Il mestruo, la puzza di vomito, il sudore, le mani degli uomini sui corpi delle donne, e 75 persone ammassate sotto coperta. Maysoon Majidi descrive così le ultime ore in mare prima dell’arresto. La 27enne curda, regista, attrice e attivista per i diritti umani in Iran è arrivata sulle coste calabresi lo scorso 31 dicembre. Per il regime di Teheran è persona non gradita. Per l’Italia, invece, una presunta scafista.
Subito dopo il suo arrivo, Maysoon Majidi è stata arrestata e al momento si trova nel carcere di Castrovillari. Secondo l’accusa avrebbe aiutato nella distribuzione di pasti durante il viaggio, il che, in base all’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione, è sufficiente per incriminarla per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e impedirle – quanto meno al momento – di chiedere la protezione internazionale. Per Parisa Nazari, mediatrice interculturale e attivista del movimento “Donna vita libertà”, è stato “il suo essere un’attivista, una caratteristica che non l’ha mai abbandonata neanche durante il viaggio, a costarle non solo le torture, il rischio dell’arresto in Iran e la fuga nel Kurdistan iracheno, ma anche il carcere in Italia”. Majidi, infatti, è sempre stata pronta ad aiutare gli altri e a battersi per i diritti di tutti e tutte. Protagonista delle proteste in Iran nel 2019 e dopo essere stata più volte arrestata e picchiata, fugge con il fratello ad Erbil (Kurdistan iracheno). Da lì si fa portavoce delle proteste successive all’uccisione di Mahsa Amini, nel settembre 2022. Dopo un anno, neanche il Kurdistan iracheno è più un luogo sicuro per lei, e nell’estate del 2023 Maysoon Majidi decide di fuggire anche da lì. Il 26 dicembre 2023 parte con il fratello e altre 75 persone. Di loro non è rimasto più nessuno in Italia. Solo Majidi e l’uomo che guidava l’imbarcazione. Entrambi arrestati per scafismo.
A 200 km di distanza, dietro le sbarre del carcere di G. Panzera, a Reggio Calabria si trova Marjan Jamali, una donna iraniana arrestata lo scorso ottobre, anche lei per presunto scafismo. Marjan era fuggita da un marito violento e dal regime degli Ayatollah in cerca di una nuova vita per lei e per il figlio di otto anni, ma è stata arrestata appena arrivata in Italia. Ad indicarla come “colei che aveva preso i cellulari delle persone a bordo” sono stati tre uomini, gli stessi che dai suoi racconti avrebbero provato a stuprarla durante la traversata. Subito dopo l’arresto, il figlio è stato affidato ad una famiglia afghana. “Inizialmente avevo capito che portavano il bambino in un luogo più sicuro” racconta Jamali a Nazari che è andata a trovarla. “Ogni volta che provavo a capire cosa stesse succedendo, l’interprete mi diceva che era tardi e ne avremmo parlato domani”, continua. Nessuno degli interpreti che le sono stati assegnati parlava farsi. Dopo settimane senza sapere dove fosse il figlio, Marjan Jamali decide di ingerire una ad una 16 pillole calmanti. 16 pillole per provare ad uccidersi. Adesso la donna è ancora in carcere, il suo avvocato Giancarlo Liberati ha chiesto per lei i domiciliari, per poter ricongiungersi al figlio, ma non le sono ancora stati concessi.
Si tratta di una giovane donna incredula e una madre disperata. Quelle di Maysoon Majidi e Marijan Jamail sono due storie diverse che, se non fosse per il tragico destino che l’Italia gli ha riservato, probabilmente non si sarebbero mai trovate una accanto all’altra.
“Abbiamo un sistema normativo che incolpa e accusa di crimini internazionali le vittime, individuando come colpevoli persone che dovrebbero godere della protezione internazionale, persone che hanno come unica colpa quella di aver avuto la disperazione che le ha portate ad affrontare il viaggio in mare”, spiega l’attivista Shady Alizadeh. “L’aberrazione del testo unico sull’immigrazione, e del decreto Cutro – continua – è che non riconosce, anche in caso di colpevolezza, l’esimente di essere una persona che ha diritto a protezione internazionale. L’Italia non riconosce che le persone accusate avevano necessità di fuggire dal proprio paese, non riconosce lo stato di necessità, come a dire che: ‘la vostra storia non ci interessa’”. Secondo l’avvocata le accuse di scafismo non sono altro che una ‘gogna pubblica’: “La norma – conclude – è concepita per fare numeri, individuare un responsabile ed alimentare la macchina della propaganda politica”.
E mentre Meysoon Majidi e Marjan Jamali sono in carcere, Roma viene tappezzata dalla Lega di enormi cartelloni che raffigurano donne con il burqa sotto la scritta: “In Europa hai gli stessi diritti di tuo marito”. Ma si tratta della stessa Europa che quelle donne le ha messe dietro le sbarre.
Inoltre, la Lega insieme al resto della maggioranza parlamentare, lo scorso novembre in Commissione Affari Costituzionali della Camera, aveva votato no agli emendamenti relativi alle donne abusate, presentati dall’opposizione al decreto migranti (decreto legge n.20 del 2023 cosiddetto dl Piantedosi II). L’opposizione aveva proposto che le donne migranti che avevano subito torture, abusi o maltrattamenti venissero ospitate direttamente nei Centri antiviolenza. Ma la maggioranza ha sostenuto che la loro permanenza in questi centri sarebbe dovuta avvenire senza alcun aggravio di spesa per le casse dello Stato. Il che significava penalizzare queste strutture al punto da renderne complesso il loro funzionamento.
Secondo Alizadeh “c’è un filo conduttore di una morale maschilista, violenta e patriarcale che lega sempre di più le destre europee e le destre internazionali, tra cui la Repubblica Islamica dell’Iran. La dialettica utilizzata dal nostro paese contro il corpo della donna è uguale. L’unico fattore differente è la religione. Ma il pensiero, la cultura, il linguaggio, l’atteggiamento nei confronti delle donne, non è tanto diverso tra la destra italiana e il regime degli Ayatollah. Il nostro governo ha promosso una conferenza stampa contro l’aborto. Durante l’8 marzo c’era chi parlava della maternità, per le strade di Roma giravano i pro vita. È il motivo per cui il governo italiano non parla di diritti delle donne ma dei diritti del marito, anche in quei cartelloni”.
Un messaggio quindi che, secondo l’avvocata, reitera uno stereotipo nei confronti di chi è musulmano e che alimenta l’idea che il problema esista solo al di fuori dell’Italia e dell’Europa, non volendo vedere che le modalità con cui il patriarcato si manifesta sono molteplici e attraversano ogni contesto sociale e culturale.
“È altrettanto inaccettabile – denuncia l’associazione “A buon diritto” – lo sguardo coloniale attraverso cui si vuole ‘rendere consapevoli’ le donne musulmane, come se queste avessero bisogno di qualcun altro, possibilmente bianco e occidentale, per riuscire a essere libere e ad autodeterminarsi”.
Se si pensa a Meysoon Majidi e Marjan Jamali, ci si chiede quali diritti garantisca l’Italia a due donne in carcere senza nessuna colpa, alle quali viene impedito di chiedere protezione umanitaria. I casi delle due “scafiste”, infatti, evidenziano ancora una volta l’ipocrisia della destra italiana che da un lato si fa portavoce dei diritti delle donne, italiane e non, dall’altro continua a rinvigorire un linguaggio e delle politiche patriarcali, potenzialmente diretti a loro volta ad alimentare stereotipi razzisti e xenofobi.
Degli stranieri residenti in Italia almeno la metà sono donne. Infatti, nel 2021 sono state censite circa 2,6 milioni di donne con cittadinanza estera, un numero pari al 50,9% dell’intera popolazione straniera residente nel nostro Paese. Negli ultimi 50 anni le donne migranti hanno costruito un pezzo di storia dell’Italia, viaggiando da sole per inserirsi nel mercato del lavoro, mosse da un progetto migratorio dall’impronta prevalentemente emancipatoria. Una presenza, quella femminile, che si è affermata in Italia anche sul piano quantitativo come componente maggioritaria, ma che continua a essere poco riconosciuta e considerata nella sua specificità. A dirlo è l’ultimo rapporto del Centro Studi e Ricerche Idos, primo studio che analizza in maniera organica il fenomeno dell’immigrazione femminile in Italia, che dimostra come le condizioni di vulnerabilità delle donne migranti dipendono da quelle che esse trovano nei contesti di inserimento.
Secondo lo studio, le strutture sociali ed economiche che le donne migranti incontrano nel nostro Paese sono determinanti nello schiacciarle in posizioni, ancora oggi, subalterne. La più recente decisione in materia di diritti delle donne e tutela contro la violenza sistemica è quella contenuta nella direttiva Ue approvata lo scorso 6 febbraio. Il provvedimento esclude dalla tutela le donne migranti e privilegia ancora una volta l’approccio del controllo a quello della tutela. L’accordo finale, infatti, non garantisce che le donne migranti, sprovviste di documenti, possano sporgere denuncia contro gli abusi senza rischiare l’espulsione. Una decisione che ha un peso particolare in Italia, paese di primo approdo della rotta mediterranea e balcanica, che si occupa di respingimenti o detenzioni amministrative.
È per lo stesso modo di interpretare il processo migratorio sotto una lente securitaria ed emergenziale e mai di tutela, che Meysoon Majidi e Marjan Jamali sono ancora in carcere. Due donne fuggite in cerca di libertà ed emancipazione, una per motivi politici, etnici e di genere, l’altra per poter crescere il proprio figlio lontano dal marito violento e da un regime oppressivo. In Italia entrambe continuano a vedere solo sbarre davanti ai propri occhi. A breve ci sarà la prima udienza del processo contro Meysoon Majidi, mentre Marjan Jamali resta in carcere a Reggio Calabria senza sapere se e quando potrà riabbracciare il figlio.
Immagine di copertina: Foto del carcere di Reggio Calabria, tratta dal web-reportage “Inside carceri” di Antigone e Next New Media