Mustafa vende carni halal a pochi passi dal Municipio di Nembro, sette km da Bergamo, uno dei paesi più colpiti dall’emergenza della Val Seriana. Su una popolazione di 11 mila e 500 abitanti, le vittime del Covid qui sono state 158.
Questo negozio è più di una macelleria, perché qui si vendono anche altri prodotti alimentari e articoli per la casa, dalle teiere tradizionali in alluminio alle tajine in terracotta, ed è diventato uno dei punti di riferimento per la spesa della comunità musulmana della zona.
“Quando è scoppiata l’emergenza – ricorda Mustafa mentre incarta un mazzo di menta che una cliente gli ha chiesto per il tè – molte delle famiglie che vivono nei paesi vicini hanno smesso di mangiare la carne perché non potevano lasciare il proprio comune per venire qui, né acquistarla in un qualunque supermercato. Così dopo i primi tempi in cui non si capiva bene cosa sarebbe successo, abbiamo deciso di attrezzarci con le consegne a domicilio su prenotazione. Ho anche preso una multa per questo, poi il Comune di Nembro e la Polizia locale mi hanno fornito un permesso per le consegne di generi alimentari e da allora non ci sono più stati problemi.”
Mustafa è di origine marocchina, viene da un piccolo villaggio fra Marrakech e Casablanca, e ha aperto questa attività due anni e mezzo fa. Il lavoro non manca, anche perché nella bassa Val Seriana c’è solo un’altra rivendita che rispetta la macellazione tradizionale e si trova ad Albino, quattro km più avanti lungo il fiume Serio, ma i cittadini di fede islamica sono tanti e di differenti comunità.
Dopo il 4 maggio i clienti sono tornati a fare la spesa: si entra uno alla volta, con guanti e mascherina, e per sicurezza Mustafa ha collocato un bancone di legno davanti alla cassa in modo che i clienti debbano mantenere la distanza anche al momento di pagare il conto.
“Siamo sempre stati aperti – dice – anche se durante il Ramadan abbiamo cercato di chiudere prima delle 20, in modo da essere a casa per l’Iftar. È stato completamente diverso questa volta, doverlo trascorrere fra pochi intimi, noi che siamo abituati a rompere il digiuno tutti insieme, a celebrare quel momento. Ci siamo adeguati per la sicurezza di tutti, come d’altronde hanno fatto anche le persone di altre fedi religiose.”
Per la prima volta anche il Centro culturale islamico di Bergamo, il più grande della provincia che raccoglie fedeli e associati dalla città e dai tanti paesi vicini, ha dovuto rinunciare al Centro Galassia, vicino all’aeroporto di Orio al Serio, dove ogni anno in occasione del Ramadan organizzava una tensostruttura aperta tutte le sere per le letture e la cena.
“Gli altri anni offrivamo ogni giorno un pasto caldo alle persone bisognose, riuscivamo a sfamarne ameno un’ottantina, e anche di più nel fine settimana – ricorda Mohamed Saleh, presidente del Centro – mentre questa volta abbiamo deciso di distribuire dei pacchi alimentari alle famiglie in difficoltà, per non lasciare indietro nessuno durante l’emergenza. Certo, il clima del “tendone” era un’altra cosa, invitavamo anche la gente del quartiere a mangiare con noi, per celebrare un momento di conoscenza e allegria, e speriamo si possa tornare a farlo il prossimo anno. Nel frattempo abbiamo voluto dare comunque un segnale a chi aveva più bisogno.”
I volontari impegnati nelle consegne sono stati una decina, e per chiedere l’autorizzazione a farli circolare fra Bergamo e provincia, Saleh ha scritto una lettera al Comune e alla Prefettura: “siamo partiti con la consegna a 17 famiglie e siamo arrivati a 43 – dice con orgoglio – e la cosa più bella è che gli associati hanno aderito all’iniziativa e con le loro donazioni abbiamo potuto coprire i costi della spesa per tutti.”
Il Centro culturale Islamico di Bergamo è stato fra i dieci della Lombardia che si sono messi in rete, su iniziativa della moschea di Segrate, per raccogliere fondi da destinare agli ospedali della regione: insieme hanno raggiunto la somma di 29 mila e 500 euro, dei quali 4mila e 500 da Bergamo. “Siamo stati tutti colpiti da questo tsunami – racconta Saleh, egiziano di origine, bergamasco di adozione da oltre trent’anni – era doveroso fare qualcosa, e ognuno ha cercato di dare il meglio che poteva. Adesso abbiamo un’altra raccolta fondi in corso indipendente dal Ramadan, per il saldo della concessione del Cimitero islamico al Comune di Bergamo. Perché in questo momento drammatico si è capita davvero l’importanza di uno spazio idoneo di sepoltura.”
L’accordo con il Comune risale al 2008, quando il terreno di 1600 mq è stato concesso per 60 anni alla comunità musulmana al costo di 60 mila euro da versare per metà entro i due anni e da saldare dopo altri dieci, e dunque nel 2020. “Normalmente abbiamo 20 richieste di sepoltura all’anno, in questi due mesi e mezzo abbiamo superato le 40, e la comunità marocchina è stata quella che ha pagato il prezzo più alto in termini di vite umane, con 17 vittime.”
I cittadini stranieri residenti in provincia di Bergamo sono poco più di 120 mila, pari al 10,8% della popolazione, e la comunità più numerosa è proprio quella proveniente dal Marocco, che rappresenta il 14,7% del totale (dati aggiornati al primo gennaio 2018). Un’altra presenza consistente è rappresentata dai boliviani, che contano fra le 12 e le 13 mila persone: in pratica circa la metà degli immigrati dalla Bolivia in Italia vive a Bergamo, dove il punto di riferimento, oltre ad una rete di associazioni folkloristiche e sportive, è la Missione Santa Rosa da Lima.
“Questa diocesi di cui sono il cappellano – spiega Don Mario Marossi, bergamasco rientrato dalla Bolivia vent’anni fa – fa riferimento a numerosi preti etnici, fra i quali un filippino, un ucraino, un africano francofono e un anglofono. Io seguo i latinoamericani, non solo boliviani, perché qui a Bergamo vivono anche un migliaio di equadoregni e poi argentini e peruviani.”
Anche queste comunità si sono date da fare durante l’emergenza, e per loro la parrocchia è diventata il punto di riferimento per gestire la rete dei volontari, che si sono occupati della consegna del cibo a domicilio e che hanno collaborato ai lavori dell’ospedale realizzato in Fiera sotto il coordinamento dell’Ana, l’Associazione nazionale Alpini.
“Il primo problema che abbiamo affrontato – ricorda Don Mario – è stato quello della diffusione delle informazioni, perché tanti immigrati non leggono i giornali locali e guardano poco i telegiornali italiani, e dunque era importante che venissero a conoscenza dei numeri utili e di tutti i servizi messi a disposizione dal comune e dal sistema sanitario. Poi ci siamo dedicati alla distribuzione del cibo: ogni gruppo di tre o quattro persone aveva in carico una decina di famiglie alle quali consegnare la spesa, che in parte veniva acquistata e in parte integrata con i prodotti raccolti col banco alimentare.”
La comunità boliviana ha anche deciso di cominciare a produrre mascherine da donare alle famiglie bisognose e alle badanti; una parte della produzione è stata data alla Protezione civile.
“Quello dei latinos è un mondo complesso, ci sono migranti che sono qui da parecchi anni – dice Don Mario – altri sono giovani nati e cresciuti nella bergamasca e quindi slegati dalla prima generazione, altri ancora di fresca immigrazione arrivati con i ricongiungimenti familiari. Sul territorio hanno molti riferimenti, non solo religiosi, ma anche sportivi e culturali, che ora lentamente stanno riprendendo a funzionare.”
Il vero problema post emergenza è il lavoro, soprattutto per chi, come le badanti, non solo lo ha perso, ma difficilmente ne troverà un altro in tempi brevi. Con l’altissimo numero di vittime fra gli anziani, tutte coloro che avevano un’occupazione nell’assistenza domestica e nella cura della persona si sono ritrovate senza stipendio e senza alloggio.
“Ricevo sempre più telefonate da donne che hanno perso il lavoro domiciliare – spiega Don Mario – alcune sarebbero tornate volentieri in Bolivia per risparmiare i soldi che invece stanno continuando a spendere per vivere qui senza un’occupazione. Per non parlare poi delle rimesse che mandavano a casa e che ora non ci sono più, perché sono servite a coprire le spese personali quotidiane. In tante vengono qui a chiedere un aiuto per l’affitto o le bollette.”
Le lavoratrici domestiche censite a Bergamo e provincia dall’Inps sono 10 mila, e solo nel mese di marzo, secondo i dati Cisl, hanno perso il 30% dei contratti per decesso del datore di lavoro, inaccessibilità delle Rsa dove prima prestavano assistenza o per la paura del contagio che frena la ricerca di personale da parte delle famiglie che pure avrebbero bisogno di un aiuto. Alle assunzioni regolari si deve aggiungere il sommerso, che secondo le stime porterebbe al doppio (20 mila) il totale delle donne, prevalentemente straniere, impiegate nel lavoro di cura della persona.
“Il discorso sull’immigrazione si è concentrato solo sulla questione di rifugiati e richiedenti asilo, e se si parla di lavoro sui braccianti agricoli del Sud – spiega Don Mario – ma la verità è che anche al Nord ci sono problemi occupazionali, con il lavoro domestico che coinvolge prevalentemente boliviane, ucraine, romene e moldave, ma anche con quello edile ed agricolo, specialmente nelle serre dove lavorano prevalentemente cittadini stranieri che non sempre hanno i documenti in regola e dunque accettano loro malgrado il lavoro nero, nella totale assenza di diritti.”
In provincia di Bergamo il 68% della popolazione straniera è comunque stabile, e rappresenta l’11% dei contribuenti autonomi e il 17% di quelli dipendenti, per un apporto pari a circa un decimo del Pil provinciale. Agricoltura, industria e servizi sono i settori che più vedono la presenza di cittadini stranieri, con l’attivazione di oltre 153 mila contratti dal 2014 ad oggi, e 7 mila e 400 posti stabilizzati. Il settore agricolo è quello più in crescita, anche fra i giovani, pure se stagionale, con un maggiore assorbimento di manodopera nell’ortofrutta, nelle coltivazioni industriali e del florovivaismo. In particolare nelle aree dei laghi e della Bassa risultano qui occupati gli indiani sikh, provenienti in prevalenza dal Punjab, che nella bergamasca formano una comunità che supera le 11 mila presenze.
Il loro punto di riferimento sul territorio è il tempio di Cortenuova, il Gurdwara Singh Sabha, uno dei più grandi d’Europa, in grado di ospitare fino a tremila persone durante le celebrazioni. “Abbiamo appena riaperto alle funzioni settimanali in presenza ma con un limite massimo di 200 persone – spiega Satwinder Singh, vice presidente del Gurdwara – quando normalmente ci ritroviamo anche in due o tremila persone. Durante il lockdown abbiamo mandato in diretta le celebrazioni attraverso la nostra pagina Facebook, in modo che si potessero seguire anche da casa.”
Anche la comunità sikh non ha lasciato indietro nessuno, e si è attivata con un crowdfunding sulla piattaforma Gofoundme a favore dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, dell’Avis e della Protezione Civile di Cortenuova, oltre a provvedere alle famiglie bisognose con la consegna a domicilio della spesa. “Abbiamo avuto molte segnalazioni di gente che aveva perso il lavoro – ricorda Satwinder – e altri che non avendo i documenti in regola avevano paura anche solo a uscire di casa per comprare da mangiare. Sono stati mesi difficili, ma ora va meglio. Noi ci siamo sempre stati, anche dal punto di vista spirituale, con la lettura completa del Libro sacro, che dura 48 ore ininterrotte; di solito è una pratica richiesta da singoli o famiglie per esigenze particolari, questa volta è stata una nostra decisione come Consiglio, per dare e darci forza in un momento così difficile. Ora continuiamo a svolgere la funzione domenicale dalla mattina alla sera, per dare la possibilità a tutti, senza assembramenti, di passare a qualsiasi ora e trovare comunque accoglienza.”
In copertina: Intermo del tempio sikh Gurdwara Singh Sabha di Cortenuova (gentile concessione di Satwinder Singh)