“Welcome on rotation 13” ripetono le radio appese alle maglie blu dell’equipaggio. L’Humanity 1, la nave umanitaria dell’Ong Sos Humanity, sta salpando per la sua tredicesima volta da quando è in mare. Il cuore giallo stampato in prua spacca in due la distesa di blu che separa la terra dalla linea d’orizzonte. E’ un lunedì sereno, il sole è caldo e il mare è particolarmente calmo. Paola sta in piedi accanto a Tilman, saluta chi è rimasto sul ponte, la mano alzata, il viso disteso e una lacrima che le accarezza la guancia. Qualcuno si abbraccia, altri invece sono già occupati a tirare su le cime e a mettere in moto la macchina umana che permette la vita di questa nave.
La costa siciliana si allontana dietro di noi miglio dopo miglio, ora dopo ora, di fronte solo acqua. “Quando la nave si è mossa e ha lasciato il porto di Siracusa ho iniziato a piangere, ma era un pianto bello, un pianto di soddisfazione. Avevo la chiara sensazione di iniziare nuovamente a respirare, ho provato un grande senso di liberazione, il mio corpo era finalmente dove doveva stare. Era il piacere puro di essere tornata in mare”, racconta Paola seduta nella lunga panca di legno che occupa momentaneamente il deck, lo spazio che accoglierà i sopravvissuti dopo il primo salvataggio in mare.
Paola ha 28 anni, è di Napoli ed è la “protection officer” della missione, a bordo dell’Humanity 1 come volontaria. “Il mio ruolo a bordo spazia dalla registrazione dei sopravvissuti al supporto legale. Quando le persone salgono a bordo io e lo psicologo ci occupiamo della registrazione. Mettiamo un braccialetto con un numero associato alle persone, e chiediamo in quale range di età sono, il paese d’origine, se sono da soli o con altri membri della famiglia, e segnaliamo se ci sono vulnerabilità visibili. Dopo la registrazione mi occupo della parte legale, spiego alle persone cosa succederà dopo lo sbarco: quali sono i loro diritti, in cosa consiste la protezione internazionale e i diritti dei casi più vulnerabili come i minori non accompagnati, donne sole o con le famiglie. L’obiettivo è che siano consapevoli di poter chiedere aiuto e supporto perché le leggi lo prevedono”, continua Paola, “infine mi occupo anche del tracciamento di eventuali familiari già in Europa o in altre imbarcazioni. Al termine della raccolta dati invio tutto alle organizzazioni a terra”.
Nella sua vita sulla terra ferma Paola è un’assistente sociale, “il lavoro che faccio da un anno a questa parte non ha a che fare con il fenomeno migratorio”, spiega, “ma è da quando ho sedici anni, che la questione migratoria in qualche modo fa parte della mia vita. Ricordo che allora si cominciava a parlare di ong in mare, di morti in mare, di persone che decidevano di lasciare le proprie terre rischiando tutto nel Mediterraneo, questa cosa mi ha bloccata, è come se mi avesse messa dentro un fermo immagine. Ricordo vividamente che un giorno guardai mio padre e gli dissi: io sarò lì, sarò a bordo di una di quelle navi. Un anno fa è successo per la prima volta e adesso sta succedendo di nuovo”.
Intanto la cena è pronta, sono appena le sei e tutto l’equipaggio si raduna nella stanza principale. Aldo sta finendo la pasta che ha nel piatto, è seduto da solo nel divanetto rosso accanto all’ingresso della cucina, è silenzioso e osserva. “Mi sento molto sereno – dice – nonostante questa sia la mia prima volta a bordo di una nave umanitaria sono tranquillo. Per anni ho lavorato nel dipartimento di psichiatria transculturale a Catania, e ho avuto a che fare più e più volte con lo stress post traumatico”. Aldo ha 67 anni, è siciliano e il suo ruolo su Humanity 1 sarà quello di offrire il primo supporto psicologico e psichiatrico ai sopravvissuti. “Quest’esperienza servirà anche un po’ a me, a capire come dare il prima possibile un sostegno psicologico a persone che se vengono salvate in mare, hanno già solo per questo vissuto un evento traumatico. Se poi pensiamo a quello che hanno passato prima del viaggio possiamo avere un’idea di quanto possano essere psicologicamente provate le persone che porteremo a bordo”.
“Aldo, Aldo Frances” una voce lo chiama alla sua radio. Fra dieci minuti ha un meeting con il “care team”, la squadra di cui fa parte.
L’equipaggio a bordo dell’Humanity 1 è, infatti, diviso in quattro squadre: il “maritime team”, l’equipaggio marittimo, “il care team”, coloro che si occupano della cura fisica e psicologica dei sopravvissuti, “il sar team”, chi si trova in prima linea nelle operazioni di ricerca e soccorso in mare, e il “communication team” che si occupa della comunicazione.
Un totale di 29 membri d’equipaggio, di cui 17 assunti e 12 volontari.
Ogni squadra si allena una settimana prima della partenza, mentre la nave è ancora in porto, e una volta salpati iniziano i training a bordo: il lancio dei rib, i gommoni con cui si effettua il salvataggio, l’imbarco dei sopravvissuti a bordo, la cura dei casi medici.
“Il mio desiderio è di poter essere utile, spero che quello che facciamo possa rappresentare il piccolo inizio di un cambiamento che parta della società civile, spero che la gente possa capire che recuperare l’umanità sia necessario a recuperare questo mondo in frantumi, senza desiderio di onnipotenza ma con la sola voglia di ridare umanità ad un mondo che la sta perdendo”, conclude Aldo prima di avviarsi verso la clinica di bordo.
Contemporaneamente continuano gli allenamenti, il sar team è in mare sui gommoni, mentre il care team si esercita a effettuare le evacuazioni di emergenza.
“Mi sento pronta, molto motivata, non vedo l’ora di essere nella SAR zone”, Emma dà le spalle allo Woman shelter, la stanza riservata alle superstiti donne e ai loro figli, “nella mia vita di tutti i giorni faccio l’ostetrica in un ospedale di Barcellona, qui il mio ruolo è un pò diverso: l’ostetrica a bordo è il primo riferimento per le donne in tutto e per tutto, lo è sia per loro che per i loro figli”. Emma ha 25 anni e una lunga esperienza sulle navi umanitarie. “Sono stata su Nadir, la nave di ResqShip e su Ocean Viking, la nave di Sos Mediterranee. Fino a dieci giorni fa stavo su Nadir. L’emozione di salire a bordo è sempre la stessa anche se l’esperienza cambia. Con il tempo impari a gestire il coinvolgimento, l’emozione e ad essere sempre più professionale. Poi i training aiutano tanto a conoscere gli spazi, gli strumenti, i farmaci che hai a bordo”.
Il sole tramonta ed un’altra giornata di allenamenti finisce. Siamo a sud est delle coste siciliane e giovedì contiamo di essere nell’area di ricerca e soccorso libica. Lunedì mattina la nave Nadir di ResqShip ha recuperato 61 persone su un’imbarcazione naufragata a largo delle coste di Lampedusa, per 10 di loro l’intervento è arrivato troppo tardi: erano già morte. Nelle stesse ore, lungo le coste Calabresi, un altro naufragio ha causato la morte di una donna e 66 dispersi, di cui 26 bambini.
“Sono pronta, anche al peggio, ma ciò che mi mette sempre profondamente paura è il pensiero di poter arrivare tardi”, conclude Emma, con lo sguardo perso tra le onde.
Leggi gli altri articoli di questo diario di bordo: Cronaca dei salvataggi in mare della Humanity 1; Le storie delle persone salvate dalla Humanity 1; L’arrivo al porto di Ortona della Humanity 1.
Immagini. Le foto di copertina e dell’articolo sono di Lidia Ginestra Giuffrida