In piena campagna, lungo una strada punteggiata di papaveri, c’è una cascina con un passato oscuro che sta cambiando vita. Ci si arriva volendo anche con l’autobus numero 77, che dalla periferia sud di Milano porta a Chiaravalle, alla celebre abbazia del 1221. Sull’autobus, un uomo anziano in completo grigio si sporge dal sedile per unirsi alla conversazione.
“È della casa che state parlando?”, chiede con cortesia. “Che bel posto. Ci sono stato. Il cancello era aperto e sono entrato e c’erano tutti questi fiori… È bello vederla aperta, me la ricordavo tanto tempo fa. Io abito lì vicino, e dalle nostre parti non c’è molto. Per di più, il mio migliore amico fra poco si trasferisce e resterò da solo. Sono invalido al cento per cento e non posso fare molto, ma credo che lì ci andrò. Si può anche solo sedersi su una panca e guardare gli alberi, è proprio un posto bellissimo”.
È un commento insolito per quella che di fatto sarà una struttura di rifugio, accoglienza e transizione – pensata soprattutto per il riscatto femminile, per riprendere le forze dopo violenze ed esperienze traumatiche, e avviarsi protette dal mondo verso una propria autonomia.
La residenza temporanea è stata pensata per accogliere fino a 70 persone alla volta, partendo dalle donne, straniere o italiane, che hanno subito violenza o vengono da percorsi difficili, scelte dalle liste dei Centri di Accoglienza Straordinaria e dalle liste della Residenzialità Sociale Temporanea del Comune di Milano, comprese quindi famiglie italiane con difficoltà abitative.
Le donne potranno essere ospitate da sole, o con i loro bambini ed eventualmente il loro compagno o marito, ma come regola non saranno ospitati uomini da soli. L’idea è che le persone qui possano restare per periodi fra i 6 e i 12 mesi, ma con un’elasticità commisurata a come si evolve il loro percorso. Ad abitare per prima nella Casa è la famiglia di origine sudamericana che lavora nel casotto del custode, e che a sua volta si trovava nella lista comunale delle persone con forte disagio abitativo. Qui lavoreranno fissi quattro operatori con competenze pedagogico-educative della rete di imprese sociali Passepartout, che a loro volta possono contare su una rete di consulenti esterni e di mediatori culturali ad hoc per i singoli casi.
Milano questa casa se l’è ripresa. Fin dall’inizio, poiché era in buone condizioni, l’intenzione del Comune è stata di destinarla a questo uso. È la proprietà più grande mai confiscata alla mafia in Lombardia, dove di immobili così ce ne sono quasi mille, di cui 158 in gestione al Comune di Milano. Nel 2014, quando i posti letto disponibili in città non bastavano, la residenza aveva fatto brevemente da rifugio per alcuni dei profughi siriani che arrivavano alla stazione Centrale di Milano.
Il cancello è aperto, il vialetto assolato. Non c’è più la piscina del trafficante calabrese Pasquale Molluso, condannato per furto di autotreni, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, messa in circolazione di banconote false e falsi titoli di Stato e prestito ad usura – che vandalizzò la villa quando venne costretto a lasciarla nel 2009, prima che fosse ufficialmente confiscata dall’autorità giudiziaria nel 2012. Sono state asportate anche le colonne neoclassiche che gli operatori avevano trovato nel grande soggiorno col camino. Ma si vedono ancora i marmi delle scale, del pavimento del salone e dei pavimenti di altri locali – non solo materiali pregiati e segno di ostentazione, ma in qualche modo un promemoria di quale sia stata l’evoluzione della villa, da estremo lusso privato a casa condivisa che viene restituita ai bisogni della comunità. I marmi lucidi formano uno strano contrasto con il bianco e blu delle nuove, grandi stanze modulari in cui verranno accolte le ospiti. Dalle finestre, al di là della strada e dei campi si intravede il piccolo borgo di Chiaravalle, che fino a oggi ha avuto come polo di attrazione soltanto l’Abbazia.
Le grandi dimensioni non sono tanto quelle della residenza, pur grande – un ibrido fra una cascina e una pretenziosa villa di periferia – ma quelle dei terreni su cui sorge, di cui due ettari di giardino con piante secolari sul retro, e sette ettari di terreno agricolo: una distesa da coltivare che si estende a perdita d’occhio al di là di un cancello da cui si vede, lontanissima, la periferia sud di Milano. Il terreno fa parte integrante del Parco Sud, sorto sui terreni un tempo aquitrinosi e bonificati dai monaci, e oggi di nuovo bonificati ma dai metalli pesanti, per consentire di riprendere la coltivazione. A ridosso del perimetro del giardino, all’ombra dei grandi alberi da frutto, sorgono tante arnie azzurre e gialle, dove lavorano le api che forse un giorno produrranno il miele della Casa Chiaravalle.
Quando arrivo, ci sono gli educatori indaffarati e i muratori che lavorano sul secondo edificio – il primo è stato inaugurato il 20 maggio dal sindaco Sala come primo appuntamento delle celebrazioni di Insieme Senza Muri. Nella grande cucina c’è un andirivieni allegro, e Luca Ranieri, coordinatore degli educatori e dei progetti della Casa, mi spiega che sia i pasti condivisi che il ruolo stesso del cuoco sono pensati come una parte vitale del processo per uscire dal trauma, per tornare a stare con gli altri, ritrovare ruoli e dignità e riaprirsi al mondo. Nessuno sarà obbligato a stare a tavola con gli altri ma potrà sempre farlo, e i pasti rifletteranno la grande varietà etnica delle provenienze degli ospiti – un modo per conoscersi e scambiarsi cultura. E chi vorrà, nella cucina di Casa Chiaravalle potrà impossessarsi di un mestiere che potrà servire anche fuori.
Le prime ospiti stanno arrivando nel mese di giugno, e intanto sotto una tettoia di legno incrocio una schiera di giovani imprenditori che sono venuti a dare una mano a pulire. Si attende anche l’arrivo di un gruppo di architetti che vivranno per un certo periodo nella casa mentre pensano ad alcune soluzioni per la residenza e per il terreno. Casa Chiaravalle ha anche un grande recinto per gli animali, per ora abitato dalle oche e dal mansueto asinello Passepartout, che lo chef Fabio Viola conquista con una carota.
Il progetto, scaturito dalla vincita di un bando nel 2017 da parte di Sistema Imprese Sociali, Arci Milano, Chico Mendes e La Strada, ha bisogno di molte energie e risorse, e le sta già attraendo. Con l’intento di creare socialità, agricoltura e accoglienza – e con un approccio intersezionale molto tipico delle politiche sociali a Milano – al progetto ora gestito da Passepartout partecipano una serie di altri gruppi di lavoro: Agesci Lombardia, Altavia, il Centro Violenza sulle Donne della clinica Mangiagalli di Milano, l’Associazione Guide e Scout italiani, l’Associazione del Borgo di Chiaravalle, NoWalls, la MM Metropolitana Milanese che gestisce le case popolari del borgo, la Cooperativa Alice, la Cooperativa Terrenuove, il Servizio Civile Internazionale e molti altri. Per affrontare le spese di ristrutturazione dell’immobile è stato necessario un mutuo di circa 400 mila euro, ed è prezioso il supporto dei donatori, dall’Associazione Amici di Casa Chiaravalle fondata dall’imprenditore Carlo Todini al gruppo BPM presieduto da Umberto Ambrosoli.
A questo si aggiunge l’aiuto di cittadini volontari che contribuiranno alla manutenzione del bosco e agli orti, alla permacultura, a una sartoria e a una scuola di italiano interna. Qui si svolgeranno corsi di formazione professionale, laboratori di convivenza, attività artistiche ed eventi aperti ai visitatori.
Una delle caratteristiche sperimentali della residenza è che non sarà chiusa verso l’esterno. “Stiamo cercando un equilibrio fra spazi di discrezione e di protezione per i nostri ospiti, che tengano in conto il loro percorso verso un nuovo equilibrio, e allo stesso tempo la loro socialità, la necessità di tornare a incontrare gli altri, e infine, anche la potenzialità della cascina come risorsa per il borgo”, mi dice la presidente di Passepartout, Silvia Bartellini.
Mi racconta che per tutto il periodo del progetto, e in questo anno di lavori di ristrutturazione, non c’è mai stata ostilità. Sembra che i residenti del borgo aspettino di vedere cosa ne verrà fuori, con curiosità. “E noi”, dice Bartellini, “siamo determinati a proporci da subito come una risorsa, come uno spazio che tutti possono usare, compatibilmente con le esigenze dei nostri ospiti”. A Casa Chiaravalle si spera di avere un orto condiviso, che porti qui le persone che vogliono occuparsi delle loro piantine, e di organizzare eventi e accettare proposte per ospitare appuntamenti artistici e incontri. “In fondo, speriamo anche che la casa contribuisca a far crescere la vita del borgo” – un paesino che ha un solo, costoso ristorante che vive del turismo dell’abbazia.
Infine, nel clima crudele che si è creato nell’ultimo anno intorno al tema immigrati, e in considerazione delle situazioni traumatiche da cui arrivano le ospiti della Casa, c’è da considerare anche l’aspetto della sicurezza. Ma Bartellini non percepisce un reale pericolo: “di sicuro stiamo valutando tutte le tutele possibili per i nostri ospiti, ma non sono per niente preoccupata, perché fin dall’inizio intorno a questo progetto c’è stato un enorme affetto, che ci ha accompagnato in tutto il lavoro e che ci fa sentire al sicuro”.
In copertina: nella cucina di casa Chiaravalle, Hortense Melingui (Camerun), Theresa Ajiri Ugbeta (Nigeria), Fatima Umbuya (Sierra Leone), e lo chef Fabio Viola (fotografia di Antonio Martella)