L’art. 13 della Costituzione è costruito con una architettura perfetta. Si rimane affascinati dalla perfezione di quell’articolo e dalla solennità di quel suo primo comma: “la libertà personale è inviolabile”.
I nostri padri e madri costituenti, memori dei periodi illiberali vissuti, hanno con cura e dovizia fortificato quella libertà fondamentale con delle guarentigie importantissime: “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
Dunque, ogni persona dovrebbe essere privata della propria libertà personale solo con un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione) e con una legge che stabilisca i casi ed i modi della privazione (riserva di legge rinforzata).
Ciò dovrebbe valere per tutti e tutte: cittadini e stranieri.
Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo perché ben sappiamo come, nella realtà dei fatti, quell’articolo soffra di una ineffettività dolorosa. Una ineffettività che ci ricorda come, nel nostro ordinamento, alcune persone, ossia i e le migranti, non godano di quei diritti fondamentali di cui dovrebbero essere titolari.
Non a caso, nel nostro Paese, solo i cittadini stranieri possono essere privati della libertà personale per il semplice fatto di aver violato una norma amministrativa sull’ingresso o il soggiorno nel territorio del nostro Stato. Si tratta della c.d. “detenzione amministrativa”, che soffre del doppio paradosso di privare -ad oggi fino a 18 mesi- una persona della propria libertà senza aver commesso alcun reato e di non garantire neanche il rispetto di quelle garanzie (habeas corpus, giusto processo) e di quei principi (offensività, ragionevolezza, proporzionalità) propri del diritto penale.
Una detenzione in cui vengono disattese entrambe le guarentigie che presidiano l’art.13 della Costituzione: con il “simulacro” di giurisdizione che vede le convalide del trattenimento affidate alla magistratura onoraria (ossia ai giudici di pace, che per il resto dei cittadini italiani non possono disporre pene detentive) e con una palese violazione della riserva di legge, essendo i “modi” della detenzione non regolati dalla legge ma da un mero regolamento ministeriale. Un vero e proprio “stato di eccezione” che incide strutturalmente sui diritti delle persone recluse.
Da tempo, la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili denuncia le terribili violazioni dei che si verificano all’interno degli attuali CPR e i profitti che le cooperative e multinazionali, gestori privati di tali Centri, effettuano sulla pelle dei detenuti.
Violazioni di cui, ad ultimo, si è resa conto anche la Procura di Milano, grazie al lavoro instancabile di tantissime associazioni (tra le altre: No CPR; Naga, Asgi, LasciteCIEntare) che, da anni, monitorano e denunciano ciò che accade nel Centro di via Corelli.
La Procura ha, infatti, confermato quanto affermato da numerosi Rapporti della società civile ed aperto una inchiesta sul gestore del CPR milanese (Martinina srl) per frode nelle pubbliche forniture e turbativa d’asta. Secondo la pubblica accusa, tale società simulava la presenza di una serie di servizi pattuiti in sede contrattuale con la Prefettura di Milano. In particolare, il gestore del CPR: (i) somministrava ai trattenuti cibo avariato e scaduto; (ii) svolgeva illegittimamente (essendo di competenza della ASL) delle visite di idoneità al trattenimento del tutto superficiali, trattenendo persone che non potevano essere detenute (malati oncologici; soggetti affetti da gravi patologie psichiatriche; tossicodipendenti); (iii) non svolgeva il servizio di informazione normativa (vitale per far conoscere ai detenuti i loro diritti, compresa la possibilità di poter chiedere asilo). Inoltre, come denunciato da una inchiesta di Altreconomia, la società Martinina per aggiudicarsi l’appalto di gestione del CPR (dell’ammontare di 4 milioni di euro) aveva presentato documentazione falsa, simulando la presenza di convenzioni con associazioni del privato sociale.
Vorremmo poter dire che quanto accaduto nel CPR di Milano sia una eccezione ma non è così. Si tratta di violazioni denunciate in ogni Centro di Permanenza per i Rimpatri, veri e propri luoghi di sospensione dei diritti più basilari.
Infatti, l’istituto della detenzione amministrativa è già da ritenersi una anomalia inaccettabile, considerando -peraltro- come essa abbia assunto una pericolosa connotazione polimorfa: non solo CPR ma anche i controversi “hotspot” o, ancor peggio, i “locali idonei” (istituiti dal d.l. n.113/2018) nelle disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza (di fatto, delle celle nelle questure o negli aeroporti) dove poter detenere i cittadini stranieri in attesa di espulsione ed in caso di indisponibilità di posti nei Centri di Permanenza per i Rimpatri.
Con il Protocollo Italia-Albania, firmato il 6 novembre scorso, siamo -però- approdati in uno scenario distopico, degno dei peggiori processi di esternalizzazioni australiani.
La finzione giuridica giunge a toccare vette inesplorate: i migranti salvati dalle autorità italiane (e dunque già sotto la giurisdizione italiana in base all’art. 4 del codice della navigazione) verranno condotti, contro la loro volontà, in Albania (Paese non appartenente all’UE) con il fine di impedirne l’ effettivo ingresso nel territorio del nostro Stato.
In Albania si realizzerà una vera e propria extraterritorialità giuridica: i migranti saranno prima trattenuti in un Centro di primo soccorso, dove verranno sottoposti al rilevamento segnaletico e, poi, condotti in un’altra struttura dove verrà svolto l’esame dell’eventuale domanda di asilo e si procederà al rimpatrio di chi non ha diritto alla protezione. Il tutto si dovrebbe svolgere in base alle norme italiane e con personale, amministrativo e giudiziario, italiano.
Tuttavia, come evidenziato dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, non è affatto chiara la natura giuridica dei Centri che si realizzeranno in Albania né la condizione giuridica delle persone straniere che saranno trattenute, così come incerta è la natura e la durata delle procedure che verranno attuate (dal fotosegnalamento alla detenzione finalizzata all’espulsione).
Ciò che appare certo è l’ennesimo stato di eccezione che si riserva ai migranti. A riguardo, il prof. Luigi Ferrajoli ha lucidamente osservato come tale Protocollo testimoni il “disprezzo per il diritto e per i diritti della destra al governo: la deportazione dei migranti in Albania, una sorta di Guantanamo italiana, in violazione del diritto d’asilo e dell’habeas corpus. Le persone non sono cose e la privazione della loro libertà necessaria per trasferirle in Albania contro la loro volontà è chiaramente un sequestro di persona”.
Fatto sta che, in Italia, il Governo ha inizialmente affermato che non fosse necessaria una ratifica parlamentare di tale Protocollo, salvo -poi- effettuare una marcia indietro, consapevoli della clamorosa violazione dell’art.80 della Costituzione che si stava attuando. Dunque, seguendo la procedura di ratifica prevista da tale disposizione costituzionale, il Consiglio dei Ministri deve approvare un disegno di legge di ratifica di cui il Presidente della Repubblica deve autorizzare la presentazione al Parlamento (come per tutti i ddl governativi ex art. 87 Cost.), che potrà solo approvare o respingere il Protocollo, non emendarlo.
L’approvazione del ddl di ratifica da parte del CdM è avvenuta il 5 dicembre scorso.
Il 18 dicembre, il Presidente della Repubblica ne ha autorizzato la presentazione alle Camere.
Giova precisare come l’autorizzazione del PdR alla presentazione dei disegni di legge governativi è stata progressivamente riconosciuta dalla dottrina non più come una verifica sulla mera sussistenza dei requisiti formali ma come potere da inquadrare in una più generale funzione di garanzia della Costituzione. Pur non ritenendo che il PdR possa arrivare ad un rifiuto di tale autorizzazione (nel rispetto imposto dal sistema repubblicano-parlamentare) vi sono stati dei casi (da Einaudi a Pertini) in cui si è esercitato un potere di “autorizzazione con osservazioni” e, addirittura, di rinvio al Governo del ddl con “richiesta di riesame”.
Il Presidente Matterella avrebbe potuto, insomma, già in sede di tale autorizzazione evidenziare all’Esecutivo le perplessità in ordine alla legittimità costituzionale di tale accordo. Tra tutti una palese ed eclatante violazione del principio di uguaglianza (art.3 Cost) con i migranti trasferiti in Albania che subiranno gravi ed illegittime discriminazioni (a partire dal minare il fondamentale diritto di difesa che potrà esser garantito solo da remoto) fino alla violazione dell’art. 31 della Convenzione di Ginevra (con conseguente violazione dell’art.117 Cost.) che vieta di discriminare i richiedenti asilo sulla base della nazionalità, come invece avviene per i migranti che verranno condotti nei Centri albanesi per il solo fatto di essere originari dei “Paesi sicuri”. Di più, considerato che i CPR italiani vedono per la maggior parte la presenza di cittadini della Tunisia e che i rimpatri avvengono, per la stragrande maggioranza, verso tale Paese, ciò che potrebbe accadere è una “selezione” della popolazione da trasferire in Albania, con la deportazione in massa di tunisini.
In ogni caso, mentre in Italia, l’iter di ratifica di questo vergognoso Protocollo sembra procedere senza intoppi; in Albania qualcosa è accaduto.
Il 13 dicembre, la Corte costituzionale albanese, in seguito ad un ricorso presentato dall’opposizione parlamentare, ha sospeso per 3 mesi la procedura di ratifica dell’Accordo, al fine di verificare la compatibilità di quest’ultimo con la Costituzione albanese e le Convenzioni internazionali.
Al di là, dunque, della (forse) scontata ratifica in Italia di tale Protocollo, grazie alla parte albanese vi è stata una battuta di arresto e si è guadagnato del tempo.
Tre mesi in cui sarà necessario non solo approfondire gli aspetti giuridici controversi di tale provvedimento ma anche e soprattutto organizzare, con tutta la società civile, una resistenza alla realizzazione della “Guantanamo italiana”.
C’è un giudice a Tirana. E meno male.