La cerimonia con cui il 12 settembre a Doha è stato inaugurato il negoziato “intra-afghano”, alla presenza del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, del responsabile dell’Alto consiglio afghano per la riconciliazione nazionale Abdullah Abdullah, del numero due dei Talebani mullah Abdul Ghani Baradar, è frutto della volontà dell’amministrazione Trump di chiudere il dossier afghano e capitalizzarlo nella campagna elettorale di novembre. Donald Trump due anni fa ha dato mandato al suo inviato, Zalmay Khalilzad, di trovare un accordo politico con i Talebani, raggiunto poi a Doha lo scorso febbraio. Non si tratta di un accordo di pace vero e proprio, ma di un trattato che prevede il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan – la prima e principale richiesta dei Talebani – in cambio dell’impegno degli studenti coranici nell’anti-terrorismo. Quell’accordo prevedeva anche che i Talebani siedessero al tavolo negoziale con i rappresentanti del governo e della società: il negoziato “intra-afghano” cominciato pochi giorni fa. Il cui obiettivo è mettere fine al conflitto, trovare un vero accordo di pace.
Si tratta di un passaggio storico, necessario ma senza alcuna garanzia di successo, accolto con un misto di speranza e preoccupazione. La preoccupazione che non si trovi un compromesso tra il fronte degli studenti coranici e quello repubblicano, tra due diverse idee di società e di governo; che gli appetiti regionali destabilizzino ulteriormente il territorio, o che i Talebani – pronti a rassicurare la comunità internazionale, ma non a dialogare la società – si dimostrino intransigenti, poco inclini a riconoscerne i cambiamenti. Ma c’è anche la speranza che la violenza cessi, che non ci siano più vittime civili, che il Paese possa tornare stabile, pronto ad accogliere la grande diaspora afghana e a fermare l’emorragia di giovani e meno giovani che decidono o sono costretti a lasciare il Paese.
Per più di due decenni l’Afghanistan ha detenuto un primato drammatico: la maggior parte dei rifugiati registrati dalle Nazioni Unite proveniva da qui, da questo territorio stretto tra vicini ingombranti, ecologicamente fragile, culturalmente ibrido ma percepito come immobile (tanto da poter essere cambiato soltanto con un intervento esterno). Il “primato” è passato poi ai siriani piegati da una guerra civile divenuta presto regionale e internazionale, ma gli afghani non hanno mai smesso di emigrare, come testimoniano alcuni rapporti del 2020, il rapporto dell’Unhcr “Global Trends” e le recenti dichiarazioni dell’Alto commissario dell’Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, secondo il quale “la crisi da migrazioni forzate dall’Afghanistan è una delle più ampie e delle più prolungate nei sette decenni di storia dell’Unhcr”. I numeri, per quanto freddi e comprensivi solo di quanti rientrano nei registri ufficiali, fanno impressione: ancora oggi circa 2,7 milioni di rifugiati afghani vivono fuori dal Paese, mentre altri 2,6 milioni sono sfollati interni, costretti a lasciare le proprie case per insicurezza, calamità naturali, povertà o per scelta. L’Afghanistan rimane il secondo Paese al mondo per numero di rifugiati.
Nel 2001, in seguito al rovesciamento dei Talebani, qualcuno pensava che il processo di democratizzazione sponsorizzato dalla comunità internazionale e sotto tutela dei militari stranieri avrebbe garantito stabilità, favorito il rientro dei milioni di afghani che a partire dalla fine degli anni Settanta hanno trovato rifugio in Iran e Pakistan. Due Paesi che hanno alternato aperture e politiche inclusive a respingimenti forzati e brutale autoritarismo nei confronti degli afghani. Risale al 2012 la stipula di un accordo tripartito tra Afghanistan, Pakistan e Iran, mediato dalle Nazioni Unite, con cui l’Onu immaginava di favorire il rimpatrio volontario della maggior parte degli afghani. Grazie all’Onu circa 5,3 milioni di persone sono rimpatriate dal 2001. Ma molte altre rimangono all’estero, a dispetto del “Solutions Strategy for Afghan Refugees”, l’accordo tripartito. Molto meno di quanto si pensava.
Qualcuno aveva finito per credere davvero che “democrazia e giustizia potessero trionfare”, ma si è ritrovato a fare i conti con un conflitto sempre più intenso tra i Talebani da una parte e il governo di Kabul e gli alleati stranieri dall’altra. Con un governo corrotto e inefficiente, che drena risorse pubbliche e che non è riuscito a sganciare l’economia dai donatori internazionali, sui quali si reggono tre quarti del bilancio statale. Al posto della stabilità auspicata si è registrata un’intensificazione del conflitto; la ripresa economica si è dimostrata drogata, gonfiata dall’economia di guerra e della dipendenza dai donatori stranieri; gli aiuti della comunità – superiori alle capacità di assorbimento del tessuto istituzionale – hanno finito per alimentare la corruzione, ampliando il deficit di fiducia tra cittadini e governo. E i Talebani hanno guadagnato terreno, sfruttando la sempre più ridotta legittimità del governo, confermata dalle ultime elezioni presidenziali, scarsamente partecipate, viziate da brogli e contestate fino allo scorso maggio.
Per chi è fuori dal Paese, le ragioni per non tornare sono tante. Chi è dentro ne trova altrettante per tentare fortuna altrove. Alle aspettative ottimistiche del post-Emirato si è sostituito il pragmatismo della realpolitik: “gli afghani continueranno a emigrare, dobbiamo contenerli”. Così hanno pensato nelle cancellerie occidentali, soprattutto in quelle dell’ipocrita Unione europea, pronta sulla carta a pretendere il rispetto dei diritti umani ma altrettanto celere nell’imporre al fragile governo di Kabul accordi-capestro.
Come il Joint-Way Forward, l’accordo tra l’Unione europea e il governo di Kabul firmato a Bruxelles nell’ottobre 2016. Prevede il rimpatrio – anche forzato – di tutti quegli afghani la cui richiesta di asilo venga rigettata dai Paesi membri. Quattro anni fa, quando Bruxelles e Kabul discutevano i contenuti dell’accordo e l’allora ministro afghano per i Rifugiati (sostituito pochi giorni fa) puntava i piedi e si rifiutava di apporre la sua firma, i gruppi della società civile afghana ed europea sottolineavano l’aspetto ricattatorio dell’accordo: soldi in cambio di rimpatri. A Bruxelles negano che sia così, ma gli afghani lo sanno bene: l’Europa ha condizionato lo stanziamento di milioni di euro in aiuti allo sviluppo all’accettazione dei rimpatri. E ha trovato un alleato nella Turchia, che nel 2018 ha cominciato a condurre veri e propri rimpatri di massa di afghani, senza chiedere l’assistenza dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.
I numeri, poco aggiornati e non comprensivi di tutti e tutto, sono chiari. Secondo un rapporto pubblicato nel novembre 2019 dall’Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (Ahrdo), sarebbero 19.390 gli afghani rispediti indietro dai Paesi dell’Unione europea tra il 2015 e il 2017, di cui circa la metà forzatamente, mentre l’Eurostat indica che nel 2019 sarebbero stati notificati a cittadini afghani 26.900 ordini di lasciare l’Unione europea. Dal 1 gennaio a metà aprile 2019, sarebbero invece 4.219 gli afghani rimpatriati forzatamente dall’Unione europea e dalla Turchia (la maggior parte – 3.560 – dalla Turchia).
I rimpatri si sommano a una riduzione, nella maggior parte dei Paesi europei, del tasso di riconoscimento della richiesta di asilo per gli afghani. Così come nella diminuzione delle stesse domande di asilo presentate dagli afghani. Nel corso degli ultimi anni, gli afghani hanno rappresentato la seconda nazionalità per numero di richiesto di asilo in Europa, dopo la Siria e prima dell’Iraq. Ma i numeri sono diminuiti in particolare dopo l’adozione del Joint Way Forward. Sia nel 2015 che nel 2016, 600.000 afghani hanno fatto richiesta di asilo nei Paesi europei, mentre nel 2017 erano 43.625 e nel 2018 erano circa 41.000, il 7% del totale dei richiedenti asilo. Una tendenza che Abdul Ghafoor, fondatore e direttore dell’Afghanistan Migrants Advice and Support Organization (Amaso), ci ha sintetizzato così, alcuni mesi fa a Kabul: “Perché i paesi dell’Unione europea dovrebbe concedere l’asilo se c’è un accordo che consente loro di rimpatriare chi ne fa richiesta?”.
Secondo Amnesty International, i rimpatri forzati contraddicono il principio – sancito dal diritto internazionale – del non-refoulement, che vieta il rimpatrio dei richiedenti asilo in Paesi in cui siano a rischio di persecuzione a causa di “razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o per un’opinione politica”. Paesi in cui si rischia la vita. Un principio spesso aggirato con l’idea che sì, l’Afghanistan è un Paese insicuro, ma non tutto il territorio nazionale. Così, soltanto nell’agosto del 2018 l’Unhcr è tornata a considerare Kabul come destinazione non adatta come “internal protection alternative”. Molti Paesi europei, invece, la considerano ancora sicura.
In Afghanistan però anche le città sono insicure. Inoltre il sistema-istituzionale è incapace di soddisfare i bisogni degli sfollati interni, che crescono ogni anno, anche a causa dei cambiamenti climatici, e non è in grado di assorbire la spinta demografica e sociale di quanti rientrano dall’estero. Verso i quali in questo periodo cresce l’ostilità, secondo la tesi non dimostrata che chi torna da fuori porti con sé il coronavirus. Nel solo mese di marzo 2020, sono stati 16000 i migranti afghani senza documenti rientrati nel Paese. Da gennaio a inizio settembre 2020, sono stati più di 376.000 gli afghani rientrati da Iran e Pakistan. In un solo mese, dal 22 agosto al 21 settembre, sarebbero 81.000 quelli rientrati dall’Iran. Sono parte di quell’immenso bacino di lavoratori informali che non potranno più sostenere le famiglie: per la Banca mondiale, nel 2019 le rimesse dall’estero hanno ammontato a 868 milioni di dollari. Nel 2020, il calo sarà radicale.
Tra poche settimane a Ginevra si terrà una conferenza organizzata dai governi finlandese e afghano insieme alla missione dell’Onu a Kabul in cui i donatori internazionali dovranno rinnovare l’impegno finanziario in favore dell’Afghanistan, o certificare la tendenza al disimpegno già in atto. La formula ricattatoria adottata nel 2016 a Bruxelles potrebbe tornare a imporsi. Perché i rimpatri e i respingimenti alle frontiere sono sempre più centrali nelle politiche migratorie dell’Unione europea, come dimostra il nuovo Patto europeo per le migrazioni e l’asilo. E perché rimane immutato il presupposto di partenza, tradotto nelle tre soluzioni principali adottate dall’Unhcr per “risolvere” la questione dei rifugiati: rimpatrio volontario nel Paese di origine, integrazione nel Paese-ospitante. ricollocamento in un Paese terzo. Il presupposto è che la mobilità sia un problema e che l’unica soluzione sia fermarla, impedirla.
Proprio la storia delle migrazioni afghane insegna che non è così, non è soltanto così: gli afghani hanno alle spalle una lunga storia di migrazioni, interne, regionali, transnazionali, che precedono il conflitto. La mobilità è sempre stata parte del panorama sociale e culturale afghano. Guerra, insicurezza e povertà non sono dunque le uniche matrici delle migrazioni: la guerra ha intensificato e reso più drammatico un processo già in atto, che per molte famiglie e intere comunità fa parte di una strategia pianificata, volontaria, e che è divenuto – come viene spiegato qui – un vero e proprio “capitale sociale, economico e politico”.
Che Bruxelles lo capisca è impossibile. Ma è difficile che lo capiscano anche i politici afghani, che hanno cercato di arginare la spinta centrifuga verso l’estero con messaggi contraddittori. Tutti ricordano le campagne governative per scongiurare le migrazioni. Ancora di più le parole usate nel 2016 dal presidente Ashraf Ghani, un tecnocrate vissuto per 25 anni negli Stati Uniti, tra università prestigiose e Banca mondiale. “Non ho simpatia per chi lascia l’Afghanistan, perché rompe il contratto sociale” e vanifica gli sforzi fatti dal governo.
Così Ghani, rappresentante di quel fronte repubblicano che nel negoziato in corso a Doha rivendica lo stato di diritto e la libertà di espressione contro il dogmatismo autoritario e misogino dei Talebani. Il negoziato è un percorso accidentato. L’esito incerto. Un accordo di pace non garantito. Potrà essere duraturo soltanto se diventerà l’occasione per forgiare un nuovo contratto sociale che tuteli come cittadine e cittadini tutte le afghane e gli afghani. E garantisca loro libertà di movimento.
In copertina: colloqui di pace a Doha