“Malta mi ricevete? Stiamo per entrare nello spazio aereo libico, potete coordinare?”. Ricevuto l’ok via radio, il pilota Pascal Stadelmann diminuisce la velocità a 100 nodi (circa 185 km/h) e scende ad una quota di 1500 piedi (500 metri) sopra il Mediterraneo centrale. È una giornata di fine dicembre, ma il mare è insolitamente calmo. La missione di Moonbird, l’ultraleggero monomotore di cui l’ong tedesca Sea-Watch e la no profit svizzera Humanitarian Pilot Initiative si servono per sorvegliare il tratto di mare di fronte alla Libia è appena iniziata.
A bordo, oltre al pilota, ci sono altri due volontari: Eike Bretschneider, che seduto accanto a Stadelmann si occupa della coordinazione tattica della missione, e Tessa Kraan, una fotografa responsabile di registrare e documentare quanto osservato dal Moonbird. Per oltre quattro ore scandagliano il mare, pronti a segnalare imbarcazioni in difficoltà, ma anche la presenza di mezzi militari. In tutto sono quasi sei ore in volo.
Stadelmann e Bretschneider si scambiano di frequente informazioni per stabilire l’assetto migliore e sfruttare al massimo il carburante a disposizione. Le informazioni ricostruite da Sea-Watch tramite i social media, sembrano indicare che un gommone con a bordo un centinaio di persone sia partito la notte prima da una zona nei dintorni di Khoms. Moonbird si avvicina fino a 40 miglia nautiche (75 chilometri) dal tratto di costa a est di Tripoli e prosegue seguendo un percorso a pettine, risalendo verso nord, fino a coprire un’area vasta quasi quanto il Belgio. Nel tardo pomeriggio, quando sta ormai per fare buio, è ora di rientrare: del gommone nessuna traccia. Dopo circa un’ora di volo Moonbird atterra a Lampedusa.
“Soprattutto in questa stagione, ci capita di avvistare relitti, o corpi di persone annegate. Ma a volte le imbarcazioni sono intercettate dalla cosiddetta Guardia costiera libica già a poche miglia dalla costa”, spiega Bretschneider. Poche ore più tardi, i suoi sospetti trovano conferma in un tweet: un’imbarcazione con a bordo 126 persone è stata intercettata nelle prime ore del mattino dalla nave libica “Al Khifa” e i migranti sono stati riportati in un centro di detenzione vicino a Tripoli.
1/3 🔴 #SAR Op 17.12. 20 – Libyan Coast Guard ship "Al Kifah" rescued 126 #migrants incl. 8 women and 28 children. All disembarked safely in early morning hours of Thursday in Tripoli Naval Base. [cont] #migrantcrisis #frontex #seenotrettung #COVID19 pic.twitter.com/wjpD4ejQw4
— Migrant Rescue Watch (@rgowans) December 17, 2020
Il mare svuotato dai mezzi di soccorso
Moonbird è operativo dal 2017, affiancato dall’estate scorsa dal bimotore Seabird. Nel 2020, ha accumulato oltre 500 ore di volo sul Mediterraneo, 95 missioni in tutto, segnalando 82 imbarcazioni prossime al naufragio e salvando molto probabilmente la vita a circa 4500 persone. Dalla fine del 2018 la missione fa base a Lampedusa, da quando cioè le autorità di Malta (che a livello logistico sarebbe l’opzione più comoda) rifiutano all’ultraleggero non solo di operare, ma anche di atterrare per fare rifornimento.
I problemi in realtà non sono mancati nemmeno con Enac: a settembre infatti l’Ente nazionale per l’aviazione civile ha notificato un fermo a Moonbird “per attività di Search and Rescue (Ricerca e Soccorso) prolungata” e non autorizzata. “Il provvedimento – spiega Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch Italia – si riferisce in realtà ad un episodio specifico avvenuto in zona sar italiana, ma è totalmente infondato, tanto che a seguito di una nostra richiesta di chiarimenti è stato revocato. E non abbiamo nemmeno esattamente capito perché, tanto che abbiamo comunque deciso di presentare ricorso”. Il tentativo, secondo Linardi, è allontanare dal Mediterraneo tutti i testimoni civili.
Oltre alla missione di di monitoraggio di Sea-Watch, da Lampedusa opera anche una missione analoga della ong francese Pilotes Volontaires. Ma di navi in mare non ce ne sono quasi più: l’Italia nel 2020 ne ha bloccate sei, tra cui la Sea-Watch 3 e 4, in fermo amministrativo a Porto Empodocle e a Palermo, rispettivamente da sei e quattro mesi.
L’Agenzia europea dei diritti fondamentali ha documentato un totale di 40 indagini avviate dagli Stati europei nei confronti di 17 navi impegnate in operazioni di salvataggio in mare tra il 2017 e il 2020. Attualmente solo la Open Arms, della ong spagnola Pro Activa Open Arms e, dall’11 gennaio la Ocean Viking, di Sos Mediterranée e Medici Senza Frontiere, sono operative nel Mediterraneo.
Il caso di Sea-Watch 3 e 4, secondo quanto deciso dal Tar a cui la Ong ha presentato ricorso, sarà invece deciso dalla Corte di giustizia europea, ma intanto senza navi in mare Moonbird non può che limitarsi a osservare dall’alto. E a denunciare quello che succede.
Il monitoraggio dal cielo
“Quando avvistiamo una barca in difficoltà, per prima cosa avvisiamo le autorità competenti, che dovrebbero far partire i soccorsi”, spiega Stadelmann. “Ma la verità è che spesso siamo completamente ignorati, come è successo a giugno, quando per tre giorni di fila abbiamo segnalato un gommone che rischiava di affondare, senza che nessuno intervenisse. Oppure assistiamo impotenti all’intervento della cosiddetta Guardia Costiera libica”.
Stadelmann ha 30 anni e da due lavora come pilota di linea per la Swiss Air, la compagnia di bandiera svizzera. Prima di diventare pilota, durante il servizio civile, ha lavorato come assistente sociale nei centri di accoglienza per i migranti. Oggi sfrutta i giorni di ferie e di stop per partecipare, come volontario, alle missioni di Moonbird: “Quando ne discuto con i miei colleghi o amici, cerco sempre di far capire che è innanzitutto una questione umanitaria: si tratta di salvare vite in mare”, spiega.
La questione però è strettamente politica: se da un lato il mare è stato svuotato dai mezzi di soccorso, da un lato con la missione IRINI di Eunavfor Med e, dall’altro, con l’operazione Themis di Frontex, l’Agenzia per il controllo delle frontiere dell’Unione, sono stati moltiplicati gli assetti aerei impiegati nella sorveglianza delle frontiere. E dall’aeroporto di Lampedusa capita sempre più spesso di vederli decollare, equipaggiati di radar e sensori per identificare le imbarcazioni dei migranti. Senza che questo comporti un obbligo di soccorso, come invece accade per le imbarcazioni.
“Io non capisco questo sistema di sorveglianza”, dice dal municipio di via Roma il sindaco di Lampedusa Salvatore Martello, eletto nel 2017 con la lista civica “Susemuni”, “alziamoci” in siciliano. “Certo che ci sono più aerei di prima, ma questo non risolve il problema delle frontiere. Se poi in mare non c’è nessuno cosa te ne fai della sorveglianza?”
Dal punto di vista di un’isola che a novembre si è trovata di nuovo a fare i conti con un hotspot sovraffollato, Martello insiste che il problema è l’approccio: “Loro (Frontex, ndr) pensano di sapere cosa sono le frontiere e in questo sistema secondo loro dovremmo solo fare da spettatori, ma poi tocca a noi seppellire i morti”, dice. “Il punto è stabilire se questi movimenti migratori possono essere governati in sicurezza. Se non ci riesci, è ovvio che le persone finiscano nelle mani dei trafficanti. E se del soccorso non se ne occupano gli Stati, ma le ong, perché impedirlo?”.
La direzione scelta dall’Ue e dal Governo italiano, è però un’altra. Dopo gli aerei, i droni: nel luglio del 2019 il Falco EVO di Leonardo (ex Finmeccanica) è stato testato in un’operazione Frontex per intercettare un’imbarcazione di migranti. Secondo quanto riporta Altreconomia, in ottobre, la compagnia si è aggiudicata (unica a partecipare) un appalto del Viminale da 7,2 milioni di euro per il noleggio di un drone per pattugliare le frontiere marittime “esterne” e “contrastare l’immigrazione clandestina”. Nessun accenno alla ricerca e al soccorso dei naufraghi.
Questo reportage fa parte di un progetto più ampio supportato da IJ4EU per investigare la militarizzazione dei confini europei, a cui lavora un team di sei giornalisti e ricercatori europei: Vera Deleja-Hotko, Ann Esswein, Luisa Izuzquiza, Bartholomäus von Laffert, Daniela Sala and Phevos Simeonidis