“Questo significa che in mare non c’è nessuno?”. È stata questa la reazione dei migranti soccorsi dalla Sea Watch 3, alla notizia che, una volta sbarcati a Messina, la nave sarebbe rimasta ferma in porto. Dopo la comunicazione ricevuta dall’equipaggio, al senso di sollievo per aver raggiunto l’Europa si è associata la preoccupazione per chi in queste ore sta provando ad attraversare il Mediterraneo; ma che, contrariamente a quanto successo a loro, non incontrerà alcuna nave, se non quella della guardia costiera libica. Dal 27 febbraio infatti la Sea Watch 3, imbarcazione dell’omonima ONG tedesca, è ferma nel porto del capoluogo siciliano, dove dovrà rimanere fino al 12 marzo: disposizioni del governo italiano legate alla diffusione del Covid19. L’equipaggio è a bordo, mentre i migranti soccorsi – 194 persone, tra cui diciannove donne di cui una incinta, e trentuno minori – sono stati trasferiti nell’ex caserma Gasbarro. “Quando abbiamo comunicato ai migranti che dovevano fare la quarantena hanno detto ‘La facciamo per proteggerci dal virus che c’è in Italia?’ In realtà non è proprio così..”, racconta Gennaro Giudetti, mediatore a bordo.
Tre le operazioni in cui è stata impegnata la nave da quando è partita da Valencia il 14 febbraio: la prima il 19 febbraio, e ha coinvolto centoventuno persone che viaggiavano su un gommone: tra loro molti somali e bengalesi, oltre a persone provenienti dall’Africa subshariana occidentale – Gambia, Guinea, Costa D’Avorio, Togo. Subito dopo la ONG aveva inoltrato all’Italia la richiesta di poter attraccare. “Siamo comunque rimasti in area SAR, e abbiamo salvato altre 73 persone”, ci racconta Valerio Muscella, fotografo presente a bordo. Il 24 febbraio, infatti, la nave effettua altri due soccorsi, di cui uno di notte. “Un salvataggio molto complesso a causa dell’oscurità”, ricorda Giudetti, cui fa eco Muscella: “Di notte è tutto diverso, è tutto nero: il cielo, il mare, si intravedono solo le luci delle barche”. Cinquantaquattro le persone – per lo più somale e bengalesi – salite sulla Sea Watch 3 nella prima operazione. Diciannove – tutte sudanesi – nella seconda. In entrambi i casi viaggiavano su imbarcazioni di legno. La richiesta di un porto sicuro rivolta all’Italia, e diretta anche a Malta, è ignorata per tre volte. Lo stesso succede con le chiamate al Maritim Rescue Coordination Center, responsabile del coordinamento delle operazioni di soccorso. “Né l’ufficio maltese né quello italiano hanno risposto”, ci spiega al telefono il capo missione di Sea Watch 3 Stefan Jarosh, denunciando “una grave e costante mancanza di comunicazione e coordinamento”.
Finalmente il 25 febbraio l’Italia dà l’ok allo sbarco, ma “le autorità annunciano un periodo di quarantena”, come specifica Sea Watch tramite social.
“Siamo arrivati all’alba, mentre ci si svegliava. Solo quando entrando nel porto è stata issata la bandiera italiana e si sono iniziate a vedere le luci di Messina, i migranti si sono resi conto che effettivamente erano arrivati in Europa. Si percepiva una sensazione di tensione e liberazione insieme, c’era qualcosa nell’aria che gridava ce l’abbiamo fatta davvero! Un’emozione che però è stata accompagnata dal pensiero rivolto indietro, a chi sarebbe continuato a partire dalla Libia: perché la situazione a cui saremmo andati incontro, con la quarantena e il blocco della nave, era stata condivisa tra tutte le persone a bordo”, racconta Muscella.
Intanto, i membri della Sea Watch chiedono al governo italiano il motivo di questa misura. “Non credevamo ci avrebbero davvero messi in quarantena”, confessa Jarosh, evidenziando come l’equipaggio abbia seguito tutte le procedure richieste. Sea Watch ha da subito messo a disposizione il proprio team di medici a bordo, fornendo dati in tempo reale. Inoltre durante lo sbarco, alla presenza delle forze dell’ordine, dell’Asp e del Comune, sono state eseguiti tutti gli accertamenti. In nessun caso sono stati riscontrati sintomi. Eppure i migranti sono in isolamento e sotto sorveglianza sanitaria, e la nave resta ferma, con un’ordinanza della Capitaneria di porto che dispone l’interdizione alla navigazione di qualsiasi unità navale nel raggio di 200 metri. All’equipaggio le istituzioni italiane non hanno corrisposto alcun tipo di assistenza: “I monitoraggi li portiamo avanti in modo autonomo con il nostro team medico, che misura la temperatura tre volte al giorno e comunica i dati al governo come richiesto” spiega il capo missione.
Secondo Sea Watch la decisione del governo avrebbe poco a che fare con il virus, ma sarebbe piuttosto “discriminatoria”, come specifica la portavoce della ONG Giorgia Linardi.
La decisione di fermare le navi appare ancora più politica se si considera che interessa esclusivamente le imbarcazioni delle ong: la stessa sorte è toccata infatti alla Ocean Viking, con cui operano Msf e Sos Mediterranée, ancorata al largo di Pozzallo dal 23 febbraio, mentre le 276 persone soccorse sono in quarantena nell’hotspot della città nonostante dai test non sia emerso alcun caso di Covid19. Per nessun’altra imbarcazione, turistica, commerciale o mercantile, sono state adottate tali misure. “Ci domandiamo perché questo tipo di disposizioni si applichino solo alle imbarcazioni di salvataggi” chiedono dalla Sea Watch, denunciando che “forse lo scopo non è contenere la diffusione di un virus ma evitare che si possano salvare persone in pericolo”. Proprio per questo, Sea Watch chiede di poter tornare a operare: “Vogliamo poter tornare in mare, per fare quello che dobbiamo fare: salvare vite”, dichiara Stefan Jarosh.
Le conseguenze di questo blocco non stanno tardando a palesarsi: il 28 febbraio un gommone con a bordo 44 uomini ha lanciato l’allarme per 24 ore senza ricevere risposta, finché è stato riportato indietro dalla guardia costiera libica.
I rischi che corrono queste persone si leggono negli occhi dei migranti soccorsi dalla Sea Watch 3, sulla loro pelle, nelle loro testimonianze. “I naufraghi erano molto impauriti perché pensavano che fossimo libici. Quando ho detto I am italian hanno urlato di gioia”, dichiara Giudetti, proseguendo: “Mi sono venuti i brividi ascoltando i racconti delle persone che abbiamo soccorso. Quanto succede in Libia è impossibile da credere. Le persone hanno addosso i segni delle torture”. Le ferite sono evidenti: tagli, bruciature di sigaretta, segni di percosse. “Quando vedono arrivare il gommone, al terrore di trovarsi davanti la guardia costiera libica si sostituisce la gioia incontenibile di essere davanti a un soccorso, c’è una tensione altissima tra le persone mista a una sensazione di sollievo. Solo quando vengono trasferite sulla nave e ricevono le prime misure di accoglienza cadono letteralmente stremate – racconta Muscella – Oltre alla Libia delle violenze e della prigionia queste persone hanno alle spalle giorni, a volte mesi di viaggio. E spesso il Mediterraneo non è l’unico mare che attraversano”.
È il caso ad esempio dei cittadini somali, presenti in gran numero tra i soccorsi dalla Sea Watch 3. Scappano dagli scontri causati dal gruppo terrorista islamista Al Shebab, che si muove tra Kenya e Somalia, e sono costretti a spostarsi fino al nord del paese per provare a raggiungere lo Yemen in barca, e poi da lì imbarcarsi di nuovo, verso il Sudan, in “viaggi di nove giorni, dove si aspetta il momento giusto nascosti negli scantinati e in case abbandonate, mentre intorno si sentono i bombardamenti sauditi”, come spiegano diverse persone a bordo. Dal Sudan arrivano a Kufra, in Libia, tristemente nota per la grande prigione dove sono rinchiusi centinaia di migranti. Quasi tutte le persone a bordo della Sea Watch sono passate da qui, “e il loro sguardo cambia quando ne parlano”, racconta Muscella. Da Kufra il viaggio prosegue nel deserto e poi alla volta delle città del nord: Zawiya, Karabuli, Tajura, dove incontrano i trafficanti: se sono liberi, perché se invece si trovano in carcere sono i trafficanti che incontrano loro. Diverse persone a bordo della Sea Watch denunciano che la polizia libica fa entrare gli smugglers nelle prigioni, che propongono così i viaggi: l’opinione di molti testimoni è che si venga messi in carcere proprio per questo. Un business su cui lucrano trafficanti e polizia, visto che “i soldi vanno un po’ allo smuggler, un po’ al carceriere”, spiega Y., giovane cittadino somalo.
Spesso, poi, chi è respinto dalla guardia costiera libica viene riportato nelle prigioni, dove resta finché non riprova a partire grazie ai soldi mandati dalle famiglie o, in mancanza di questa possibilità, al pagamento del viaggio tramite lavori forzati.
Anche l’Oim è tornato recentemente a lanciare l’allarme sulla Libia: “La situazione continua a peggiorare” si legge nell’appello rivolto alla comunità internazionale. “Sono circa 200 i migranti riportati a Tripoli poche ore dopo che il porto della capitale venisse bombardato”. Secondo i dati di Oim, queste persone si vanno ad aggiungere alle “1700 riportate in Libia dalla Guardia Costiera libica dall’inizio dell’anno. Solo nelle prime due settimane di gennaio sono stati 1.000 i migranti riportati indietro, 600 quelli trasferiti in una struttura controllata dal ministero dell’Interno libico. Di queste persone non si ha più notizia. Oltre 2.000 sono ancora detenute in condizioni drammatiche”.
Un circolo vizioso che si abbatte dolorosamente sulla vita dei migranti. E che, senza la presenza delle ong nel Mar Mediterraneo, rischia di aggravarsi.
In copertina: la prima operazione di salvataggio di Sea Watch 3, il 19 febbraio 2020. Foto di Valerio Muscella