa le 12:00 dell’undici ottobre 2013 quando un peschereccio carico di più di 400 profughi, quasi tutti siriani partiti dalla Libia, è entrato in acque internazionali. “Eravamo quasi 500 persone, di cui 39 medici, io ero il 40esimo, con tutte le nostre famiglie. Siamo partiti da Zuara, al confine con la Tunisia. Dopo quasi tre ore è arrivata la guardia costiera libica, hanno provato a farci tornare indietro, ci tagliavano la strada, hanno lanciato una corda dentro il motore. L’inseguimento è durato circa tre ore, fino a quando non hanno cominciato a sparare, tre persone sono state ferite e l’acqua ha cominciato ad entrare nell’imbarcazione che si è sbilanciata e allora i libici ci hanno detto ‘andate andate tanto siete già morti’, così racconta il medico kurdo-siriano Yousef Wahid. È stato lui, insieme ad altri medici, a chiamare i soccorsi una volta entrati in acque internazionali. “Intorno alle 13:00 abbiamo chiesto aiuto alla guardia costiera italiana ma loro ci hanno detto di chiamare Malta, che a sua volta ci ha detto di chiamare l’Italia. Da dove stavamo noi vedevamo una nave militare italiana, ma il capitano ha rifiutato di aiutarci, aspettava ordini per capire cosa fare. Siamo rimasti in balia delle onde più o meno dalle 12:00 fino alle 16:00. Alle 17:00 ci siamo ribaltati, c’era un elicottero sopra la nostra testa, ma i soccorsi sono arrivati solo dopo le 18:00”.
Quel giorno morirono 286 persone di cui almeno 60 minori. Si trattava per la maggior parte di siriani e curdo siriani, come Wahid, fuggiti dalla guerra in Siria prima e dai ribelli in Libia dopo. Yousef Wahid parla cinque lingue, russo, curdo, arabo, inglese e tedesco, forse proprio per questo è stato lui insieme ad altri suoi colleghi a chiamare per primo i soccorsi. “Ho studiato medicina in Russia e mi sono laureato nel 1992”, racconta, “nel ‘98 sono andato via dalla Russia e sono tornato in Siria, dove sono rimasto per due mesi, prima di andare in Libia, lì ho lavorato per quindici anni come pneumologo”. Nel 2011 quando scoppiò la guerra in Libia, la moglie di Wahid, Manal Hashash, era incinta e, insieme alle altre 3 figlie era tornata in Siria, ma poi anche in Siria iniziò la guerra, e alla fine del 2011 Manal tornò in Libia dal marito. Wahid è rimasto in Libia fino a quando non è caduto il governo Gheddafi. “Quando i ribelli islamici hanno preso il controllo della città e dell’ospedale, io in quanto kurdo siriano ero visto molto male. Un giorno di fine giugno 2013 mi è arrivata una minaccia: o me ne andavo, o io e la mia famiglia avremmo viaggiato da morti. I confini erano stati chiusi, non potevo tornare in Siria perché anche lì c’era la guerra, fino a quando ho potuto (un anno e mezzo) ho lavorato, poi l’unica possibilità per me, mia moglie e le mie figlie era diventata il mare. Prima di imbarcarmi ho chiesto un visto al consolato maltese, a quello svizzero, italiano, tedesco ma tutti hanno rifiutato di concedermi una via legale di accesso al paese. Per ultimo ho persino chiesto un visto turistico alla Tunisia, ma hanno rifiutato anche loro. L’unica soluzione era quindi il mare”, racconta il medico.
Quel pomeriggio di 11 anni fa Whaid venne soccorso dai maltesi, mentre la moglie dalla guardia costiera italiana. Ma prima di arrivare a cosa successe dopo il salvataggio, è doveroso fare un passo indietro, quello che portò alla storica sentenza dell’autunno scorso, poi confermata dalla Corte d’appello di Roma a giugno di quest’anno. La sentenza stabilisce le responsabilità dei due ufficiali Luca Licciardi (marina militare) e Leopoldo Manna (guardia costiera), nel naufragio dell’11 ottobre 2013. Quel giorno gli imputati erano rispettivamente il comandante della sezione operazioni reali correnti di Cincnav, la squadra navale della marina, e il responsabile della sala operativa della guardia costiera di Roma. Viene accertata la responsabilità per omissione di atti di ufficio e omicidio colposo multiplo per aver ritardato l’intervento della nave militare Libra – quella che Whaid dichiara di aver visto prima del naufragio – che si trovava a poche miglia dal peschereccio sovraccarico, nonostante le ripetute richieste di aiuto da parte dei naufraghi. Una responsabilità che non si è tradotta in condanna penale perché il processo è iniziato molto in ritardo, e dopo diverse richieste di archiviazione da parte della procura della Repubblica di Agrigento, prima, e di Roma dopo, è sopraggiunta, inevitabile, la prescrizione.
Ciò nonostante la sentenza di quel naufragio resta storica perché evidenzia che, come recita la stessa, la “sicurezza pubblica – che imponeva di agire altrimenti alla data dell’evento, salvaguardando l’incolumità dei migranti in pericolo conclamato – non è soltanto riferibile ad aree di pertinenza del nostro Paese ovvero rientranti nella nostra competenza SAR e da garantirsi all’interno dell’ambito territoriale (e giurisdizionale) italiano, ma rappresenta, piuttosto, il bene/interesse tutelato penalmente sia che si assuma il coordinamento delle operazioni di salvataggio, sia che si debba prestare assistenza ai coordinatori degli altri Stati richiedenti”.
Sul piano civile, questa sentenza apre la possibilità di un risarcimento per i superstiti e i familiari delle vittime costituitosi parte civile (una trentina di persone) durante il processo penale. Tra loro anche il dottor Whaid.
“Sono stato salvato dai maltesi, mia moglie dalla guardia costiera di Agrigento. Appena sono sbarcato a Malta mi hanno messo in prigione, dopo tre giorni ho avuto un problema ai polmoni e il ministro della salute maltese, vedendo la mia condizione, mi ha trasferito subito in ospedale. Sono stato lì una notte, poi sono scappato perché volevo sapere cosa fosse successo alle mie figlie e a mia moglie. Non avevo niente, non avevo le scarpe, dopo lo sbarco mi hanno dato solo una maglietta e dei pantaloncini. Non avevo neanche il bastone con me, senza il quale non riesco a camminare”, continua il medico. “Ero convinto che anche mia moglie fosse dispersa con le mie figlie, sono rimasto scioccato quando l’ho vista in una foto che mi era stata inviata dall’Italia. Allora l’ho chiamata, e lei mi ha chiesto se le nostre figlie fossero con me, io ho risposto di no, lei mi ha detto ‘neanche una?’, io le risposto ‘no’. Allora è scoppiata a piangere mentre mi diceva ‘non sono neanche con me’. Mi hanno raccontato che per il trauma l’hanno portata in ospedale due volte”. Le figlie che 11 anni fa sono state inghiottite dal mare a poche miglia da Lampedusa, insieme ad altri circa 60 minori, si chiamavano Randa, 9 anni, la più grande; Sherihan 8 anni, Nurhan 6 anni e Christina di 1 anno e 11 mesi.
Scomparso insieme a loro c’era Mohamed, 2 anni, figlio di Hatem Shabaan, che invece era stato soccorso insieme all’altro figlio Haidar, di 3 anni e due mesi. “Il salvataggio è stato qualcosa di terribile”, racconta Shabaan, “dopo ore di richieste di aiuto sono arrivati i soccorsi. Solo quando le persone erano già morte hanno deciso di salvarci. Io e mio figlio Haidar siamo stati portati in salvo dai maltesi, e uno dei miei figli, Abdulkarim di 7 anni, è stato salvato dagli italiani. Dopo tre giorni dal naufragio ci hanno fatto il test del dna a Malta (il 14 ottobre) e attraverso la Croce Rossa ho ritrovato Abdulkarim, che si trovava ad Agrigento. Dopo 28 giorni siamo stati ricongiunti in Sicilia. In quei giorni mi hanno mandato le foto di alcuni bambini morti e ho riconosciuto un altro mio figlio. Aveva 2 anni, si chiamava Mohammed e adesso è l’unico ad avere una tomba in Sicilia. Hassan, il mio terzo figlio di 5 anni e mia moglie Farida Kafrentouni, non sono mai stati trovati”.
Hatem Shabaan è stato uno dei pochi (solo 4 famiglie) ad ottenere il ricongiungimento con suo figlio in Sicilia, anche grazie ad un giornalista dell’Espresso che allora seguì tutta la loro storia.
Yousef Wahid, invece, è dovuto fuggire da Malta illegalmente, per raggiungere la moglie che era rimasta sola e sotto choc. “Nè io nè mia moglie avevamo i documenti, avevamo perso tutto in mare, – spiega il medico – così ho chiamato mia sorella e le ho chiesto dei soldi. Con quei soldi ho pagato un amico che stava in Svizzera per andare a prendere mia moglie. Lei è arrivata fino a Milano da sola e da Milano una macchina l’ha portata in Svizzera per 1000 euro. Il problema a quel punto era mio, ero bloccato a Malta, tra me e mia moglie c’era il mare. Un libico mi ha preso un biglietto aereo e sono partito con quello senza documenti, ho pagato 500 euro per il servizio più il prezzo del biglietto, ero disposto a pagare qualsiasi cifra per raggiungere mia moglie. Dopo 20 giorni a Malta stavo anch’io in Italia. Sono stato l’unico ad aver preso un aereo, gli altri sopravvissuti hanno attraversato di nuovo il mare”. Da Milano Wahid ha pagato altri mille euro per essere portato in Svizzera. “Quando sono arrivato – racconta – mia moglie si era già presentata alle autorità, ma non sapeva che io la stavo raggiungendo, allora il mio amico mi ha accompagnato al campo dove stava, e le ha detto: ‘c’è una sorpresa per te!’ e lei ha risposto: ‘sono arrivate le mie figlie!’, poi sono sceso dalla macchina e lei mi è saltata addosso piangendo”.
Adesso sia Hatem Shabaan che Yousef Wahid vivono in Germania con le loro nuove famiglie. Ogni anno tornano a Lampedusa per l’anniversario di quel giorno, perché “essere qui ci fa sentire più vicini ai nostri figli e alle nostre figlie”, dicono.
A noi, invece, ricordano l’importanza di mantenere viva la memoria, per denunciare quello che era stato promesso e mai mantenuto, ma soprattutto per ascoltare le voci di chi è rimasto, perché i morti sono stati vittime dei nostri confini, ma i vivi continuano ad esserlo: lo sono una volta soccorsi, dopo lo sbarco, nei centri d’accoglienza, lo sono quando sono obbligati ad attraversare, di nuovo, una frontiera illegalmente, lo sono nell’infinita attesa di una tomba su cui piangere i propri cari.
Nella foto di copertina Yousef Wahid con le sue due figlie, nate dopo il naufragio. Credit: Lidia Ginestra Giuffrida