Il 15 luglio il Parlamento si riunirà per approvare il rifinanziamento alla cosiddetta Guardia costiera libica. Si tratta di un ulteriore stanziamento che porta a 10,5 milioni di euro il contributo verso i guardiacoste libici rispetto ai 10 milioni del 2020, per un totale di 32,6 milioni dal 2017. Nonostante gli appelli arrivati da chi si oppone all’accordo, – tra cui attivisti e attiviste, Ong e associazioni del terzo settore da SOS Mediterranea all’Asgi – il Governo è ancora ben lontano da un’abrogazione effettiva del Memorandum d’Intesa firmato nel 2017 per volere dell’ex ministro dell’interno Marco Minniti.
Il 15 luglio il Parlamento italiano finanzierà nuovi accordi di cooperazione in Libia.
Omissioni di soccorso, respingimenti, stupri, torture: in mare e nei campi libici.È questo che l'Italia finanzia?
Invitiamo tutte e tutti a dire
Io #nonsonodaccordo #NienteAccordiConLaLibia pic.twitter.com/nuGmKEMVzW— ResQ – People Saving People (@resqpeople) July 8, 2021
Bisogna tener presente che la cooperazione tra Italia e Libia per reprimere le migrazioni non è recente. Con il Trattato di Amicizia stipulato a Bengasi nel 2008, ratificato nel 2009, e poi con la Dichiarazone di Tripoli del 2012 le parti contraenti si sarebbero impegnate a promuovere un sistema di controllo delle frontiere terrestri in Libia e l’Italia si sarebbe impegnata a finanziare il piano per la realizzazione di tale sistema. Nel Trattato di Amicizia, salvo alcuni principi generali da rispettare sottolineati nei primi sette articoli, con un vago riferimento al rispetto dei diritti fondamentali degli individui – si citano la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – non vi sono particolari riferimenti al rispetto dei diritti fondamentali di chi migra nel Mediterraneo.
Non è un caso che nel 2009, alla luce dell’evidente negligenza nei confronti dei diritti di donne, uomini e bambini migranti, l’Italia si sia resa artefice di gravi violazioni nei confronti di persone eritree e somale, salpate dalla Libia. Si tratta del caso Hirsi Jamaa c. Italia per cui l’Italia, con una sentenza storica emanata nel 2012, è stata condannata all’unanimità dalla Corte Europea dei Diritti Umani per aver riportato le persone recuperate in acque internazionali in Libia, violando diversi articoli della Cedu (Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo). L’Articolo 1 secondo cui le parti contraenti della Convenzione hanno l’obbligo di rispettare i diritti degli individui sotto la propria giurisdizione – cosa che l’Italia non ha fatto “accogliendo” i migranti a bordo delle proprie navi, che sono territorio italiano, per poi riportarli in Libia; l’Articolo 3, secondo cui nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti – rischio che secondo le analisi sui Paesi di origine dei cittadini eritrei e somali effettuati dalla Corte, avrebbero potuto correre se rimpatriati in Libia o nei rispettivi Paesi; l’Articolo 4 Protocollo 4, secondo cui le espulsioni collettive di stranieri sono vietate – respingimento che l’Italia ha effettuato riportando le persone che in quel momento erano sotto la propria giurisdizione in Libia; l’Articolo 13 secondo cui ogni individuo ha diritto a un ricorso effettivo se ha motivo di credere che i propri diritti siano stati violati – l’Italia non ha garantito questo diritto.
Uno dei punti cruciali del caso Hirsi Jamaa risiede nell’Articolo 4 Protocollo 4, ossia la proibizione dell’espulsione collettiva di persone straniere, la cui natura deriva anche dall’Articolo 33 della Convenzione di Ginevra sullo Status dei Rifugiati, secondo cui il respingimento di migranti e rifugiati è illegale. Tuttavia, nonostante esistano queste norme vincolanti, gli Stati continuano a ignorarle e ad adottare politiche migratorie illegittime ma la cui legittimità deriva, paradossalmente, sia dalla creazione di questi accordi bilaterali che dal comportamento generale adottato dagli Stati europei stessi. In questo caso i così chiamati pushbacks (respingimenti) sono diventati la norma per contrastare le migrazioni – con oltre 2000 rifugiati deceduti nel Mediterraneo proprio per questa tecnica di deterrenza, secondo una recente analisi del Guardian – aggiungendo però un tassello ossia quello di delegare le operazioni di “ricerca e soccorso” a Paesi terzi (quali appunto la Libia). Più che di “ricerca e soccorso”, specie se si parla della cosiddetta Guardia Costiera Libica, si tratta di “intercettazione e cattura”. Le milizie libiche infatti hanno il dovere, sulla base degli accordi stipulati con l’Italia, di intercettare e fermare le imbarcazioni su cui viaggiano le persone che salpano dalle coste libiche, utilizzando ogni mezzo necessario – non sono mancati casi in cui le milizie libiche hanno provocato il naufragio delle imbarcazioni o in cui hanno iniziato a sparare contro i migranti.
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Come viene stabilito dalle leggi internazionali sulla salvaguardia della vita in mare (come la Search and Rescue Convention o l’International Convention for the Safety of Life at Sea), lo sbarco di persone salvate in mare deve avvenire in un posto sicuro e la Libia è stata più volte categorizzata come Paese non sicuro in cui vengono continuamente denunciati trattamenti inumani e degradanti riservati alle persone riportate nei centri di detenzione. In aggiunta, la Libia non è parte contraente della Convenzione di Ginevra sullo Status dei Rifugiati del 1951 e del suo Protocollo del 1967, di conseguenza per migranti o rifugiati non è neanche possibile formalizzare richiesta di asilo in quel Paese. Inoltre, finanziare la Libia non significa solamente supportarla con l’acquisto di motovedette per le operazioni di “intercettazione e cattura”: agli articoli 2(2) e 3 del Memorandum d’Intesa del 2017 si afferma che l’Italia si impegna, rispettivamente, a finanziare i “centri di accoglienza” in Libia e a finanziare la “formazione del personale libico”. Tuttavia tali “centri di accoglienza” sono però centri di detenzione, in cui donne e uomini migranti vengono sistematicamente e arbitrariamente rinchiusi e il “personale libico” è costituito da milizie i cui metodi si basano su torture, stupri e ogni altra sorta di abuso. Ricordiamo, inoltre, che quello che viene definito “personale libico”, oltre ai crimini sopra menzionati, si è reso artefice anche di traffico di esseri umani.
Si pensi a Abd al-Rahman Milad, conosciuto come “Bija”, che nel 2017, si è recato in Sicilia per discutere con l’intelligence italiana sul controllo dei flussi migratori verso l’Italia. Nello stesso anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva inserito Bija nella lista di criminali coinvolti nel traffico di esseri umani, riconoscendo il suo coinvolgimento, insieme ad altri membri delle milizie libiche, nell’arresto delle imbarcazioni di migranti, facendole affondare, utilizzando armi da fuoco. E nonostante Bija sia stato prima arrestato a Tripoli per poi essere rilasciato per “mancanza di prove” – e senza alcun dettaglio rivelato dalle autorità libiche, lasciando quindi molti dubbi sulla trasparenza nelle indagini –, è evidente che l’Italia si sia resa, e continui a essere, complice di gravi violazioni dei diritti umani di chi migra.
L’accordo Italia-Libia non è altro che il pezzo di un puzzle più grande, basato sulle politiche migratorie securitarie e basate sull’esternalizzazione delle frontiere adottate dall’Unione Europea, la quale si trincera in una fortezza sulle cui frontiere si consumano violenze – si pensi al caso dell’agenzia Frontex e al suo coinvolgimento nei respingimenti. Respingimenti, detenzione, sorveglianza, controllo e rimpatri sono le parole d’ordine attuali che schiacciano il diritto alla libertà di movimento, il quale diventa un privilegio per pochi – infatti, come riportato nella ricerca Migration: African perspectives (2020) della Foundation for European Progressive Studies, nel novembre del 2018, all’African Youth SDGs Summit tenuto ad Accra (Ghana), diversi dei giovani provenienti da quasi tutti i Paesi del continente africano e che hanno partecipato all’evento hanno affermato che è quasi impossibile per loro ottenere un visto per viaggiare in Europa.
Non solo è necessario smettere di finanziare la Libia, bisogna arrivare a una rottura definitiva della cooperazione con quest’ultima favorendo politiche di apertura per una mobilità internazionale accessibile a tutti e tutte.