Le tensioni tra il regime bielorusso di Alexander Lukashenko, al potere senza soluzione di continuità dal 1994, e l’Unione europea sono iniziate con le elezioni in Bielorussia dell’agosto 2020. Già nel 2015, dopo l’ennesima vittoria elettorale, c’erano state tensioni, ma nulla in confronto con le proteste di un anno fa.
Decine di migliaia di dimostranti, per mesi, hanno contestato il risultato elettorale che consegnava – per l’ennesima volta – il paese alla guida autocratica di Lukashenko. La repressione della dissidenza è stata molto dura, condannata dalla comunità internazionale, sia a livello di istituzioni europee che da parte delle principali organizzazioni internazionali indipendenti che si battono per il rispetto dei diritti umani.
Molti dissidenti bielorussi hanno trovato scampo da persecuzioni e arresti fuggendo all’estero, in particolare nelle vicine Lituania e Polonia. Ed è qui che comincia la nostra storia, quando il volo Ryanair FR4978 viene dirottato a Minsk da caccia militari bielorussi e viene costretto ad atterrare. A bordo c’erano il giornalista Roman Protasevich, ritenuto vicino all’opposizione in Bielorussia, e la sua compagna Sofia Sapega. Che vengono arrestati.
L’Unione europea e i governi coinvolti, come la Lituania (da dove era partito il volo) e la Polonia, che ospita molti dissidenti bielorussi, hanno protestato veementemente, minacciando sanzioni contro Minsk.
Da quel momento, con una rapida intensificazione negli ultimi mesi, dalla Bielorussia si è aperta una rotta migratoria verso Polonia e Lituania, senza precedenti. Il legame tra i due fattori non è una speculazione: commentando davanti al parlamento bielorusso le pressioni Ue, lo stesso Lukashenko ha dichiarato: “Stavamo fermando migranti e droga per l’Unione europea, ma ora non possiamo più farci carico di questo enorme lavoro e ci penserà l’Ue”.
Detto, fatto. Solo dall’inizio del 2021, sono più di 4mila i migranti (in gran parte iracheni) che sono entrati illegalmente in Lituania dalla frontiera bielorussa e questi attraversamenti – secondo le autorità lituane – non sono stati solo consentiti dalle autorità bielorusse, ma sono stati da loro facilitati.
Minsk ha agevolato – sospendendo la necessità di ottenere un visto – l’ingresso per i “turisti” dall’Iraq e da altri paesi. Le agenzie di viaggio hanno portato i visitatori a Minsk – per una cifra che in alcuni casi, tra viaggio e ‘mediatori’, arriva a costare 10mila euro – da dove i funzionari hanno organizzato il loro trasporto al confine, in taxi o con pullman.
L’Ue, a causa delle vibranti proteste del governo lituano, ha fatto pressione su Baghdad e il governo iracheno all’inizio di agosto ha imposto alla compagnia di bandiera irachena, Iraqi Airways, di sospendere i suoi voli – ormai regolari – per Minsk e ha accettato di gestire il rimpatrio di molti iracheni giunti in Lituania dopo che questi hanno provato a presentare domanda di protezione internazionale, regolarmente respinta.
Un approccio molto simile è quello che il regime bielorusso ha seguito con la Polonia, dove solo ad agosto sono state più di 2.100 le persone entrate illegalmente nel paese dal confine con la Bielorussia. In questi giorni, 32 afgani sono bloccati al confine tra i due paesi: la Polonia nega loro l’ingresso e la Bielorussia si rifiuta di riprenderli.
I primi ministri di Lituania e Polonia, ai quali si sono uniti subito quelli di Estonia e Lettonia – che temono di finire nel mirino di Lukashenko – hanno esortato le Nazioni Unite ad agire contro la Bielorussia, accusando Lukashenko di condurre una “guerra ibrida”.
I governi di Lituania e Polonia, oltre a minacciare ritorsioni contro la Bielorussia e a chiedere immediato sostegno all’Ue per la questione, sono partiti a organizzare quella che sempre di più – al di là della retorica che ciclicamente torna sui media internazionali, come per la presa di Kabul da parte dei talebani – pare l’unica risposta della civilissima Europa ai problemi coi migranti: costruire muri.
Nello specifico, si tratta di due reti di filo spinato. Il 23 agosto scorso il ministero della Difesa polacco ha annunciato che, oltre alla recinzione alta 2,5 metri lungo la maggior parte del confine di 150 chilometri,, saranno schierati anche reparti dell’esercito per proteggere la frontiera. Lo stesso giorno, il governo lituano ha annunciato che completerà una recinzione di 508 km lungo il confine con la Bielorussia entro settembre del prossimo anno.
In tutto questo, che fine fanno i migranti? Un gruppo di dimostranti, una settimana fa, si è incatenato con il filo spinato a Varsavia per sostenere il diritto del gruppo di afgani bloccati al confine tra Polonia e Bielorussia ad essere accolti, mentre in Lituania c’è polemica per le condizioni all’interno dei due centri dove vengono smistati – in attesa del rimpatrio – gli iracheni.
Di base, come sempre, le tensioni politiche ormai si alimentano dell’uso dei migranti come un’arma impropria. Senza alcuno scrupolo, da nessuna delle parti in causa, si usano le vite, le paure, i sogni e le aspettative di migliaia di persone che finiscono al centro di conflitti con i quali non c’entrano nulla, mentre nelle istituzioni europee a nessuno importa dei conflitti dai quali scappano.
Erdogan, le milizie libiche, Lukashenko; cambiano gli attori, ma resta lo stesso copione, nell’interpretazione del quale brillava il colonnello Gheddafi: sfruttare il frutto avvelenato della narrazione tossica sulle migrazioni in Europa per ricattare e ottenere risultati. L’Ue dovrebbe, prima di tutto, tirarsi fuori da questo cul de sac che ha contribuito a creare rimettendo i diritti delle persone al centro del discorso pubblico e dell’attività legislativa.
Immagine di copertina via Twitter